Dr. Mabuse, der Spieler (Il dottor Mabuse, 1922)

Fritz Lang

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SINOSSI: PARTE PRIMA – Il dottor Mabuse, ufficialmente uno psicanalista, è in realtà un uomo dai mille volti e dai poteri ipnotici, a capo di una organizzazione criminale. Uno dei suoi uomini ruba a un corriere una valigetta contenente un contratto commerciale segreto e ciò provoca il ribasso del mercato in Borsa. Mabuse compra tutte le azioni al minimo per poi rivenderle al momento giusto. Alle Folies Bergères si esibisce la danzatrice Cara Carozza. Alla fine dello spettacolo, Mabuse avvicina il figlio di un ricco industriale, Edgar Hull e lo persuade a farsi accompagnare da lui in un club esclusivo di giocatori. Mabuse e Hull giocano a carte e Mabuse gli vince una grossa somma di denaro. Recatosi all’hotel per pagargliela, Hull incontra Cara, una spia di Mabuse, e se ne innamora. Nel corso delle sue indagini su una serie di grosse vincite nelle bische clandestine, il procuratore Norbert von Wenk conosce la contessa Dusy Told e s’imbatte nello stesso Mabuse, il quale tenta di ipnotizzarlo, ma senza riuscirvi. Allora lo fa rapire, derubare e abbandonare su una barca alla deriva, ma Wenk viene tratto in salvo. Nel frattempo, Hull viene assassinato e Cara Carozza viene accusata dell’omicidio e arrestata. La contessa, mandata da Wenk, tenta di farla parlare, ma la ballerina è inamovibile. A un ricevimento in casa del conte Told, collezionista di opere d’arte, Mabuse fa in modo che il conte prima vinca alle carte e poi si faccia accusare di aver barato. Infine rapisce la contessa.

PARTE SECONDA – Carozza è in una cella, oppressa per l’abbandono di Mabuse. Told decide di farsi curare da uno psicanalista e sceglie proprio Mabuse, che gli impone un totale isolamento. Nel frattempo, un suo uomo, travestito da secondino, porta a Carozza del veleno e lei si suicida. Un altro uomo di Mabuse tenta di far esplodere l’ufficio di Wenk, ma viene arrestato, mentre il falso secondino, catturato dalla polizia, viene ucciso da un cecchino. Persuaso da Mabuse che la moglie l’abbia lasciato, e ormai alcolizzato, Told si taglia la gola. Il procuratore vuole interrogare lo psicanalista e se lo ritrova nello studio. Mabuse lo invita alla dimostrazione d’ipnosi del dottor Sandor Weltmann (lo stesso Mabuse), al Salone della Filarmonica. Durante lo spettacolo, Wenk finisce sotto ipnosi e si mette alla guida di un’automobile diretta verso un precipizio, ma i suoi uomini lo salvano. La polizia e l’esercito circondano la casa di Mabuse. Nella sparatoria che ne segue, quasi tutti gli uomini di Mabuse restano uccisi. La contessa viene liberata. Mabuse fugge attraverso il condotto fognario che collega la sua casa al laboratorio dei falsari. Ma una volta lì resta chiuso in trappola, in compagnia dei contabili ciechi. Perseguitato dai fantasmi delle persone che ha fatto uccidere, Mabuse impazzisce e viene portato via dagli uomini di Wenk.

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Rispetto ai film seriali di Feuillade, ma anche a Die Spinnen (I ragni, 1919), il doppio film Dr. Mabuse, pur mantenendo alcuni elementi che rimandano alla sfera del fantastico e dell’irreale, ha un maggiore riguardo per la verosimiglianza e l’aderenza alla realtà. Non è certo un caso se in entrambi i sottotitoli che Fritz Lang e Thea von Harbou diedero alle due parti del film compare la parola “zeit”, intesa come epoca, la loro epoca. Che si trattasse di un’operazione ambiziosa e consapevole lo testimonia il fatto che il film poté giovarsi di una campagna pubblicitaria massiccia e senza precedenti. Mabuse fu identificato dagli spettatori più attenti di allora come il personaggio-simbolo della Repubblica di Weimar, nel quale si riflettevano la crisi economica, i conflitti interni, gli omicidi politici, la corruzione, il caos e il declino di un mondo affacciato sul precipizio dell’imminente dittatura. E se da un lato Kracauer insisteva sull’analogia fra il personaggio e il futuro Fuhrer, dall’altro, Lang in un’intervista ribadì che Mabuse rappresentava più genericamente il superomismo nietzschiano in una chiave però negativa, che rispecchiava una società in stato di shock a seguito della Grande Guerra, dominata per reazione dall’edonismo più sfrenato e dal cinismo.

