La Roue (La rosa sulle rotaie, 1922)

Abel Gance

La Roue 1

SINOSSI: Il macchinista Sisif, in seguito a un disastro ferroviario prende con sé la piccola Norma, che ha perso la madre nell’incidente, e la cresce come fosse sua figlia, insieme al suo vero figlio, Elie. Anni dopo, quando Norma è oramai una ragazza, Sisif se ne innamora. Elie e Norma sono felici insieme, e lui sogna di diventare un grande costruttore di violini e di sposare una donna bella come colei che crede essere sua sorella. Ma Sisif decide di allontanare Norma da sé e da Elie, dandola in moglie al ricco ingegnere Jacques de Hersan, che Norma però non ama. In seguito a un incidente con la sua locomotiva, che lui stesso provoca, Sisif viene trasferito in una piccola baracca sul Monte Bianco, assieme al figlio, e affidato a una funicolare. Elie inizia ad avere successo come costruttore dei violini e ne invia uno a Norma, con dentro nascosta una lettera d’amore. Sisif invece sta perdendo la vista. Entrambi annegano nella malinconia dell’assenza di Norma. Ma un giorno Norma e Hersan li raggiungono e scoppia la tragedia: Hersan, geloso di Elie, lo attira presso un dirupo, i due lottano e Elie, per difendersi, gli spara. Ma poi, a sua volta, precipita nello strapiombo, proprio sotto gli occhi di Norma e Sisif che stavano accorrendo per salvarlo. Sisif incolpa Norma dell’accaduto e ancora una volta la allontana. Rimane da solo, finché il suo vecchio amico Mâchefer non va lassù a trovarlo, recandogli un po’ di sollievo. Un anno dopo, Norma incontra Sisif in cima al dirupo da cui precipitò Elie. Sisif è ormai cieco e lei ne approfitta per stabilirsi nella baracca senza che lui se ne accorga. Quando l’uomo se ne rende conto oramai non ha più rancori nel cuore, né desideri. I due vivono felici insieme come padre e figlia, fino alla morte di Sisif.

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Esiste un cinema prima e dopo La Roue, così come esiste una pittura prima e dopo Picasso
(Jean Cocteau) [1]

La Roue, sin dalla prima proiezione, ebbe subito un’ampia risonanza, non tanto per i suoi contenuti – un connubio fra tragedia greca, melodramma e naturalismo – quanto perché rappresentava un traguardo e un punto di partenza per il linguaggio cinematografico, di un’importanza pari a quella dei capolavori di Griffith. L’evoluzione del montaggio, in particolare, subisce qui una notevole accelerazione (anche in senso letterale!) nel descrivere il mutuo rapporto fra la velocità del treno e i moti dell’animo umano, che influenzerà in modo diretto e immediato le teorie e le pratiche del montaggio sovietico, con il suo rapporto dialettico fra uomo e macchina. Rapporto che Gance concepisce non in termini ideologici bensì come «ricerca di un cinetismo come arte propriamente visiva»[2]. Ma sono anche la monumentalità del progetto, la forza e la musicalità delle immagini («Gance concepì La Roue come una sinfonia: la sinfonia nera delle ferrovie e quella bianca delle montagne»[3]), la “fotogenia” dei primi piani (celebrata da Delluc e Epstein) a ispirare un’intera generazione di cineasti in tutto il mondo. Per fare solo alcuni nomi: Renoir, Epstein, Pabst, Kurosawa, nonché appunto Ejzenštejn e Pudovkin, i quali si recarono a Parigi per conoscere di persona il regista francese e i suoi metodi di lavoro.

