Foolish Wives (Femmine folli, 1922)

Erich von Stroheim

Foolish Wives 1

Sentivo che gli spettatori ne avevano abbastanza dell’insipida Pollyanna, di quelle  storie con eroine-bambole, bionde platinate dalla verginità eterna, e con eroi asessuati dal petto piatto e senza peli, eroi tanto incolori quanto le eroine. (…) Credevo che la proiezione cinematografica potesse essere una testimonianza di drammi reali, di tragedie reali che scoppiano ogni momento e ogni giorno in tutti i paesi; amore vero, odio vero, uomini e donne reali che vivono pienamente le loro passioni.

Erich von Stroheim [1]

Soddisfatto del successo ottenuto da Stroheim con i suoi due film precedenti, fu lo stesso Carl Laemmle a volergli assegnare un’opera che portasse ancora più prestigio alla Universal, di cui era a capo. Il regista vi si buttò con tutto il suo entusiasmo, ma le sue ambizioni stavolta erano ben al di sopra delle aspettative dello Studio. Le riprese di Foolish Wives (Femmine folli, 1922), terzo, monumentale film di Erich von Stroheim, durarono circa un anno. Secondo la pubblicità della Universal, il costo sarebbe stato di oltre un milione di dollari, ma è probabile che non abbia raggiunto gli 800.000, una cifra comunque enorme. Per trasformare questo enorme dispendio in un lancio pubblicitario, Laemmle  fece erigere a Broadway un cartellone gigante dove veniva aggiornata di volta in volta la favolosa cifra spesa per il film, e dove l’iniziale del nome di Stroheim era scritta con il simbolo del dollaro.

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Da qui nacque la sua nefasta fama di regista più dispendioso del cinema, nonostante anche Griffith e DeMille spendessero cifre simili, se non superiori, per i loro kolossal. Quello che si rimproverava a Stroheim non era tanto il costo, ma lo spreco[2]: Stroheim continuava a girare chilometri e chilometri di pellicola, ripetendo più e più volte le scene. Alla fine le macchine da presa gli furono confiscate. Il suo piano di realizzare un film di otto ore[3], da dividere in due parti, fu rigettato da un sistema che oramai aveva preso le distanze da progetti grandiosi, ma rischiosi e fallimentari come Intolerance (1916). Stroheim aveva le sue ragioni per proseguire la sua corsa a testa bassa, ragioni artistiche che contrastavano drammaticamente con quelle economiche e commerciali.

La visione di Stroheim era una visione ampia: a tal punto che egli non poteva accettare di restringerla a una lunghezza convenzionale. Questo sarebbe stato il primo dei tanti sforzi troncati compiuti da un maestro che sentiva, come i romanzieri naturalisti che tanto ammirava, che la realtà, nonché l’arte, procedeva per accumulo di dettagli. Maggiori i dettagli, più grande l’accuratezza, più grande l’accuratezza, maggiore l’arte.[4]

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Una volta terminato, Foolish Wives constava di trentaquattro rulli, ridotti dallo stesso Stroheim a ventuno, per una durata complessiva di oltre quattro ore. La Universal fece eliminare un terzo del girato prima ancora che il film fosse presentato a New York. Ciò che ne rimase fu poi ulteriormente dimezzato su consiglio del giovane producer Irving Thalberg, il quale fece eliminare anche tutte le didascalie scritte dall’autore. Al definitivo sfacelo contribuirono poi i censori, i quali richiesero il taglio o l’accorciamento di diverse scene, sollecitati dall’insorgere di organizzazioni religiose e comitati di matrice puritana. Per oltre quarant’anni, il film fu visto in questa versione estremamente ridotta di sette rulli per 90′ di proiezione, in cui le intenzioni dell’autore erano state completamente stravolte. Ma questo non impedì a diversi grandi autori, fra cui Jean Renoir, di esserne ispirati. Dopo un primo assemblaggio, nel 1972, il film fu portato a una durata di 107’. Nel 1995, l’American Film Institute ha curato un nuovo restauro recuperando spezzoni di pellicola provenienti da diversi archivi e portando il metraggio a una durata complessiva di 144′ circa, reinserendovi anche le didascalie originali di Stroheim.

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Naturalmente il motivo di tale accanimento sull’opera non era solo il costo o la durata, ma il cinismo di una vicenda del tutto priva di sentimentalismo, che si temeva fosse insostenibile per un pubblico abituato a storielle di ben più facile consumo. Di fatto però il film, sebbene stroncato quasi all’unanimità dai critici americani, ebbe comunque successo e gli incassi ripagarono la Universal del suo grosso investimento. La trama, in partenza, è simile a quella di Blind Husbands (Mariti ciechi, 1919), esordio alla regia di Stroheim: un luogo di villeggiatura (lì la montagna, qui il mare e i casinò), una donna sposata, giovane e un po’ annoiata, un marito rispettabile ma distratto dai suoi affari e un (falso) ufficiale che corteggia la donna.