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Uomo dei suoi tempi, Mabuse è perfettamente in grado di muoversi nel caos, suo elemento naturale, che egli stesso genera (e i primi effetti del suo sguardo malvagio e ipnotico sulla mente delle sue vittime sono la confusione e il disorientamento). Abile trasformista come il Fantômas felleudiano, nel momento in cui deve servirsi di una delle sue “facce” – lo vediamo proprio all’inizio del film – lo fa scegliendo una foto a caso da un mazzo, come se giocasse, in primo luogo, col suo stesso destino. Relativamente al concetto di caos, sempre Kracauer ne individua la rappresentazione visiva nell’immagine del cerchio, presente a più riprese e in varie modalità nel film di Lang (e, parallelamente in Das Cabinet des Dr. Caligari, Il gabinetto del dottor Caligari, 1920, di Wiene): ad esempio nel tavolo da gioco circolare del Petit Casino, figura poi raddoppiata dal palco, sempre circolare, in cui si esibisce una ballerina e che, calando dall’alto, serve ad occultare il tavolo da gioco agli occhi della polizia; o la catena di mani posate sul tavolo rotondo per la seduta spiritica in casa dei Told.

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Ma, tornando alla questione del tiranno, Mabuse, a differenza di altri oscuri stregoni del passato, come Scapinelli di Der Student von Prag (Lo studente di Praga, 1913) o Caligari – la cui malvagità si esprimeva però in modo apparentemente gratuito – è un uomo che usa i suoi poteri per dominare gli altri e accumulare potere e ricchezza. In questo senso dunque egli è senz’altro un tiranno. D’altra parte, i suoi travestimenti, i suoi mille volti e ruoli, la sua ubiquità trasversale nei vari ambienti e strati della società, lo identificano non tanto come un essere soprannaturale, incarnazione di un Male metafisico (come Caligari, appunto, o il Nosferatu di Murnau), quanto la manifestazione di un male declinato al plurale, anonimo e sfuggente, una «onnipresente minaccia che non si può localizzare»[1], perché presente ovunque e diffusamente nelle maglie della società. Ecco quindi che Mabuse assume di volta in volta l’identità di uno psicanalista, di un rispettabile avventore del teatro con tanto di monocolo, di un giovane giocatore, di un vecchio russo barbuto, di un lavoratore alcolizzato, di un venditore di strada ebreo, di un vecchio giocatore col naso finto a punta, di un mago dall’aspetto che ricorda Rasputin. E’ come un demone che si impossessa dei corpi e delle identità altrui, un ultracorpo o un vampiro che piega la volontà delle persone rendendole sue schiave. Ma se è un demone, è il più materialista fra i demoni. Una delle scene più eloquenti a tal proposito è quella della Borsa, in cui gli esseri umani si agitano come formiche impazzite, con i loro foglietti di carta nelle mani sollevate, le voci (che non sentiamo, ma che immaginiamo) sovrapposte e confuse. E in mezzo a loro Mabuse, calmo, immobile, in attesa del momento migliore per colpire. Finita la giornata, la sala rimane vuota, col disordine dei mille foglietti di carta gettati in terra, ormai inutili. E, infine, a riempire lo schermo è il volto di Mabuse, dominatore del mercato (e dunque del mondo moderno).