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La Roue viene filmato tra il 1920 e il 1921 con un grande dispiego di mezzi. L’enorme successo di J’accuse (Per la patria, 1919) fece sì che Gance potesse ottenere un grosso finanziamento dalla Pathé (oltre due milioni e mezzo di franchi), tutto il tempo che voleva (l’intera produzione durò tre anni, un anno solo per le riprese) e la stessa squadra dei film precedenti, fra cui il direttore della fotografia, Léonce-Henry Burel, e l’attore Séverin-Mars. Per il ruolo femminile fu scritturata Ivy Close, una delle più grandi star del cinema inglese, che aveva recitato anche in America. La lunghezza originaria del film era spropositata e senza precedenti: trentasei rulli, sette ore e mezza di proiezione. Fu quindi suddiviso in quattro parti (La rosa delle rotaie, La tragedia di Sisifo, La corsa verso l’abisso e Sinfonia bianca), proiettate in tre diversi giorni nel dicembre del 1922 al Gaumont-Palace di Parigi. La prima parte, in particolare, ebbe un enorme successo; tuttavia Gance decise di ridurre il metraggio in 12 rulli e due parti, per la nuova edizione da presentare in febbraio, mentre le versioni per l’estero furono ulteriormente ridotte a otto rulli. La pellicola restaurata da Eric Lange e David Shepard nel 2007 l’ha riportato a una lunghezza di 20 rulli, per circa 4 ore e mezza di durata. Si tratta dell’edizione più completa mai vista dopo il 1923.

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Il set con le case dei ferrovieri fu costruito in esterni, attorno ai binari nei pressi della stazione di Saint Roch, vicino Nizza, dov’era ricoverata la moglie di Gance, Ida Danis, figlia di Andrée Danis, montatrice presso la Film d’Art. Gance era angosciato dalle condizioni gravi della moglie, e quando i medici consigliarono il suo trasferimento in montagna, Gance si stabilì con lei e tutta la troupe presso Chamonix, sul Monte Bianco, a 4.000 metri di altitudine. Lì modificò drasticamente lo script, inserendovi tutta la parte della ferrovia funicolare, che ebbe una lavorazione travagliata, fra tempeste di neve e valanghe. Ma le condizioni di Ida non migliorarono, così, per l’ultima parte del film ambientata nello chalet, si recarono nel sud della Francia, ad Acachon. Ida si era ammalata all’inizio della lavorazione e morì, a soli 27 anni, il 9 aprile 1921: era l’ultimo giorno delle riprese. Gance partì pochi giorni dopo per gli Stati Uniti per riprendersi dal dolore e, al tempo stesso, promuovere J’accuse. A luglio, mentre era ancora a New York, gli giunse la notizia della morte per infarto del suo attore, Séverin-Mars. L’anno successivo, Gance sposò la sorella di Ida, Marguerite.

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Gance immagina il protagonista, Sisif, come l’omonimo re greco punito dagli dei per la sua temerarietà e condannato a spingere in eterno un grande masso verso la cima di un monte; o come Tantalo, torturato dalla fame e la sete, cioè dal desiderio perenne di ciò che, pur avendolo sotto gli occhi ogni giorno, non può avere. I miti e la tragedia greca vengono calata nella contemporaneità (il treno, la ferrovia) di un mondo sospeso fra melodramma e naturalismo, fra Hugo e Zola. L’ispirazione diretta è un romanzo del 1912, Le Rail, del socialista Pierre Hamp, che però serve come puro pre-testo: non è la condizione operaia ad interessare Gance, la cui visione della vita è più simile a quella romantico-umanista di Victor Hugo. Ed è proprio di Hugo la citazione posta all’inizio della prima parte: «Io so che la Creazione è la grande ruota che non può muoversi senza schiacciare qualcuno». Per Gance la ruota è il destino a cui non si può sfuggire, come ribadito da alcune didascalie successive: «Incapace di sfuggire alla Ruota del suo amore immortale…», o la citazione da Kipling: «Ed è stato detto che loro non potranno liberare se stessi dalla Ruota». L’idea della ruota è materializzata dalle ruote del treno, certo, ma ricorre in diversi modi nel film, tanto che Jean Epstein poté scrivere con entusiasmo: «Con Abel Gance, il primo simbolo cinematografico è nato. La ruota»[4]. In una delle ultime sequenze, la figura della ruota si ripresenta, orizzontalmente, sotto forma di un cerchio danzante di persone su un promontorio innevato: fra loro c’è anche Norma, ed è l’ultima immagine che il vecchio Sisif, oramai cieco, percepisce prima di morire.