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Su di un triangolo amoroso si basava anche The Devil’s Passkey (La chiave del diavolo, 1921), ambientato a Parigi: un film assegnato a Stroheim sull’onda del grande successo del primo e che egli realizzò in tempi piuttosto rapidi, per poi non curarsene più, immerso com’era nel suo nuovo progetto. Quel film, che non è stato più visto dall’anno della sua uscita, fu anch’esso in gran parte manomesso dalla casa di produzione, che, accorciandolo in modo indiscriminato rese difficile al pubblico seguirne la trama[5]. Forse anche per questo il film accolto tiepidamente sparì ben presto dalla circolazione. Lo stesso Stroheim non vi accennò nemmeno una volta nelle interviste che rilasciò nel corso dei decenni successivi. Tutto ciò che ci resta sono la sinossi e qualche foto di scena.

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Stroheim era interessato dal fenomeno degli americani in Europa (prima il Tirolo, poi Parigi, ora Montecarlo), lui che era un europeo in America. Lo colpiva il contrasto fra l’americano medio, puritano, ingenuo e attento solo al denaro e alla carriera, e l’europeo raffinato ma decadente. A differenza dei primi due film, in Foolish Wives il triangolo amoroso non domina l’intero impianto narrativo, ma costituisce solo un punto di partenza, una delle tante piste narrative che Stroheim aveva in mente, un surplus narrativo che non era in funzione della trama, quanto di un discorso assai più stratificato, e del quale la versione che ci è pervenuta può rendere conto solo in modo molto parziale. Il cineasta avrebbe voluto girare il film nella Montecarlo reale, ma la casa di produzione glielo rifiutò; allora fece ricostruire in studio parte della città in scala 1:1, compresi la Place Centrale, il Casinò e il Café de Paris. Gli fu negato il realismo, per contro il film risultò in tal modo «di un delirante iperrealismo»[6].

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La prima didascalia definisce Montecarlo come una città «irresponsabile e gaia come non mai, da quando è stato firmato l’armistizio». Il film è infatti ambientato subito dopo la guerra e l’ambizione di Stroheim era quella di intessere un grande cineromanzo sulla vita in Europa nel dopoguerra, in tutta la sua decadenza, mostrando a latere gli strascichi della guerra da poco conclusasi (reduci mutilati, bambini con caschi da soldato, etc.) Al tempo stesso, il fatto che la città fosse stata ricostruita in studio permetteva a Stroheim di avere come bersaglio occulto la stessa Hollywood: sorta di grande casinò capace di attrarre persone di ogni tipo e nazionalità in cerca di fama, successo, soldi. La città europea decadente si fonde e s’identifica con la capitale del Falso, del simulacro,  luogo eletto alla crezione di duplicati di luoghi lontani ed esotici il più delle volte da cartolina, ma che nel caso di Stroheim sono più veri del vero.

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Il soggetto del film tematizza questo concetto di falsità in vari modi: non solo Karamzin e le sue due “cugine” millantano inesistenti origini nobiliari, ma in più, tramite il falsario Ventucci, spacciano banconote false, sono cioè doppiamente simulatori. A ciò si aggiunga il fatto che lo stesso cineasta, che da anni se ne va in giro spacciandosi per conte ed ex ufficiale del regio Reggimento Dragoni, interpreta qui un conte fasullo. In pratica egli stesso, per primo, con grande ironia, si autodenuncia come grande falsario ma, a differenza del suo personaggio, non verrà smascherato che dopo la sua morte.
Se il tenente van Steuben, nel finale di Blind Husbands, precipitava dalla montagna perseguitato da un avvoltoio (al quale era esplicitamente paragonato), Foolish Wives si apre con la veduta di una grande villa in cima a un’alta scogliera, Villa Amorosa, ove soggiornano Karamzin e le sue due “cugine”, le “principesse” Olga e Vera, che non sono né l’una né l’altra cosa. Da lì sembrano tenere d’occhio, o persino in scacco, l’intera città: un luogo idoneo per degli avvoltoi di tal fatta. Di questa location assolata e isolata, come fuori dal mondo, si ricorderà forse Roman Polanski per il suo Cul-de-sac (1966).