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Ad essere interessante non è il solo Mabuse (interpretato magnificamente da Rudolf Klein-Rogge, vera e propria icona del cinema muto langhiano).  Anche altri personaggi sono più complessi e meno lineari e stereotipati che non nel già citato Die Spinnen. Inizialmente, Cara Carozza sembra essere il personaggio femminile principale, la seduttrice, la femme fatale. La sua funzione invece si esaurirà molto prima del previsto, mentre un altro personaggio femminile prenderà il sopravvento: la Contessa Dusy Told. Cara (tradotto in alcune edizioni come Chérie) esordisce con un frenetico can-can alle Folies Bergères, sotto gli sguardi bramosi del pubblico maschile. Ad un tratto dalle due estremità del palcoscenico sbucano due mascheroni col naso fallico ai quali Cara si appoggia. Alla fine del suo show, la ragazza è in piedi sui due nasi e dall’alto le viene strappata la gonnella. Seduttrice su commissione (del giovane Hull), Cara non è altro una misera donna-oggetto da sfruttare e manipolare senza pietà da Mabuse, pronta a immolarsi per lui senza che la sua devozione sia ricambiata.

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Il personaggio della Contessa Dusy ha una funzione difficile da definire: nell’economia della narrazione, dapprima è una semplice aiutante, in seguito, fatta oggetto delle attenzioni di Mabuse, diviene la “principessa/premio” (per usare la terminologia proppiana). Ma, prima ancora, quando facciamo la sua conoscenza, ci appare come una nobildonna gettata languidamente su una poltrona ad osservare (la chiamano infatti la “Spettatrice” o l’”Inattiva”) i giocatori d’azzardo vincere, consumarsi o distruggersi, a nutrirsi delle loro passioni. Un personaggio che di primo acchito sembra alquanto torbido e ambiguo. In realtà si tratta di una donna ammalata di noia, imprigionata in un matrimonio che non le dà niente. Il motivo per cui accetta di aiutare Wenk nella sua indagine è quindi quello di vivere in prima persona delle emozioni. Ma questa sua brama si arresta poi di fronte al dolore altrui: quando va in prigione fingendosi una prigioniera per far confessare a Cara Carozza il nome del misterioso truffatore e la vede struggersi d’amore, rifiutandosi di tradire l’uomo che ama, la Contessa ne è impressionata. E decide così di non prendere più parte a quella caccia all’uomo. Ma poi rimane comunque invischiata nella rete di Mabuse, trasformandosi appunto da aiutante in vittima.

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Anche il Conte Told è un personaggio piuttosto sui generis: un uomo delicato, effeminato (ma direi quasi asessuato), interessato esclusivamente alle sue collezioni d’arte ed estraneo al mondo del gioco. La sua vita viene distrutta al solo entrare in contatto con Mabuse, di cui è una vittima ideale. Facilmente manipolabile, data la sua ingenuità, il Conte si ritrova dapprima, senza sapersi spiegare come, con le carte in mano a barare e ingannare i suoi stessi ospiti e amici, per poi divenire un paziente nelle mani del suo stesso torturatore e boia. Prima di compiere il gesto estremo, è perseguitato dai suoi fantasmi, proiezioni di immagini di se stesso che occupano tutte le sedie del salotto, immagini ottenute da Lang e dal suo operatore Carl Hoffmann tramite l’uso di esposizioni multiple. E’ la sua stessa immagine di giocatore vizioso e ingannatore che la mente di Told, distrutta dall’alcool, non può sopportare. Sovrimpressioni che torneranno poi nel finale, quando Mabuse, a sua volta, sarà portato alla follia dalla visione dei fantasmi di tutte le persone di cui ha causato la morte, a cui si aggiunge la trasformazione della macchina che stampa i soldi falsi in un mostro meccanico che anticipa la Herzmaschine/Moloch di Metropolis (1926).