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Viene riproposta anche in questo film la contrapposizione fra due figure maschili: Sisif è un operaio, forte, rabbioso e violento; suo figlio Elie è un musicista, delicato, poeta e sognatore. Il comune oggetto di desiderio accende questo contrasto portandolo agli estremi. Sisif capisce di essersi innamorato della figliastra quando la scorge sull’altalena, con la gonna che si solleva mostrando le calze: prova allora un desiderio irrefrenabile che non lo lascerà più. Anche Hersan, l’ingegnere, è colpito in primis dalle gambe di Norma. In loro è l’attrazione sessuale ad essere preponderante, almeno all’inizio. Solo in Elie il desiderio per Norma rimane delicato, quasi trasfigurato, come nella scena in cui s’immagina assieme a lei in un’altra vita, in una fiabesca cornice medievale. Sisif, al contrario, è un uomo di carattere e di azione, e proprio per questo il duplice segreto che si porta dentro (il fatto che Norma non sia davvero sua figlia e il fatto di desiderarla) si traduce in pulsioni che lo spingono non solo a momenti di rabbiosa esplosione, ma soprattutto a una continua, silenziosa implosione che lo logora e lo consuma.

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Nei primi piani che lo ritraggono, l’illuminazione è spesso molto contrastata. Quando racconta la sua storia a Hersan, nella semioscurità, il suo volto è illuminato dal basso e ciò gli conferisce un’aria ancora più ossessionata e angosciata. Dopo avergli dato in sposa Norma e aver fatto schiantare la locomotiva (che aveva battezzato come lei), Sisif perde la sua forza, la sua vitalità e, progressivamente, anche la vista, in un lento ma inesorabile processo di chiusura in se stesso, accelerato poi dalla morte di suo figlio. Solo il riapparire di Norma, verso la fine dei suoi giorni, gli dona quella pace che non ha mai avuto. E forse quella stalattite che torna più volte come un refrain, ripresa in dettaglio e isolata dal contesto, nell’atto di sciogliersi, sta a rappresentare il progressivo disgelo del suo cuore. Al contrario di Sisif, il volto di Norma è come bagnato dalla luce. Sia quando è radiosa e sorridente, sia quando è disperata e ricoperta di neve, una qualche fonte di luce – quasi sempre extradiegetica – è sempre lì a rendere diafana la sua pelle e a farle brillare i capelli biondi.

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Lo stesso Gance compare in prima persona – come aveva già fatto in alcuni dei film precedenti – subito dopo il titolo, a mezza figura, poi in primo piano, assieme a varie immagini in sovrimpressione di binari e treni in movimento. Più avanti, un’inquadratura fissa a piombo registra il movimento arabescato dei binari durante la corsa del treno, i dettagli delle ruote, i meccanismi di trazione del treno. Ed è solo l’inizio: in sede di riprese, come poi al montaggio, domina la voglia di sperimentare strade nuove. Non furono mai usate retroproiezioni, tutto fu fimato e realizzato sul posto, compresi gli effetti speciali che, com’è noto, all’epoca venivano effettuati direttamente nella cinepresa.

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Le numerose sovrimpressioni richiesero il passaggio in camera degli stessi fotogrammi anche per quattro o cinque volte, col serio rischio, più volte manifestatosi, di danneggiare il negativo. L’operatore principale, Léonce-Henri Burel (che negli anni ’50 collaborerà più volte con Bresson), utilizzò con grande sapienza la dissolvenza incrociata, specialmente in raccordo sull’asse (procedimento che di lì a poco sarà usato da cineasti come Sjöström, Dreyer ed Epstein), nonché titoli e intertitoli in sovrimpressione sulle immagini, anziché sui cartelli; Gance, da parte sua, oltre a quelli neri, inventò dei mascherini bianchi, ricorrendo a dell’avorio molto sottile e trasparente, che adoperò poi anche in Napoléon (Napoleone, 1927)[5].