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La presentazione del “conte capitano” Vladislav Sergius Karamzin (lo stesso Stroheim) avviene in questo modo: Karamzin è sugli scogli, subito fuori da Villa Amorosa. Lo vediamo in campo lungo mentre sta sparando contro un bersaglio. Dopo un piano ravvicinato che lo riprende di tre quarti, si passa a un primo piano frontale in cui egli punta la pistola contro lo spettatore e fa fuoco: quasi una citazione della celebre inquadratura del bandito in The Great Train Robbery (La grande rapina al treno, 1903) di Edwin S. Porter. Fra l’altro abbiamo già visto in Blind Husbands come questa modalità dello sguardo (e del gesto) in macchina sia una pratica ricorrente nel cinema di Stroheim, e ne troveremo altri esempi nei film successivi.

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Karamzin costituisce l’iperbole del personaggio stroheimiano, già delineato nei suoi primi film come attore e nel suo esordio alla regia. Un suo tic ricorrente è quello di passarsi la lingua tra le labbra, mentre si appresta a circuire, sedurre e ingannare la donna di turno. Ma se in Blind Husbands la conquista era dettata più dal gusto dell’avventura galante, qui il personaggio è perverso fino al grottesco nella sua incontinenza sessuale, come affetto da satiriasi. Egli è un uomo del tutto sottomesso alle proprie pulsioni. Per riaversi di tutto il suo sperpero di energie, a colazione beve sangue di bue, accompagnandolo con uova e caviale. Secondo Deleuze, è proprio nel segno della pulsione e della degradazione, della crudezza e della crudeltà degli ambienti che in Stroheim avviene il passaggio dall’espressionismo al naturalismo. In Caligari (Robert Wiene, 1919) o in Nosferatu (F.W. Murnau, 1922), la preda designata era una e una sola, di cui il mostro si innamorava, rimanendo a sua volta intrappolato. Qui invece

non siamo più nell’elemento dell’affetto, siamo passati nell’ambito delle pulsioni. In Femmine folli di Stroheim, l’eroe seduttore passa dalla cameriera alla donna di mondo per finire con l’inferma ritardata mentale, spinto dalla forza elementare di una pulsione predatrice, che gli fa esplorare tutti gli ambienti e strappar via quel che ciascuno presenta[7].

Karamzin, a differenza di Caligari, Nosferatu o Mabuse, non incarna né il male assoluto né la sete di potere. Ma solo quella rapacità bruta e (auto)distruttiva tutta stroheimiana che ritroveremo poi nei protagonisti di Greed (Rapacità, 1924) e che conduce Karamzin verso una fine ignobile e ingloriosa.

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Secondo altri commentatori, il processo di stilizzazione dei personaggi, di esasperazione di toni e di sgradevolezza dei dettagli, che comincia a venire in primo piano proprio in questo film, porta Stroheim a recuperare certi aspetti del cinema espressionista tedesco, la cui eco era giunta da poco negli Stati Uniti[8]. Nel rappresentare la decadenza della classe aristocratica, ma anche – più in generale – nell’animare i sentimenti e le pulsioni dei suoi personaggi, Stroheim utilizza delle marcature espressive che sembrerebbero rimandare al cinema di Weimar e che si esprime tanto nell’uso dell’illuminazione, in cui «i piani non piegano la verità quotidiana verso il fantastico e tuttavia l’incubo vi si profila»[9], quanto nella ricerca di una recitazione a tratti allucinata e caricaturale[10].

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Quello che è certo è che il cinema di Stroheim, in questa nuova veste più stilizzata e matura, non abbandona mai la sua forza critica. Il cineasta, da qui in poi, si tiene in perfetto equilibrio fra queste due istanze: il naturalismo si avverte soprattutto nella descrizione degli ambienti, specie quelli più miseri, ma anche nella messa a fuoco, decisamente inedita nel cinema dell’epoca, della questione del denaro come agente corruttore dell’uomo. Dal suo sguardo disincantato e a tratti cinico non si salva nessuna classe sociale: «Tutti i suoi personaggi sono sgradevoli perché indistintamente rappresentano una presa di posizione critica, testimoniano una presa di posizione dialettica»[11]. Ne consegue che lo spettatore non riesce a identificarvisi ed è perciò costretto a una distanza emotiva. Altri ancora vedono nella sua opera la mano di un visionario che, partendo dal dato reale, lo ricostruisce in una modalità che spesso prende la forma della distorsione e dell’allucinazione[12]. Difficile insomma apporre un’etichetta a Stroheim. Lo si è definito spesso anche un “moralista”, ma se è tale, lo è nella misura di un caricaturista, di un Grosz del cinema. Il suo sguardo è feroce, ma sempre ironico e icastico.