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Il procuratore von Wenk, interpretato da Bernhard Goetzke, l’indimenticabile Tristo Mietitore del precedente Der müde Tod (Destino, 1921), è il classico uomo di legge tutto d’un pezzo, determinato e incorruttibile, ma la cui ambizione finisce per mettere in pericolo le vite delle persone che lui stesso coinvolge nella sua caccia all’uomo, cosa di cui non sembra curarsi più di tanto. E’ in questo senso, un antesignano di tanti poliziotti del cinema a venire, uomini segnati da un’ossessione, che si sporcano le mani e l’anima e finiscono quasi per assomigliare ai criminali che braccano (in una scena, prima di entrare in una bisca, lo stesso Wenk si traveste con parrucca e baffi finti al pari di Mabuse). Infine, uno degli uomini di Mabuse, Spoerri (Robert Forster-Larrinaga, qui al suo ultimo film), dall’aria viziosa e molle, vile, il cui gesto caratteristico è quello di toccarsi e strofinarsi il naso, perché cocainomane. Quando Mabuse minaccia di buttarlo fuori di casa, all’inizio del film, lui risponde che in tal caso si sparerebbe alla testa. Totalmente devoto al suo signore, è anche lui, assieme al Conte Told e a Cara Carrozza, la perfetta raffigurazione della decadenza e dello stato di confusione della società tedesca di Weimar.

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Lang dimostra una volta di più una perfetta padronanza del montaggio (che impressionò profondamente Ejzenštejn) nel concatenare i numerosi eventi, i destini dei personaggi e le sottotrame che compongono questo lungo dittico senza mai far perdere allo spettatore né il filo della narrazione né il ritmo e la suspense dell’azione, che era quanto di più serrato si fosse visto fino a quel momento. Il che non è scontato, se consideriamo che la lunghezza totale delle due parti supera i seimila metri, per una durata di oltre quattro ore e mezza di film, il che rende Dr. Mabuse uno dei film più lunghi degli anni Venti (durata superata poi dalla successiva saga Die Nibelungen, I Nibelunghi, 1924). Deleuze porta ad esempio proprio questo film, nella sua formulazione dell’immagine-azione, citando la sequenza iniziale del furto della valigetta sul treno:

Un’azione organizzata, segmentata nello spazio e nel tempo, con gli orologi sincronizzati che scandiscono l’assassinio nel treno, la macchina che porta via il documento rubato, il telefono che avverte Mabuse. L’immagine-azione rimarrà segnata da questo modello a tal punto da trovare nel film giallo un ambito privilegiato e nell’attacco a mano armata l’ideale di un’azione minuziosa segmentata.[2]

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Il tempo, sotto ogni aspetto, è dunque il centro nevralgico del film e questo si nota anche dal fatto che «Mabuse è un perfezionista, un maniaco della puntualità, cioè un adoratore del Tempo. (…) Lang distribuisce ovunque orologi e quadranti»[3]. Oltre al montaggio, è essenziale il lavoro fatto sulle scenografie, sull’illuminazione, sui trucchi visivi. Come ha notato Lotte Eisner, con Dr. Mabuse Lang non voleva fare un film espressionista sul modello del Caligari, anche se come tale è stato recepito spesso dai suoi commentatori. Con l’eccezione di pochi ambienti e oggetti, ad esempio il quadro di Lucifero in casa Told, presso il quale Mabuse sosta assumendone quasi la posizione, o nel locale con le fiamme dipinte sulle pareti, in cui cenano il procuratore Wenck e un suo amico,  nelle scenografie c’è più modernismo e Art Déco che espressionismo. Fra l’altro, proprio in quella medesima scena il Conte Told chiede a Mabuse: «Cosa ne pensa dell’Espressionismo?” e Mabuse, di rimando: “L’Espressionismo è solo un gioco. Ma perché non giocarvi? Tutto è solo un gioco, oggigiorno!» e in questa risposta sembra quasi che Lang voglia smarcarsi da qualsiasi facile etichetta.

