Fritz Lang
“Vorrei chiarire che non appartengo al genere di uomo che misura il valore culturale di un film quanto più è lontano dal gusto del pubblico, perché io stesso ho sperimentato che il pubblico di tutti gli strati si fa affascinare dai film artistici quando non si allontanano troppo dal carattere filmico e quando la serietà non si trasforma in noia.”
(Fritz Lang)[1]
Il film iconograficamente più famoso del cinema muto ha anche una delle storie più travagliate che mai un’opera su celluloide abbia conosciuto, al punto che solo in anni recenti se ne è potuta vedere finalmente una versione, se non ancora completa, comunque assai più vicina a quella presentata all’UFA-Palast am Zoo di Berlino, il 10 gennaio 1927. Da allora, il film tedesco a più alto budget mai prodotto fino a quel momento, ha subito una lunga serie di tagli, manomissioni, rimontaggi e, con l’andare del tempo, di distruzione e perdita dei materiali originari. Se la versione originale misurava 4.189 metri, già nei mesi successivi il film fu ridotto a 3.241 metri dalla stessa UFA; in America, dove uscì distribuito dalla Paramount, venne ulteriormente tagliato e rimontato.
La copia riemersa nel dopoguerra era ancora più breve, ridotta oramai a poco più della metà rispetto all’originale: 2.530 metri, senza più traccia di viraggi. Da quel momento in poi, grazie all’impegno di Enno Patalas e di altri storici e studiosi, è cominciato un lungo percorso di ricerca e restauro che ha dato vita a diverse versioni del film. Fino a non molti anni fa la più famosa di queste era quella rimontata da Giorgio Moroder nel 1984, virata a colori e con una colonna sonora rock. Infine, altri ritrovamenti sporadici che culminarono, nel 2008, con la scoperta fondamentale di una copia quasi completa, anche se in cattivo stato di conservazione, nell’archivio di Buenos Aires. Da questa provengono le sequenze e le inquadrature fino a quel momento ritenute perdute, per un totale di oltre 25 minuti, montate poi sul negativo americano – il migliore in circolazione per qualità – per la ricostruzione e il restauro. In questa occasione è stata inoltre integralmente ricostruita la colonna sonora originale di Gottfried Huppertz.
La città di Metropolis venne ideata dallo scenografo Erich Kettelhut, che si ispirò a diversi stili architettonici e fu realizzata alternando disegni e modellini. Monumenti e interni sono invece opera di Otto Hunte. Sembra che proprio in Metropolis per la prima volta si ebbe la possibilità di far interagire gli attori con scenari costituiti da modellini in scala, tramite l’effetto Schüfftan: uno specchio biriflettente veniva situato davanti alla macchina da presa e inclinato di 45 gradi, in modo da riprodurre, ingrandito, il riflesso di oggetti, modelli o fotografie. Eugen Schüfftan, esperto di trucchi fotografici e successivamente direttore della fotografia, aveva già collaborato a Die Nibelungen (I Nibelunghi, 1924) di Lang, Varieté (1925) di Dupont e fornì spunti anche al Napoléon (1927) di Gance. Il suo metodo però poteva funzionare solo con inquadrature ferme e senza movimento al loro interno.
Altre scene furono invece girate avvalendosi direttamente dei modellini mediante le tecniche dell’animazione a passo uno, come nel caso della simulazione del traffico di Metropolis, ottenuta spostando a mano, di volta in volta, piccole automobiline lungo le strade (inquadratura di circa dieci secondi che richiese la bellezza di otto giorni!). E quando neanche i modelli erano sufficienti, si ricorreva a dipinti (come nella scena dei Giardini Eterni) resi il più possibile tridimensionali dall’illuminazione.
Per quanto riguarda la trasformazione del robot nella falsa Maria, i trucchi usati sono vari e complessi e, in tale frangente, la pellicola fu impressionata moltissime volte. Le sovrimpressioni sono d’altronde assai ricorrenti in questo film. La mdp manovrata da Karl Freund dà luogo a diversi movimenti, in maniera simile a quanto aveva già fatto in Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924) di Murnau e riprende l’idea, sperimentata con successo in Varieté, della mdp montata su un’altalena per le riprese in soggettiva del trapezio. «Si tratta per Freund di fare della mdp una sorta di occhio meccanico direttamente collegato all’attore, capace non solo di coglierne il punto di vista concreto, ma anche di oggettivare attraverso la visione lo stato d’animo, l’interiorità, le emozioni del personaggio»[2]. Se ne vede un esempio anche nel carrello in soggettiva che riprende il braccio di Freder proteso in avanti mentre si avvicina per afferrare un pezzo del vestito di Maria nella casa di Rotwang.
Il robot di Rotwang fu costruito dallo scultore Walter Schultze-Mittendorf ed è divenuto, a ragion veduta, l’icona più famosa non solo del cinema muto, ma anche del cinema di fantascienza, grazie anche all’omaggio resogli da George Lucas, che vi si ispirò per il suo simpatico droide protocollare C-3PO della saga cominciata con Star Wars (Guerre stellari, 1977). Così come l’architettura della città e, in particolar modo, la raffigurazione della Torre di Babele in cui risiede Joh Fredersen, ha ispirato in modo lampante la scenografia di un altro capolavoro della fantascienza, Blade Runner (1982) di Ridley Scott.