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Delle due complici di Karamzin, Olga è la più astuta e perfida, indossa una parrucca bionda e si atteggia a gran dama. A tratti sembra essere più lei la mente del trio, che non Karamzin, fin troppo dedito alle sue conquiste. Olga tiene d’occhio il “conte”, affinché non dissipi troppo le sue energie distogliendosi dall’obiettivo principale (quello di estorcere denaro alle sue vittime); al tempo stesso vigila su Vera, come si vede in una delle prime scene alla villa, affinché non attiri troppo l’interesse di Karamzin, a suo discapito. Infine lancia spietate frecciatine a Helen Hughes dopo la sua disavventura nella palude assieme a Karamzin. Viceversa, Vera è più vanesia e sciocchina, sembra prendere tutto alla leggera. Persino alla fine, quando le due vengono smascherate dalla polizia, non sembra farne una tragedia, al contrario dell’amica-rivale, che invece mente fino all’ultimo per poi cedere a uno scoppio d’ira.

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La coppia degli Hughes ricalca da vicino quella degli Armstrong del primo film, ovvero il prototipo degli americani di buon carattere, socievoli, ma non raffinati e quindi non a loro agio in un ambiente così diverso dal loro, che li confonde. Andrew Hughes, ad esempio, quando incontra il principe di Montecarlo, appare talmente impacciato che non riesce a togliersi i guanti e alla fine tende la sua mano guantata al prestigioso titolato. Helen, da parte sua, pur diffidando dell’uomo in uniforme che le sta squadrando le gambe (ovvero Karamzin) abbassa subito le difese quando questi, grazie a un’astuta manovra, si fa presentare a lei come un aristocratico e un personaggio in vista. Il rapporto fra i coniugi Hughes offre maggiori sfumature rispetto alla coppia del film precedente. La distanza fra loro ha più a che fare con le differenze d’età (lei ha circa vent’anni , lui il doppio), oltre che alle incombenze che la posizione dell’uomo, un diplomatico, richiedono. Anche lui ha un’aria ordinaria e noiosa ma, al contrario di Armstrong, si rivolge spesso e volentieri alla moglie e la tratta con gentilezza. Lungo dall’essere un “marito cieco”, si accorge ben presto quando la donna sembra coltivare altri pensieri ed è solo per la fiducia che nutre in lei che sceglie di non dare troppo peso ai sospetti. Qui inoltre è la moglie a leggere troppo, persa nelle sue fantasie. E il libro che ha spesso per le mani, in un gioco metalinguistico, s’intitola proprio Foolish Wives, e il nome in copertina è quello di Erich von Stroheim.

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Il falsario italiano Ventucci vive assieme alla figlia Marietta in un quartiere popolare della città. Sia questi due personaggi che quello della vecchia della palude, sono il tramite per l’incursione del cineasta nel sottobosco urbano, fatto di gente povera, malata, non di rado menomata: un mondo che offre un netto contrasto con quello della Montecarlo mondana e che verrà ancora più in primo piano in Greed. Qui possiamo intravederlo nella scena fulminea della ragazza con le stampelle, che viene scansata da un usciere all’arrivo della carrozza presso l’Hotel des Rêves, appena fuori città; in questo stesso luogo sciama un nugolo di bambini poveri, uno dei quali, con in testa un casco da soldato troppo grande per lui, si avvicina al tavolo di Karamzin, Olga e Helen in cerca di elemosina, senza che loro se ne curino: «Si tratta di figure destinate, nella maggior parte dei casi, a passare inosservate (…). I loro occhi osservano con tristezza, ma su di loro non pare fermarsi lo sguardo distratto dei protagonisti, assorbiti come sono dalle loro frivolezze»[13]. Infine, la stessa Madre Garoupe, la vecchia della palude, col suo sorriso astuto e sdentato, anche lei zoppa e con le stampelle. Ma la deformità non appartiene solo ai poveri: in una scena al casinò, Karamzin, prima di puntare il denaro che ha ottenuto in prestito dalla sua domestica, sfrega la mano sulla gobba di un altro giocatore, come gesto scaramantico.

