The Birth of a Nation (La nascita di una nazione, 1915)

D.W. Griffith

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Al momento di approcciare The Birth of a Nation, forse il film più controverso di tutti i tempi, bisogna tenere che l’argomento di cui tratta, ovvero la guerra di Secessione americana e il periodo immediatamente successivo, noto come Ricostruzione, era un argomento ancora caldo. Erano trascorsi solo una cinquantina d’anni da quegli avvenimenti che, di conseguenza, lungi dall’essere stati metabolizzati e storicizzati, erano ancora vivi e ben presenti nella mente delle persone, molte delle quali li avevano sentiti narrare dai loro stessi padri che in quella guerra avevano combattuto. Come lo stesso Griffith, il cui padre, Jacob, fu un colonnello e un eroe dell’esercito confederato.
Su questo argomento Griffith si era cimentato già diverse volte negli anni trascorsi alla Biograph, dedicandogli diversi titoli: The Guerrilla (1908), The Honor of His Family (1909), The House With Close Shutters (1910), Swords and Hearts (1911) e The Informer (1912). Lo stesso avevano fatto anche altri registi, fra i quali Thomas H. Ince, con l’acclamato The Battle of Gettysburg (1913), considerato perduto. Nessuno però aveva ancora avuto modo di erigere un vero e proprio affresco storico in celluloide. E soprattutto nessuno aveva ancora mai realizzato un’opera in grado di mostrare in atto – per la prima volta e con estrema consapevolezza – le grandi potenzialità dell’arte cinematografica: «The Birth of a Nation fu il primo film ad essere stato realizzato nello stesso modo fluido dei film di oggi. Fu la produzione più vista in assoluto all’epoca e quella che ebbe la maggiore influenza»[1]. Tutto quello che era stato sperimentato fino a quel momento, nella regia, nella fotografia, nel montaggio, tutta l’esperienza accumulata sul campo, si traduce per la prima volta in un linguaggio compiuto e sistematico. Con The Birth of a Nation non nascono ma si articolano la grammatica e la sintassi del cinema moderno, ovvero l’arte delle immagini in movimento.

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Uno dei suoi primi spettatori, alla proiezione speciale tenuta alla Casa Bianca il 18 febbraio 1915, fu il 28esimo presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, che era in carica già da due anni, celebre per aver redatto, pochi anni dopo, i 14 punti in merito alla “autodeterminazione dei popoli”, con l’intenzione di ridisegnare i confini degli stati europei in base alle nazionalità. Durante la sua amministrazione, per la prima volta dopo i decreti di Lincoln risalenti a cinquant’anni prima, fu istituita nuovamente la segregazione razziale. Neanche a dirlo, il film gli piacque moltissimo. Fra i vari effetti seguiti all’uscita nelle sale, ci fu quello della riorganizzazione del Ku Klux Klan, dichiarato fuorilegge sotto Lincoln, disgregato e ridotto perlopiù a uno stato di latenza. Il film di Griffith lo riportò alla ribalta, divenne il vessillo del movimento e ne ispirò la divisa: le famigerate toghe bianche col cappuccio da quel momento costituirono l’abbigliamento ufficiale dei “crociati”, nonché la loro consacrazione iconica, assieme alla croce di fiamma. E questo nonostante lo stesso Griffith ne avesse dato una rappresentazione niente affatto lusinghiera in un suo bellissimo corto di cinque anni prima, The Rose of Kentucky (1911).