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Tuttavia alcuni stilemi propriamente espressionisti negli effetti luministici si possono notare nell’incontro all’hotel fra Cara Carozza e Mabuse, la cui ombra si proietta ingrandita sulla parete alla quale è appoggiata la donna, a significare il controllo totale che l’uomo ha su di lei. E poi in uno dei piani che mostrano Cara Carozza in cella, con le ombre delle sbarre che si muovono sul suo volto, come a indicare il passare del tempo, movimento che contrasta con l’immobilità del suo corpo e del suo sguardo, oramai svuotato. E, ancora, nella scena in cui il Conte, vaga oramai folle per la sua casa, buia e desolata, fino a sparire fuori campo oltre la porta del bagno dove si toglierà la vita. Ma soprattutto in quel gioco di primi e primissimi piani, dettagli e uso dei mascherini che focalizzano l’attenzione sul volto e sugli occhi di Mabuse, tramite il quale «Lang riuscì a fare in modo che il pubblico sentisse realmente la forza dell’ipnotismo»[4] e che, come accadrà ancora più massicciamente in Metropolis, sfociano in un’operazione chiaramente metafilmica:

Sono immagini perfettamente organiche allo sviluppo della rappresentazione, eppure eccedenti, ulteriori, che palesano un regime più complesso dello sguardo, in cui il cinema mostra se stesso direttamente come esercizio di ipnosi, strumento tecnico per la cattura dello spettatore, fascinazione in atto. Il carattere diegetico dell’inquadratura è quasi cancellato dall’intensificazione scritturale, che rende lo sguardo di Mabuse una presenza cifrata e metalinguistica.[5]

Dal Caligari, Lang riprende poi l’uso di scritte diegetiche, come quella di Tsi-nan-fu (la frase esotica che innesca l’ipnosi) che appare luminosa sul tavolo da gioco, sotto le carte di Wenk, o la parola “Melior” che sfreccia in avanti a più riprese dal fondo dello schermo a guidare la folle corsa suicida in auto di Wenk.

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A questi momenti drammatici, Lang alterna, come è solito fare, dei siparietti da commedia, in cui azzecca alcune caricature fra i personaggi secondari: alle Folies Bergères una coppia di mezza età guarda lo show. Quando una donna nuda fuoriesce da un’ostrica gigante, raffigurando in modo plebeo e volgare la nascita di Venere, il marito strabuzza gli occhi e la moglie lo prende a gomitate. Più tardi, finito lo spettacolo di Cara, un vecchio borghese, dalla sua loggia, lancia forsennatamente sul palco mazzi di fiori e, una volta finiti, li strappa dalle mani degli spettatori a lui vicini per lanciare anche quelli. In seguito, in una bisca, Lang ritrae divertito una ricca donna russa, grassa e ingioiellata, che s’infuria mentre perde alle carte. La sequenza semiparodistica della seduta spiritica, in cui Lang si diverte a mostrare il volto stravolto dagli occhi cerchiati di una presunta medium che però né la Contessa né lo stesso Lang prendono molto sul serio. Infine, il vecchietto che assiste allo spettacolo illusionistico di Sandor Weltmann/Mabuse e che a un certo punto, terrorizzato, si ritrova tra le mani la pistola di Wenk e la consegna nelle mani del mago tenendola fra il pollice e l’indice.

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All’inizio del suddetto spettacolo alla Filarmonica assistiamo alla messa in scena di un vero e proprio film nel film (un film 3D per la precisione!) quando il mago fa apparire sul fondo del palcoscenico uno squarcio di oasi nel deserto. In questo caso non si tratta di una doppia esposizione sul fondo dello schermo, come avveniva invece nel segmento analogo di Der Golem (Il Golem, Wegener/Boese, 1920), ma di una scenografia che interagisce con quella del teatro: già le palme e la sabbia invadono il proscenio, ma il clou del numero si raggiunge quando la carovana tribale, partita dal fondo, attraversa lo schermo invisibile, che coinciderebbe con la parete di fondo del palcoscenico, e scende  in platea, attraversando il teatro in mezzo al pubblico sbalordito. Sembra di assistere al sogno di un regista che ambisce a realizzare l’opera totale, conquistando addirittura la tridimensionalità. Opera totale anche rispetto molteplicità dei generi che affronta: film di gangster, film d’avventura, dramma, thriller, film dell’orrore (fantasmi e visioni) e, per finire, nella sequenza in cui la polizia circonda la casa del criminale, una lunga sparatoria che comincia come un western e finisce, con l’arrivo dei soldati, come un film di guerra.