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Ma, ancora una volta, per Stroheim non conta poi tanto la distinzione tra ricchi e poveri, aristocratici e popolani. Intendiamoci, è “tradizione” del cinema americano costituire una dualità di buoni e cattivi, eroi e traditori, pescando sia nelle file dei ricchi che dei poveri, come in altre categorie sociali (o razziali). Ma qui il discorso è diverso: nel cinema di Stroheim gli eroi non esistono, o sono invisibili. Esiste solo un’umanità indistintamente affetta da imperfezioni di vario tipo e grado. Tutti alla fine inseguono un unico destino di sfacelo, come sottolinea ancora Deleuze: «Nei poveri o nei ricchi, le pulsioni hanno la stessa finalità e lo stesso destino: fare a pezzi, lacerare i pezzi, accumulare i rifiuti, costituire il grande campo d’immondizie e riunirsi poi tutte in una sola e uguale pulsione di morte»[14].

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Un altro personaggio-chiave, nonostante compaia solo in poche scene e non pronunci nemmeno una battuta in tutto il film, è quello del militare avvolto nel suo mantello che sembra fissare il vuoto avanti a sé. Quando il libro cade dalle mani della donna, egli, che è poco lontano, non accenna a raccoglierlo e così lei deve chinarsi da sé per recuperarlo. Sia il “conte” che la donna fissano con aria di rimprovero il militare, ma questi non batte ciglio. Una scena simile si ripete successivamente nell’ascensore dell’albergo: qui stavolta a cadere a Helen è una borsetta, e a raccoglierla è un altro passeggero, mentre il militare rimane sempre immobile.

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Solo al loro terzo incontro, quando i due urtano l’uno contro l’altra all’entrata dell’hotel, il mantello scivola via di dosso al militare e la donna si avvede che è senza braccia. E’ coem se vedesse per la prima volta la realtà delle cose: davanti a lei c’è un vero soldato, un eroe invisibile che si è guadagnato le sue medaglie, anziché quelle fasulle che adornano l’uniforme della maschera di Karamzin (anche se questo Helen ancora non lo sa). Helen raccoglie il mantello dell’uomo, glielo pone delicatamente sulle spalle e indugia in una specie di abbraccio mentre, in lacrime, gli chiede perdono. L’uomo sorride appena, senza dire niente, sembra quasi un fantasma. Helen gli prende una delle maniche vuote tra le mani, la accarezza dolcemente e poi la bacia. E’ una delle poche scene in cui emerge, al di fuori di ogni convenzione melodrammatica, l’umanità di Stroheim. Una scena simile nel film di un qualsiasi altro autore coevo risulterebbe retorica e melliflua. Ma all’interno di un’opera così graffiante, crudele e priva di sentimentalismo, giunge talmente inattesa da risultare commovente.

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Questa è la grande forza del cinema di Stroheim, il suo realismo, che non si esprime solo nella ricostruzione megalomane di ambienti e dettagli. Stroheim può mettere in scena un mondo di falsità e di contraffattori, può essere lui stesso un sofisticatore, ma il suo cinema non smette neanche per un attimo di cercare la verità della natura umana, ed è in questo che risiede la sua modernità e il suo enorme fascino.
Il militare senza nome è una delle molteplici figure di castrazione del cinema stroheimiano[15], che ci parla anche dell’ossessione tipicamente prussiana della divisa in connessione all’identità, ossessione che Stroheim – pur essendo austriaco e non tedesco – conosceva molto bene: una divisa che «ha divorato il corpo che avrebbe dovuto vestire»[16]. Lo stesso Karamzin alla fine viene distrutto dalla sua divisa, che usa come maschera per ingannare le sue prede ostentando rispettabilità e onorevolezza. Egli si definisce in più di un’occasione un ufficiale e un gentiluomo, finché non sarà proprio Hughes a smascherarlo davanti a tutti gli ospiti di Villa Amorosa: «Ufficiale e gentiluomo un corno!», gli dirà dopo avergli sferrato un pugno. «Voi non siete neanche un uomo!»[17].

Anche in questo film c’è un momento in cui l’erotismo e il feticismo di Stroheim prorompono selvaggiamente, nonostante i tagli dei censori. E’ la scena della capanna nella palude, alla quale Karamzin e Helen approdano dopo aver attraversato una tempesta. Karamzin dapprima tenta di spogliare la donna, poi viene allontanato dalla vecchia Garoupe, la “padrona di casa”. Allora la osserva tramite uno specchietto portatile, leccandosi lubricamente le labbra, mentre lei si toglie i vestiti. Ma è interrotto dall’irrompere nell’inquadratura del sedere di una capra, che l’uomo – a sua volta caprone/satiro – scansa disgustato con una secca gomitata. Poi si avvicina di nuovo a Helen, fissandole le caviglie scoperte e i piedi nudi, finché lei non si tira giù la gonna, imbarazzata. Più tardi, dopo che le due donne si sono addormentate, un frate entra dalla porta giusto in tempo per impedirgli di approfittarsi della sua preda esausta e dormiente.