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David Wark Griffith era nato nel Kentucky, uno stato dell’Unione nel quale però si praticava la schiavitù e che durante la Guerra di Secessione si mantenne neutrale, pur appoggiando i Confederati. Griffith si considerava un gentiluomo del Sud, idealizzava quel mondo rurale che ruotava tutto intorno alla famiglia, era un pacifista e apprezzava moltissimo la figura di Lincoln, al quale dedicherà il penultimo film della sua carriera, Abraham Lincoln (Il cavaliere della libertà, 1930). Ciò che invece contestava era lo squilibrio sociale, politico ed economico conseguente, dal suo punto di vista, all’intervento degli stati del Nord. E se era favorevole all’abolizione della schiavitù degli afroamericani, lo era sicuramente meno riguardo alla questione dell’integrazione razziale. Ed è forse anche per questa profonda convinzione del suo autore che, a rivederlo oggi, The Birth of a Nation appare un film assai più sincero, diretto e vitale rispetto alla monumentalità a tratti un po’ statica e vuota del successivo Intolerance (1916), che molti sostennero essere un film “riparatore” (ma di cosa, poi? Visto che lì non si fa parola di questioni razziali). E ciò, beninteso, indipendentemente dai rivoluzionari pregi cinematografici di entrambe le opere. Naturalmente, una buona parte della popolazione americana coeva aveva un pensiero simile al suo: fra questi, il presidente Wilson e il suo ex compagno di scuola Thomas Dixon, dal cui romanzo The Clansman (1905) il film è tratto, e del quale portò il titolo per i primi mesi di proiezione. Tuttavia Griffith ha sempre respinto ogni accusa di razzismo, difendendo il proprio punto di vista fino alla fine. Senza contare che il film e il testo di Dixon presentano sì delle somiglianze, ma anche delle nette differenze, sia di tono che di vedute[2].

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C’è poi un altro aspetto da mettere in evidenza. Nel suo ultimo film distribuito dalla Biograph, il western a due rulli The Battle at Elderbush Gulch (1914), i pellerossa sono dipinti in un modo molto simile rispetto agli afroamericani di The Birth of a Nation: selvaggi, ubriaconi e del tutto dominati dagli istinti. Il che è strano, dato che in alcuni dei suoi primi cortometraggi, Griffith li aveva ritratti invece con molto rispetto e considerazione per il loro nobile stile di vita. A cosa era dovuto questo cambiamento? Forse, molto semplicemente, gli servivano dei cattivi da opporre ai buoni e, senza starci a pensare troppo, aveva optato per questa soluzione narrativa. Ma se in quel caso la carenza di politically correctness di Griffith passò probabilmente inosservata, con The Birth of a Nation, data la sua mole e le sue ambizioni di affresco storico, le cose andarono diversamente.

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Come definire sinteticamente l’entità dell’impatto che il film ebbe sugli spettatori al momento della sua uscita? Per dirla con Everson: «Fu come se un pubblico che avesse familiarità unicamente con le strisce a fumetti fosse stato improvvisamente introdotto all’opera di Tolstoj, e in una maniera tale che potesse comprenderlo»[3]. Ovvio dunque che il tema razziale, assieme a tutto il resto, non potesse passare inosservato. Da una didascalia (inserita solo in un secondo momento, insieme ad altre) apprendiamo che l’intento dichiarato di Griffith fosse quello di realizzare un’opera cinematografica che, al pari delle altre arti, potesse essere libera di toccare temi importanti: una sfida lanciata a gran parte dell’élite intellettuale che ancora considerava il cinema come una forma di mero intrattenimento, ma anche e soprattutto un tentativo di acquietare le polemiche suscitate dal film. Tentativo che fallì, ma nonostante ciò, o forse proprio per questo, il film attirò nelle sale milioni di spettatori, arrivando a guadagnare in pochi anni delle cifre impressionanti (grazie anche al fatto che il costo del biglietto lievitò a ben due dollari, una cifra per l’epoca tutt’altro che “popolare”).

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Fatte queste dovute premesse, passiamo ad analizzare il film, che ci è giunto in una veste splendente in seguito all’ultimo restauro effettuato nel 2015, in occasione del suo centenario. Questa nuova edizione può giovarsi non solo di una maggiore nitidezza, ma anche di una restituita tridimensionalità che permette di apprezzarne al meglio ogni aspetto. L’epopea è divisa in due parti: la guerra di Secessione e la Ricostruzione. La prima didascalia recita: «La deportazione degli africani in America gettò i primi semi della divisione/disunione» e introduce l’argomento presentando come prima immagine quella di alcuni fra i primi schiavi in catene in terra americana, al cospetto di un mercante e di un puritano. Altri tableaux vivants sono costituiti da inquadrature che illustrano importanti e conosciuti avvenimenti storici (Lincoln che firma l’atto di guerra, la resa del generale Lee), introdotte come “historical facsimile” e ispirate ai dipinti e alle illustrazioni.