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In Dr. Mabuse, infine, il cinema incontra la metropoli e in essa si riflette: la tentacolare Berlino (anziché la Monaco provinciale del romanzo di Norbert Jacques), con i suoi vizi, la confusione, l’isteria e la paranoia. Grazie alla perizia tecnica del direttore della fotografia, Carl Hoffman, e ai nuovi ritrovati tecnologici, fu possibile girare per la prima volta delle scene notturne, anche se non si trattava di “esterni”, dato che la città era stata interamente ricostruita in studio: i fari delle macchine di passaggio e le luci del treno sopraelevato (in realtà, un modellino) riempirono di meraviglia il pubblico e critici. Fino a quel momento infatti le scene notturne venivano girate di giorno per poi tingere la pellicola di blu, ma la differenza fra i due metodi appare eclatante: ad esempio non si vedono più le ombre degli edifici o degli attori, come accade invece nei film di Murnau di quello stesso anno, Nosferatu Phantom (Fantasma, 1922).

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In seguito all’enorme successo ottenuto dal dittico, le gesta del diabolico criminale torneranno sullo schermo dieci anni dopo, in Das Testament des Dr. Mabuse (Il testamento del dottor Mabuse, 1932) e poi quasi quarant’anni dopo in Die Tausend augen des dr. Mabuse (Il diabolico dottor Mabuse, 1960), entrambi firmati da Fritz Lang. Ma, dal momento che l’autore del romanzo ne aveva nel frattempo venduto i diritti, il personaggio verrà sfruttato al cinema anche da altri, dando vita a un vero e proprio ciclo, spesso non molto fedele alle caratteristiche dell’originale.

Dr. Mabuse, der Spieler è stato restaurato nel 2000 ad opera del F.W.-Murnau-Stiftung, che si è basato sulla ricostruzione operata nel 1991 dal Filmmuseum München. La colonna sonora originale, creata molto probabilmente da Gottfried Huppertz, andata perduta, è stata composta in occasione del restauro da Aljoscha Zimmerman.

Vittorio Renzi  (6 novembre 2016)

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Dr. Mabuse, der Spieler (Il dottor Mabuse)

[Dr. Mabuse, the Gambler]

1.Teil:  Der große Spieler. Ein Bild der Zeit

(Il grande giocatore. Un quadro dell’epoca)

2.Teil:  Inferno. Ein Spiel von Menschen unserer Zeit

(Inferno. Un dramma di uomini della nostra epoca)

Germania, 1922

regia: Fritz Lang

soggetto: romanzo di Norbert Jacques

sceneggiatura: Thea von Harbou

fotografia: Carl Hoffmann

musica: Aljoscha Zimmermann (2000)

scenografia: Otto Hunte e Karl Stahl-Urach

costumi: Vally Reinecke

produzione: Erich Pommer, per Uco-Film der Decla-Bioscop

cast: Rudolf Klein-Rogge (dott. Mabuse), Aud Egede-Nissen (Cara Carozza), Bernhard Goetzke (Norbert von Wenk), Gertrude Welcker (contessa Dusy Told), Alfred Abel (conte Told), Paul Richter (Edgar Hull), Robert Forster-Larrinaga (Spoerri), Hans Adalbert Schlettow (Georg, l’autista), Georg John (Pesch), Julius Falkenstein (Karsten), Grete Berger (Fine, un servo), Karl Huszar (Hawasch), Lydia Potechina (la russa), Anita Berber (ballerina)

lunghezza: 3.496 metri (prima parte); 2.560 metri (seconda parte)

durata:  271′

première: Berlino, 27 aprile 1922 (prima parte);

Berlino, 26 maggio 1922 (seconda parte)

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[1] Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001, p. 132.
[2] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 90.
[3] Stefano Socci, Fritz Lang, Milano, Il Castoro, 1995, p. 28.
[4] Lotte H. Eisner, Fritz Lang, New York, Da Capo Paperback, 1976, pp. 65-66 (traduzione mia).
[5] Paolo Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Torino, Lindau, 1990, p. 47.

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