Karamzin mostra qui la stessa aria da bambino còlto sul fatto e rimbrottato che aveva Steuben sotto lo sguardo della guida alpina Sepp in Blind Husbands. Ma non basta: mentre il frate entra, Karamzin, sedutosi sul letto di Helen, le prende una mano e quasi distrattamente se la appoggia sulla coscia, in corrispondenza della patta dei pantaloni. Il gesto è ripreso con un piano medio, anziché un primo piano o un dettaglio, e forse proprio per questo è sfuggito all’occhio dei censori. Eppure si tratta di un particolare che colpisce ancora oggi per la sua sfrontatezza.

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Karamzin è attratto anche dalla figlia del falsario Ventucci, eccitato dalla sua innocenza  e dalla sua evidente impossibilità di difendersi: la ragazza ha una disabilità intellettiva e il suo aspetto è quello di una bambina. Nella prima scena in cui appare, al seguito del padre, a Villa Amorosa, tiene in braccio una bambola e, entrando, si fa il segno della croce (un Karamzin pedofilo, col senno di poi, non ci stupirebbe affatto, ma forse sarebbe stato troppo anche per Stroheim). Nel momento in cui rimangono soli, Karamzin le fa annusare un profumo, in quello che è uno dei più salienti episodi “olfattivi” del repertorio erotico stroheimiano. Più tardi, in casa di Ventucci, dove si reca per riscuotere le banconote false, il depravato si avventura nella stanza semibuia dove la ragazza malata giace nel suo letto. Nel salotto del piccolo appartamento si possono notare una sequela di statuine religiose, in particolare della Madonna, che servono a connotare la natura di Ventucci, italiano, cattolico e soprattutto padre devoto: non è certo la prima volta che un personaggio di Stroheim si prodiga nel compiere atti scellerati in un luogo abitato dal sacro.

Karamzin si affaccia dalla finestra e si vedono di sotto grufolare alcuni maiali e razzolare delle galline. Il bestiario, già accennato nel primo film, qui si arricchisce notevolmente: il pappagallo alla villa, custodito da Olga, il canarino nella gabbia della domestica, i piccioni vittime del tiro a segno dei gentiluomini europei (e fra loro anche Karamzin); il gufo, le rane e la capra nella palude; il gatto nero ucciso da Karamzin, sempre sotto casa del falsario. Senza contare che, tra le scene che Stroheim aveva originariamente in mente, manca quella che si sarebbe dovuta svolgere in un acquario. Vi sarebbero stati protagonisti due personaggi assenti dalla versione finale, ma che avrebbero costituito una di quelle storie parallele, in forma di contrasto e commento alla vicenda principale, previste anche nel successivo Greed (e anche da lì rimosse). Il finale originale poi prevedeva che il cadavere di Karamzin, gettato da Ventucci nelle fogne e giunto nell’oceano, fosse divorato da un grosso polpo. Una conclusione ancora più raccapricciante di quella presente nel metraggio a noi pervenuto, che ha provveduto ad eliminare anche il momento in cui Ventucci sorprende Karamzin nudo nel letto della figlia e lo uccide a coltellate[18].

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Le pulsioni di Karamzin lo hanno portato a mettere incinta persino Marushka la domestica, una donnina modesta e dall’aspetto precocemente invecchiato. L’uomo, che l’ha illusa dicendole che presto la sposerà (e intanto si pulisce le labbra dai suoi baci, disgustato), riesce a convincerla a farsi prestare una somma di denaro fingendosi disperato fino alle lacrime («Io, che ho dato tutto alla mia patria!»). Ma le sue sono lacrime fasulle, come tutto il resto che lo riguarda: senza farsi vedere dalla donna, infatti, Karamzin ficca due dita in un bicchiere d’acqua e, portandosi la mano al volto, lascia sgocciolare l’acqua sulla tovaglia.

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Commossa, la donna gli cede tutti i suoi risparmi, che l’uomo andrà ovviamente a sperperare al casinò. Karamzin ripeterà quella scena anche con Helen, nella torre della villa, e anche stavolta otterrà il suo scopo. Ma Marushka, che si è finalmente resa conto delle bugie dell’impostore, manda tutto – letteralmente – in fumo. La scena che precede l’incendio, vede la domestica nello squallore e nella penombra della sua stanza, prima seduta poi accasciata sul letto, senza forze. Infine il suo volto è ripreso incastonato tra le sbarre della testata del letto, in uno dei rari movimenti di macchina, qui in avvicinamento. Mentre si tormenta le dita di una mano tra i denti, gli occhi della donna dapprima sembrano fissare il vuoto, poi riprendono a vagare, irrequieti e si restringono, manifestando una scintilla di follia, seguita da un sorriso demente. Una scena da brividi che mostra la grande abilità di Stroheim di scegliere e far recitare le sue attrici, pressoché sconosciute, con l’intensità di una Lillian Gish.