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Ma le grandi qualità di narratore di Griffith emergono con forza nel momento in cui passa a introdurre i protagonisti dell’articolata vicenda, ovvero i membri appartenenti a due diverse famiglie: gli Stoneman del nord e i Cameron del sud. E’ qui che trionfano il realismo descrittivo della vita quotidiana e dei rapporti familiari e umani e la ricchezza di dettagli con cui sono tratteggiate le storie, prima ancora che la Storia. Gli schiavi neri sono rappresentati sempre in gruppo, di rado come individui, e fanno da sfondo allo svolgersi dell’azione dei bianchi. Nel momento in cui gli Stoneman si recano nel sud, a Piedmont, in visita ai Cameron, che li portano a passeggiare nei loro campi di cotone, Griffith non manca d’informarci sugli orari di lavoro degli schiavi: dodici ore, dalle sei alle diciotto, con due ore di pausa per il pranzo. Per inciso, a una riunione dove i neri rivendicano i loro diritti, spunta fuori il cartello «40 acres and a mule», ovvero “40 acri e un mulo”: slogan che deciderà, settant’anni dopo, il nome della casa di produzione di Spike Lee.

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In seguito alla prima grande vittoria nella Guerra Civile in Virginia, tutto il Sud è in festa. Nella scena del ballo in casa Cameron, la macchina da presa si trova inizialmente al centro della sala per poi arretrare con un carrello, rivelando man mano la presenza di sempre più coppie che danzano. Fuori, per le strade, si festeggia con i fuochi d’artificio e queste scene sono state tinte di rosso (come quelle della successiva battaglia di Atlanta, girate nella San Fernando Valley) e montate fra loro in sequenze alternate. Il montaggio alternato fa capolino da subito e, da quel momento in poi, s’impone come indiscutibile prassi per tutto il cinema narrativo, non solo americano. Non si tratta più soltanto di accrescere la tensione e creare suspense, ma di espandere singole azioni presentate in un unico contesto, rendere sfaccettato e dettagliato l’accadimento più banale, rendere dinamico e vibrante ogni aspetto del reale. Si veda nuovamente la lunga sequenza in cui gli Stoneman fanno visita ai Cameron. I due maschi più giovani delle rispettive famiglie si intrattengono sul portico della casa a scherzare tra loro, a inseguirsi e a lottare per gioco (un presagio dolceamaro sulla futura rivalità in guerra, dove infatti moriranno entrambi). Per ben quattro volte l’azione dei due rampolli viene interrotta per lasciare spazio al capofamiglia dei Cameron, in casa con il resto della sua famiglia e gli ospiti, il quale esce fuori per cercare i due ragazzi.

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Le scene di battaglia sono riprese in campi lunghi o lunghissimi, a volte da una posizione sopraelevata: fumi, lampi, bandiere che si agitano e un gran movimento di cavalli; e comparse, a centinaia, come fossero dipinti di Bosch o Brueghel. Ma questi quadri d’insieme sono alternati a piani più ravvicinati, di gruppi o singoli personaggi, nonché di particolari, dettagli e simboli (come quello dei cigni nel lago), in un’alternanza continua e già classica di macro e microcosmo, di Storia e destini individuali. La «pace donata dalla guerra» viene commentata amaramente da Griffith con immagini potentissime dei campi disseminati di cadaveri mescolati fra loro, alla cui vista il colore dell’uniforme non conta più. Spesso vengono usati dei mascherini a forma di arco o botte per evidenziare il macabro contenuto di queste scene che risuonano come urla sincere contro la guerra, «allevatrice dell’odio», come viene definita in una didascalia.