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La macchina da presa, pur non librandosi ancora intrepida e libera come nel capolavoro successivo, segue lo spostamento di treni e personaggi tramite carrelli, sia laterali che in verticale, abbinati anche a riprese in soggettiva; panoramiche, non sempre corrispondenti allo sguardo dei personaggi, percorrono le cime dei monti e il biancore dei ghiacciai. In una scena viene adoperata una piattaforma girevole, all’interno di un capannone: Séverin-Mars/Sisif è in piedi, fermo, e il paesaggio ferroviario inizia a girare intorno a lui. Non si tratta qui di un movimento di macchina, ma di un effetto meccanico che però “mima” una panoramica a 360°: i “musi” delle locomotive compaiono sullo sfondo, oltre il profilo pensoso e nostalgico di Sisif, che si appresta a partire per il Monte Bianco.

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Un altro marchio distintivo della regia di Gance sono gli sguardi in macchina, che usa di frequente, come il Griffith di Broken Blossoms (Giglio infranto, 1918) o Stroheim. Ce ne sono principalmente di due tipi: quelli nei quali il personaggio non sta propriamente guardando, ma è assorto, sta ricordando, riflettendo; oppure si presentano sotto forma di soggettive dello sguardo altrui. In entrambi i casi hanno l’effetto di catturare con ancora maggiore incisività lo sguardo dello spettatore.

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E’ già il terzo film in cui Gance riassume, per così dire, il destino dei personaggi sin dalla loro presentazione, tramite immagini in sovrimpressione o in dissolvenza incrociata che si pongono come loro equivalenti in termini psicologici, simbolici o come leitmotiv: il volto di Sisif compare in sovrimpressione sulla locomotiva; è notte e la locomotiva in movimento scompare lentamente verso l’oscurità, il che sembra prefigurare la futura cecità del protagonista. Poi compare il viso di Norma in primo piano, immobile, quasi catatonico, mentre la neve si addensa sul suo capo; più avanti una dissolvenza incrociata sovrapporrà al suo viso una rosa bianca. Questo tipo di “montaggio interno” delle immagini mediante sovrimpressioni, già adoperato da Gance in precedenza, ricorre in tutto il film. E’ qualcosa di molto diverso rispetto alle apparizioni dei fantasmi in Körkarlen (Il carretto fantasma, 1921) di Sjöström: qui non si tratta di visioni attinenti a fenomeni che, per quanto sovrannaturali, possiamo definire “oggettivi”, elementi attivi nella progressione del racconto, ma di una soggettivizzazione dell’immagine che anzi sospende momentaneamente l’azione (ma non il movimento interno al quadro), in favore di un’incursione “verticale” di ordine psicologico-lirico. Così ad esempio quando Sisif si fa leggere la mano, annerita dal carbone, la visione del cartomante di una locomotiva in viaggio viene proiettata direttamente sulla mano di Sisif; e quando oramai Sisif vive in montagna, quasi cieco, il treno funicolare a cui è stato affidato viene sostituito, nella mente dell’amico Mâchefer, da una lumaca che striscia lentamente lungo i binari.

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Questa «amplificazione lirica della rappresentazione»[6] trova la sua massima espressione nell’impiego del montaggio rapido. Alcuni studiosi ritengono che Gance abbia sviluppato l’idea del montaggio rapido soltanto dopo la sua visita a Griffith. Altri ancora che sarebbe stata decisiva l’influenza del suo amico, poeta e collaboratore Blaise Cendrars (che girò un breve documentario sulla lavorazione del film) e quella di Léger, futuro autore di Ballet mécanique[7], che disegnò anche la locandina cubista di La Roue. Ad ogni modo, dagli estratti pubblicati della sua sceneggiatura, scritta nell’autunno del 1919, e cioè tre anni prima del suo viaggio negli Stati Uniti, e ora perduta, risulta che Gance avesse già in mente, per alcune scene, di utilizzare un montaggio rapido, o accelerato[8], cioè un’interpolazione, all’interno di una medesima sequenza, di brevi immagini, sempre più rapide, fino ad divenire quasi subliminali: «L’impatto è intensamente drammatico e dato che gli inserti montati rapidamente variano dai due piedi a un fotogramma, l’impatto è anche fisico. Poiché la luce lampeggiante dallo schermo attiva il nervo ottico ed eccita il cervello»[9].