Sempre Marushka è la protagonista totale di un’altra magnifica scena. Dopo aver appiccato l’incendio, resa folle dal dolore, la donna appare come una silhouette in cima alla scogliera, in campo lungo, nella penombra della sera. Dopo aver strappato rabbiosamente una lettera d’amore di Karamzin, la donna guarda in basso e un’inquadratura in soggettiva a picco ci mostra verso l’acqua mugghiante, in fondo alla scogliera. Il suo gesto estremo è invece risolto con un’ellissi: si torna al campo lungo iniziale della scogliera, ormai priva d’ogni presenza umana.

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Questo tipo di movimenti di macchina e di inquadrature insolite non sono però ricorrenti in Stroheim. La sua regia non è “tecnica”, ma si pone al servizio della recitazione e degli ambienti[19]. In termini di movimenti di macchina e angolazioni di ripresa, nella versione a noi giunta, oltre a quanto appena descritto, risaltano giusto una dissolvenza incrociata in raccordo sull’asse in avvicinamento, nella scena in cui Helen viene riaccompagnata in albergo dopo la disavventura nella palude; una carrellata a precedere dei tre lestofanti sull’affollato lungomare della città; un’inquadratura angolata dall’alto del grande salotto di Villa Amorosa pieno di ospiti. Infine, la sovrimpressione del volto di Karamzin con la sigaretta in bocca sul biglietto scritto alla moglie che il marito ha trovato e sta leggendo: una scena quasi identica a quella già vista in Blind Husbands. Allo stesso modo, il montaggio, ricco di cambi di piano e cambi di prospettiva, rimane perlopiù incentrato su lunghi blocchi narrativi. Stroheim ricorre a un convulso montaggio alternato griffithiano solo in occasione della scena dell’incendio alla villa e dell’arrivo dei pompieri, come avveniva anche nel finale del film d’esordio.

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L’uso della fotografia contrastata, in certi momenti, riprende ma amplifica di molto il lavoro già fatto nel film d’esordio (l’operatore è lo stesso, Ben Reynolds, coadiuvato qui da William Daniels), in cui, nella maggior parte delle scene, la luce risulta ancora un po’ troppo piatta e uniforme. Qui invece vediamo come, nella scena in cui Marietta dorme nella sua stanza, «la luce filtra dalle persiane disegnando delle “cancellate” fatte di righe luminose che danno al luogo un aspetto allucinato»[20]. Per non parlare dei giochi di luce e ombra nella sequenza nella capanna di Garoupe. Infine, in una delle ultime scene, quando il “conte” sta passeggiando di notte per strada, prima di dirigersi verso la casa del falsario,

la macchina da presa rimane fissa sul primo piano di Karamzin, fermo a fumare sotto un lampione, e ciò che conta è la luce spettrale, spiovente dall’alto, che rende il volto di Stroheim simile a una maschera di cera, ossia la maschera mortuaria in cui tra breve si trasformerà effettivamente.[21]

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Un’ultima annotazione riguardo alle didascalie: anche qui Stroheim sceglie uno stile che non è quello classico esplicativo. Solo una parte degli intertitoli contengono la trasposizione dei dialoghi. Per la maggior parte essi riportano dei pensieri quasi in forma di versi sciolti, di annotazioni “impressionistiche” e umoristiche su personaggi e ambienti. Non sorprende perciò che anche queste siano state inizialmente eliminate e sostituite con un testo più comprensibile e immediato, banalizzando così l’effetto.

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L’attore che interpreta Hughes, Rudolph Christians, morì a riprese non ancora ultimate, costringendo Stroheim – che avrebbe voluto rigirare tutte le sue scene con un altro attore – a sacrificare buona parte dello spazio richiesto allo sviluppo del personaggio. Nella piccola parte di una ragazza zoppa compare Mary Philbin, che Stroheim scelse in seguito come protagonista per il suo film successivo, Merry-Go-Round (Donne viennesi, 1923), dal quale fu però licenziato: vi compaiono anche Dale Fuller (la domestica Marushka) e Cesare Gravina (Ventucci). La graziosa Philbin, che a onor del vero non aveva in sé il talento di una grande attrice, diventerà poi nota per il suo ruolo di Christine Daaé in The Phantom of the Opera (Il fantasma dell’Opera, 1925), di Rupert Julian.