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La fotografia impreziosisce non solo le sequenze di battaglia, ma anche gli interludi amorosi che vi si contrappongono. In particolare, l’idillio nel boschetto fra Ben ed Elsie (Henry B. Walthall e Lillian Gish), con quel bellissimo controluce dei due di profilo, al crepuscolo. Un primo piano stringe sul bacio che stanno per scambiarsi, ma tra le loro labbra si pone, pudicamente, l’uccellino che lui le stava porgendo. Sono anche momenti in cui la naturalezza di un’attrice meravigliosa come la Gish può emergere al suo meglio. Del resto, «la figura incarnata da Lillian Gish è anche il principale elemento di sintesi fra le due sezioni del film, perché è attraverso di lei che il processo di crescita dell’America da comunità a società si fa persona ed è paragonato all’evoluzione dall’adolescenza alla maturità di un essere umano»[4] ed è per questo che «Griffith le chiede di esprimere una gamma di atteggiamenti ed emozioni che non ha confronti con gli altri personaggi»[5]. Per il resto, rispetto anche ai film precedenti dello stesso Griffith, il timbro recitativo dei vari attori è piuttosto elevato e un po’ rigido, forse per poter interagire con l’enfasi declamatoria e la magniloquenza visiva ricercate dal regista.

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La prima parte, che è anche la più lunga, non solleva quasi nessuno dei problemi di razzismo cui accennavamo all’inizio, ma ne pone comunque le basi. Tuttavia non sono tanto i neri ad essere considerati con palese disprezzo, non sono loro il bersaglio principale. La vera aberrazione, per Dixon e per Griffith che, in questo caso specifico, se ne fa puntuale portavoce, è il meticciato, la mescolanza fra le due “razze”. La serva di Cameron e sua futura amante, la mulatta Lydia, è dipinta come un essere abietto e calcolatore, a partire dalle sue espressioni e movenze, così palesemente viziose e infide da risultare caricaturali. Un ritratto ancora peggiore è quello riservato a Silas Lynch, che Stoneman eleggerà a suo braccio destro per operare, dopo l’assassinio di Lincoln, una ricostruzione del Sud tutta a favore di nordisti corrotti e mulatti depravati. Quando Lynch rivela ad Austin Stoneman di essere intenzionato a sposare una donna bianca, questi si mostra entusiasta e approva l’idea (idea che, nel modo in cui la propone Griffith, sembra essere in cima al corrotto e temibile piano di ricostruzione del Sud, ovvero il meticciato obbligatorio come forma di integrazione!). Ma non appena il mulatto gli rivela che la donna che vuole sposare è Elsie, la figlia di Stoneman, costui inorridisce e si rifiuta sdegnato di concedere la sua approvazione: una trovata sarcastica per svelare l’ipocrisia dei valori dei nordisti. Del resto, un cartello che compare nella seconda parte recita esplicitamente: «Coloro che erano stati avversari del Nord e del Sud sono di nuovo uniti nella difesa comune del loro diritto di nascita ariano».

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Questa dinamica, per come la intende Griffith, è ben esemplificata dalla breve scena in cui Silas Lynch esorta uno schiavo nero a gettare in terra il suo attrezzo da contadino e a ribellarsi al padrone bianco, ma questi si rifiuta orgogliosamente di farlo, a significare una pretesa armonia fra il buon padrone e il servo fedele (ognuno al posto che gli compete, beninteso) messa in crisi dall’ingerenza dei nordisti: ovvero la «fine di un mondo visto da Griffith attraverso il filtro idealistico dell’etica cavalleresca, del proprietario gentiluomo, del padrone equanime, del contadino contento di guadagnarsi onestamente da vivere e del governo che si fa gli affari suoi»[6]. Il “negro buono” è asservito, rispettoso e diligente, buono per qualche parentesi comica di stampo paternalistico, come nella scena dell’incontro fra la governante nera del Sud e il maggiordomo nero del Nord che le fa delle strane e buffe smorfie, allorché lei commenta così: «Questi negri liberi del nord sono tutti matti».