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Una sequenza esemplificativa di questo procedimento, è quella in cui Sisif accompagna Norma a sposarsi, in locomotiva, l’uomo, avendo in mente un omicidio/suicidio, manda il mezzo alla velocità massima; si susseguono inquadrature via via sempre più brevi sui binari che scorrono, in plongée, ristretti da un mascherino, sulle ruote, la ciminiera, le gallerie, il tachimetro, su Norma che osserva dal finestrino un paesaggio smaterializzato dalla velocità. A proposito di questa sequenza, Germaine Dulac così scrisse:

Movimento di occhi, di ruote, di paesaggi, neri, bianchi, crome, semicrome, combinazione d’orchestrazione visiva: cinema! Dramma forse, ma dramma concepito in una formula assolutamente originale, lungi dalle leggi che reggono il teatro e la letteratura.[10]

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Momenti simili li ritroviamo durante il racconto di Sisif a Jacques de Hersan, su come trovò la piccola Norma dopo il disastro ferroviario; o nel momento in cui Elie sta per precipitare giù dal dirupo, quando il ragazzo rivede nella sua mente rapidi flash del suo passato felice insieme a Norma. Quest’ultima sequenza dapprima è scandita dal più classico e griffithiano montaggio alternato: Elie appeso al dirupo cerca di resistere con tutte le sue forze, Norma (e Sisif, che arranca dietro di lei, mezzo cieco) corre per salvare Elie; la tensione generata dall’alternanza dei piani, che in Griffith veniva generalmente ricompensata con l’happy ending, qui viene frustrata e delusa. Infatti, subito dopo il rapidissimo montaggio rapido dei flashback di Elie, in cui il giovane ricorda il suo passato felice con Norma, ci ritroviamo con un senso di sgomento e di shock ad assistere impotenti alla sua morte, proprio come Norma.

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Simili innovazioni del linguaggio, assieme a molte altre sperimentazioni, riguardanti in particolar l’utilizzo della macchina da presa, troveranno il loro apogeo in Napoléon, l’epocale, ma sfortunato, ultimo film muto di Abel Gance.

Vittorio Renzi

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La Roue (La rosa sulle rotaie)

[The Wheel]

Francia, 1922

regia: Abel Gance

soggetto: romanzo Le Rail di Pierre Hamp

sceneggiatura: Abel Gance

fotografia: Léonce-Henri Burel,
e Maurice Duverger, Gaston Brun, Marc Bujard

montaggio: Marguerite Beaugé, Abel Gance

musica: Arthur Honegger; Robert Israel (2008)

scenografia: Robert Boudrioz

produzione: Abel Gance, Charles Pathé, per Films Abel Gance

cast: Séverin-Mars (Sisif), Ivy Close (Norma), Gabriel de Gravone (Elie),
Pierre Magnier (Hersan), Georges Térof (Machéfer),
Max Maxudian (Kalatikascopoulos), Gil Clary, Géo Dugast

lunghezza: 32 rulli (orig.); 20 rulli [restauro 2007];
12 rulli [1924]; 8 rulli [1928]

durata: 273’ [restauro 2007]

première: Parigi, dicembre 1922 [in quattro parti, per tre giornate, 20 rulli]

data di uscita: 17 febbraio 1923 [in due parti, 12 rulli]

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Progetto per il poster del film, dipinto da Fernand Léger.


[1] Kevin Brownlow, Come Gance ha realizzato Napoléon, Milano, Il Castoro, 2002, p. 35.
[2] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 59.
[3] K. Brownlow, op. cit., p. 31.
[4] Norman King, Abel Gance, London, BFI, 1984, p. 28 (traduzione mia).
[5] K. Brownlow, op. cit., p. 57.
[6] Alfonso Canziani, Il cinema francese negli anni difficili, Milano, Mursia, 1979, p. 25.
[7] Dominique Païni, La fine del mondo prima di “La Roue” e “Ballet mécanique”, in Cinegrafie 14, Bologna, Le Mani, 2001, pp. 44-47.
[8] N. King, op. cit., p. 83. (traduzione mia)
[9] Kevin Brownlow, The Parade’s Gone by…, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1968, p. 46. (traduzione mia)
[10] A. Canziani, op. cit., p. 92.

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