Vittorio Renzi

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Foolish Wives (Femmine folli)

Usa, 1922

regia e sceneggiatura: Erich von Stroheim

fotografia: Ben Reynolds, William Daniels

montaggio: Arthur D. Ripley

musica: Sigmund Romberg

scenografia: Richard Day [e E. von Stroheim]

costumi: Western Costume Company [e R. Day, E. von Stroheim]

produzione: Irving Thalberg, per Universal Film

cast: Erich von Stroheim  (Sergius Karamzin), Maude George (Olga Petchnikoff), Mae Busch (Vera Petchnikoff), Rudolph Christians (Andrew J. Hughes), Miss Dupont (Helen Hughes), Dale Fuller (Maruschka), Cesare Gravina (Cesare Ventucci), Malvina Polo (Marietta Ventucci), Al Edmondson (Pavel Pavlich), C.J. Allen (Albert I, principe di Monaco),
Mary Philbin (la ragazza zoppa)

lunghezza: 14 rulli, 14.120 piedi [première] /
[orig.: 34 rulli, 32.000 piedi, ridotto a 21 rulli, poi a 14, poi a 7]

durata:  107′ [1989]/ 117′ [1999] / 140′ [2013]

première: New York, 11 gennaio 1922

data di uscita: 8 marzo 1922

Foolish Wives posterFoolish Wives poster 2


[1] Alessandro Cappabianca, Erich von Stroheim, Firenze, La Nuova Italia (Il Castoro), 1979, p. 39-40.
[2] Ivi., p. 39-40.
[3] Sei ore, secondo studi precedenti, ma in quello più recente aggiornato di Lennig si parla di quasi otto ore di girato (Arthur Lennig, Stroheim, Lexington, The University Press of Kentucky, 2000, p. 136).
[4] Ivi, p. 131.
[5] Lennig fa un resoconto particolareggiato nel capitolo dedicato al film (Ivi, pp. 121-129).
[6] Ermanno Comuzio, Erich von Stroheim, Roma, Gremese, 1998, p. 27.
[7] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 154.
[8] Il gabinetto del dottor Caligari (1920) esordì a New York il 3 aprile 1921.
[9] Freddy Buache, Erich von Stroheim, Parigi, Editions Seghers, 1972, p. 38.
[10] E’ la tesi di Edoardo Bruno, il quale scrive: “Deriva da questa impostazione una struttura drammaturgica che oltrepassa il naturalismo, proprio perché sollecita continuamente un giudizio critico e accoglie i segni tipici della caratterizzazione fortemente accentuata dell’espressionismo, solo per ricavarne una funzione conoscitiva. (E. Bruno, Espressione e ragione in Stroheim, Venaria, Testo & Immagine, 2000, p. 16).
[11] Ibidem.
[12] “L’opera ridondante e visionaria del regista austriaco ricostruisce la realtà per conoscerla e capirne i meccanismi che la dominano più nel profondo, fino a trasfigurarla completamente nel successivo processo di organizzazione filmica”. (Grazia Paganelli, Erich von Stroheim. Lo sguardo e l’iperbole, Roma, Bulzoni, 2001, p. 99.)
[13] Ivi, p. 31.
[14] Deleuze, op. cit., p. 155.
[15] Cappabianca, op. cit., p. 43.
[16] Ibidem.
[17] Lo sguardo d’odio di Karamzin, quando si rialza da terra, lascia presagire un duello. Nella versione originale in effetti, il “conte” lancia la sfida all’americano. Hughes lo aspetta l’alba successiva nel luogo previsto, ma invano, dato che  Karamzin è stato ucciso da Ventucci quella stessa notte.
[18] Fra le scene eliminate c’era anche l’aborto spontaneo della Hughes, in una delle ultime scene, che fu accolto dalle risa del pubblico alla première (oltretutto, nessuno aveva capito che la donna era incinta). Così come fu espunta una scena in cui Karamzin figurava con indosso della biancheria femminile, mentre Vera gli allacciava il corsetto. Furono poi eliminate dai censori molte scene alla roulette russa, l’immagine di un crocefisso tra le fiamme durante l’incendio nella torre e l’uccisione di un gatto nero, che finisce nel tombino insieme a Karamzin.
[19] “La vera tecnica viene naturalmente”, dichiarò Stroheim, “deve applicarsi all’azione. Un carrello, una panoramica, un primo piano, non valgono se non sono realmente motivati; è l’ABC della grammatica”. (In Cappabianca, op. cit., p. 3).
[20] Comuzio, op. cit., , p. 26.
[21] Cappabianca, op. cit., p. 44.

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