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Successivamente, nella riunione del 1871 alla Camera dei Rappresentanti in cui sono presenti quasi solo dei neri (da notare, per inciso, che il termine afroamericani sarà introdotto diffusamente soltanto mezzo secolo dopo l’uscita del film), il loro ritratto si fa aspro e caricaturale fino al grottesco: uno tira fuori una bottiglia di whisky poco prima dell’inizio della seduta, un altro si toglie una scarpa e appoggia il piede nudo sul banco, un altro ancora mangia avidamente mentre sta parlando; in generale, il loro unico interesse sembra essere quello di proporre subito una legge per dare il via ai matrimoni razziali. Griffith ritrae dunque i neri liberi come un branco di selvaggi privi di capacità razionali, stupratori e alcolizzati. Bisogna però tener presente che, sei anni dopo, offrirà un ritratto molto simile dei sanculotti, ovvero la fascia più proletaria ed estremista della Rivoluzione francese, in Orphans of the Storm (Le due orfanelle, 1921). Sotto questa luce si rafforza l’idea che, più che la razza, sia la minaccia all’ordine costituito che spaventa di più Griffith. Oltre a questo, è innegabile il fatto che, a differenza di Dixon, Griffith faccia ricadere la colpa delle azioni dei neri in massima parte sui nordisti bianchi che li sfruttano e li manipolano per i loro giochi di potere: come Stoneman, presidente della Camera dei Rappresentanti (e come Robespierre nel citato film del ’21). I personaggi neri o mulatti di spicco sono tutti interpretati da attori bianchi col viso dipinto, un’usanza comune in quegli anni, nel teatro e nel cinema: il rinnegato Gus (Walter Long), l’emblema del nero manipolato e traviato, così come i due mulatti Lydia (Mary Alden) e Silas Lynch (George Siegmann). Il motivo principale può essere dovuto al fatto che all’epoca pochissimi attori di colore vivevano in California, mentre ce n’erano di più a Est; ma è anche probabile che pochi afroamericani sarebbero stati entusiasti all’idea di partecipare a un film ispirato al famigerato testo di Dixon.

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La nascita del Ku Klux Klan, “l’organizzazione che salvò il Sud dell’anarchia dal dominio negro” (così la definisce una didascalia) viene introdotta mediante un pittoresco aneddoto: Ben Cameron, osservando dei bambini nascondersi sotto un lenzuolo bianco per terrorizzare i loro compagni, ha l’idea delle tuniche bianche. Ma occorre una giustificazione plausibile per le future gesta dei cavalieri. E questa viene data dalla triste sorte subita da Flora Cameron (Mae Marsch). L’inseguimento di Flora da parte di Gus, che cerca di violentarla (ma prima le aveva chiesto di sposarla, cosa che aveva provocato in lei un immediato orrore), si conclude col tuffo della ragazza da una rupe: pur di non concedersi a lui, preferisce morire. La sequenza, realmente angosciante, è costruita sfruttando al massimo le potenzialità del montaggio alternato e oltretutto ci mostra Flora ancora viva, dopo il suo salto, spirare fra le braccia del fratello Ben. Questo episodio costituisce l’escamotage mélo per far scattare la tolleranza zero: fino a quel momento il Ku Klux Klan non aveva ancora ucciso nessuno, aveva solo seminato paura, mentre tre dei suoi membri erano stati uccisi da Silas e i suoi uomini.

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A partire dalla morte di Flora cambia tutto e, come avverrà in un numero incalcolabile di film (non solo) americani, una tragedia è usata come pretesto per giustificare un intervento punitivo, ovvero la vendetta mascherata da giustizia, che raccoglie un’adesione totale sul piano emotivo da parte dello spettatore. Allo stesso modo, e allo stesso scopo, più avanti assistiamo alle insidie sempre più pressanti di Silas Lynch nei confronti di Elsie e, contemporaneamente, i preparativi del KKK per uno dei primi assalti – che è ripreso con uno splendido camera-car a precedere la cavalcata frontale dei cavalieri incappucciati: uno di quei procedimenti innovativi che appassionò o sconcertò critici e spettatori. La stessa tecnica sarà utilizzata per mostrare, attraverso un fittissimo montaggio alternato, ricco di suspense, la carica dei membri del Klan che accorrono per salvare Cameron, la figlia maggiore Margaret (Miriam Cooper) e il suo fidanzato, Phil Stoneman, chiusi in una baita, circondati e soverchiati da una milizia nera. A differenza di quanto poi accadde nella realtà, qui nessun nero viene giustiziato, a parte Gus, l’assassino di Flora. I neri cadono in battaglia, oppure vengono disarmati e fatti prigionieri nelle missioni di salvataggio e poi lasciati liberi di andare. Alle elezioni successive, tuttavia, viene impedito loro di votare: un drappello armato di membri del Klan sorveglia che ciò non accada, mentre i neri intimoriti rientrano nelle loro baracche.

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Il film si conclude dapprima con le doppie nozze “riparatrici” (rispetto alla guerra fratricida) di Ben Cameron e Elsie Stoneman e di Miriam col più giovane dei Stoneman. A questa scena colma di gioia e di speranza seguono due allegorie con sovrimpressione e split screen, in forma simile alle visioni mistiche architettate nel film precedente di Griffith, The Avenging Conscience (La coscienza vendicatrice, 1914): la guerra è rappresentata da un demone armato di spada su una folla di morti e sottomessi. Dopo questa immagine infernale, ecco apparire quella utopistica della Città Futura, con il Cristo Salvatore che, in un gesto d’amore, accoglie e benedice una moltitudine di uomini liberi e sorridenti.

Griffith tornerà al tema della guerra nei due film successivi: Intolerance (1916) e, in maniera ancora più cruda, in Hearts of the World (Cuori del mondo, 1918), dove affronterà, stavolta da spettatore e commentatore coevo, la prima guerra mondiale. Sarà invece d’ora in poi molto più cauto sul tema razziale: lo impiegherà con molta accortezza per tessere un delicato e crudele melodramma che si rivelerà uno dei suoi maggiori successi: Broken Blossoms (Giglio infranto, 1919).

Molte scene d’azione e di battaglia sono state dirette da un giovane e promettente aiuto-regista che aveva iniziato a fare l’attore per Griffith ai tempi della Biograph: si tratta di Raoul Walsh, del quale, proprio in quegli anni, Griffith stava producendo le prime regie. In questo film, inoltre, Walsh interpreta la parte del famigerato John Wilkes Booth, l’assassino del Presidente Lincoln.

In una scena di Nickelodeon (Vecchia America, 1976), di Peter Bogdanovich, vediamo i protagonisti assistere, attoniti ed emozionati, a una delle prime proiezioni al pubblico di The Birth of a Nation: il titolo che compare sullo schermo è infatti ancora quello provvisorio, The Clansman.

Vittorio Renzi  (24 marzo 2017)

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The Birth of a Nation (La nascita di una nazione)

Usa, 1915

regia: David Wark Griffith

soggetto: romanzi di Thomas F. Dixon: The Clansman (e dramma teatrale omonimo)
e The Leopard’s Spots.

sceneggiatura: D.W. Griffith, Frank E. Woods.

fotografia: G.W. Bitzer

montaggio: James Smith, Rose Smith

musica: Joseph Carl Breil, Carli Elinor

scenografia: Frank “Huck” Wortman

costumi: Robert Goldstein

effetti speciali: Walter Hoffman, “Fireworks” Wilson

produzione: D.W. Griffith, per DWG Corporation, Majestic Motion Picture

cast: Henry B. Walthall (Ben Cameron), Miriam Cooper (Margaret Cameron), Mae Marsh (Flora Cameron), Spottiswoode Aitken Dr. Cameron), Josephine Crowell (Mrs. Cameron), André Beranger (Wade Cameron), Ralph Lewis (On. Austin Stoneman), Lillian Gish (Elsie Stoneman), Elmer Clifton (Phil Stoneman), Robert Harron (Tod Stoneman), Mary Alden (Lydia Brown), George Siegmann (Silas Lynch), Walter Long (Gus), Wallace Reid (Jeff), Jennie Lee (Mammy/Cindy), Joseph Henabery (Abraham Lincoln), Raoul Walsh (John Wilkes Booth), Donald Crisp (gen. Ulysses S. Grant), Howard Gaye (gen. Robert E. Lee), William DeVaull (Nels), William Freeman (Jake),
Tom Wilson (servo degli Stoneman)

lunghezza: 12 rulli, 12.500 piedi

durata:  190′ (a 16 fps)

première: 8 febbraio 1915

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[1] Kevin Brownlow, The Parade’s Gone by…, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1968, p. 26 (traduzione mia).
[2] La questione è spiegata in dettaglio in Paolo Cherchi Usai, David Wark Griffith, Milano, Il Castoro, 2008, p. 245.
[3] William K. Everson, American Silent Film, New York, Da Capo Press, 1978, p. 82 (traduzione mia).
[4] P. Cherchi Usai, op. cit., p. 258.
[5] Ivi, p. 259.
[6] Ivi, p. 246-47.

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