E’ interessante notare come una buona parte delle sequenze ritrovate seguano una trama metropolitana e proto-noir molto cara a Fritz Lang che coinvolge in particolar modo il personaggio denominato Der Schmale (lo Smilzo), ma anche Josaphat, il segretario di Fredersen e l’operaio Georg (il cui numero sul berretto riporta un numero palindromo 11811). Interpretato da Fritz Rasp, Der Schmale è senz’altro il personaggio più penalizzato, nella versione tagliata, poiché compare solo in alcune brevi scene senza un ruolo specifico, che nella versione completa diviene invece molto chiaro: egli non è altro che il braccio destro di Joh Fredersen, quello a cui viene affidato il lavoro sporco. L’uomo viene dunque incaricato di seguire di nascosto Freder per scoprire le sue connessioni con gli operai seguaci di Maria. E dal momento che Freder a un certo punto scambia la sua identità con l’operaio Georg, assegnandogli i suoi vestiti e il suo autista, Der Schmale si ritrova a seguire Georg. Il quale però, anziché recarsi subito a casa di Josaphat, da poco licenziato, se ne va dritto in un nightclub, Yoshiwara.
Il nome del locale è ripreso dal celebre quartiere a luci rosse di Edo, l’antica Tokyo. Nella versione ricostruita possiamo finalmente ammirare l’ingresso del locale, finora visibile solo grazie ad alcune fotografie di scena dell’epoca: la porta d’ingresso appare incorniciata da una sorta di arco a sesto acuto (o, meglio ancora, inflesso) in uno stile a metà fra l’islamico e il tardo gotico rivisitato espressionisticamente, che sembra suggerire la forma di una vagina. Ai due lati dell’ingresso, in cima a una breve scalinata, si ergono due grandi lanterne a mo’ di pilastro, strette alla base, che si allargano via via verso la cima. Ed è sempre Der Schmale che compare ai piedi del letto del delirante Freder per recitargli quel brano dell’Apocalisse, citato poi in didascalia, dove viene descritta la Meretrice di Babilonia, che compare poi, nella visione di Freder, nei panni della stessa Maria-robot all’interno di Yoshiwara.
L’altra grande assente nella versione mutila del film è la scultura che ritrae il volto di Hel, la moglie defunta di Fredersen, grande amore dell’inventore Rotwang: costui che ne custodisce l’effigie in una sala della sua casa sotto forma di una gigantesca testa in pietra. Questa visione rende più chiara la rivalità e l’odio di Rotwang nei confronti del capo di Metropolis. Sulla base della scultura leggiamo infatti: «Hel, nata per portarmi felicità e una benedizione per tutta l’umanità. Persa da Joh Fredersen. Morta dando alla luce Freder, figlio di Joh Fredersen». Mancano invece del tutto alcune scene, sostituite da didascalie: quella in cui Rotwang finisce di spiegare i suoi piani a Maria, prigioniera nella sua casa, e di come intenda portare il piano di distruzione della città ben oltre le intenzioni di Fredersen. Subito dopo, Fredersen, che ha spiato nascosto quel colloquio, irrompe nella casa e mette fuori combattimento lo scienziato, mentre Maria fugge.
Molteplici i temi e le influenze presenti nel soggetto: i drammi d’ispirazione socialista di Georg Kaiser (la trilogia composta da Korolle, Gas I e Gas II), scritti fra il 1917 e il 1920 e successivamente banditi in epoca nazista; il racconto L’uomo della sabbia (Der Sandmann, 1815), di E.T.A. Hoffmann e soprattutto Eva futura (L’Ève future, 1886) di Villiers de l’Isle-Adam, per quanto riguarda la donna-robot. La figura di Freder sembra invece ricavata dalla parabola del principe indiano che divenne poi il Buddha, come narrato in Siddharta (1922) di Hermann Hesse: la scoperta di Freder del mondo reale – tramite la visione non solo amorosa ma estatica di Maria – un mondo di sofferenza e iniquità al di fuori della sua “gabbia dorata”, lo spinge ad aprire gli occhi e a compiere un cammino di consapevolezza. Così come nell’ossessione di Rotwang per Maria e nelle sue pose contorte sembra rivivere il gobbo di Notre-Dame de Paris (1831) di Victor Hugo.
Altre fonti di ispirazione provengono da film tedeschi precedenti, come Algol (1920), di Hans Werckmeister, per l’ambientazione fantascientifica, il lavoro sotterraneo nelle miniere e il nome del personaggio femminile, Maria, o, ancora prima, il serial in sei episodi Homunculus (1916), di Otto Rippert, che di nuovo trattava di esseri umani artificiali. Senza dimenticare la raffigurazione del tempio di Moloch in cui vengono compiuti i sacrifici di bambini in Cabiria (1919), di Pastrone, qui tradotta nella macchina-Moloch che, nella visione di Freder, ingoia gli operai che si muovono come automi verso le sue fauci.
Ma alcuni spunti provengono anche da lavori precedenti dello stesso Lang: il soggetto di Lilith und Ly (t.l.: Lilith e Li, 1919), diretto poi da Eric Kober, dove ritroviamo sia il tema della trasformazione e del Doppelgänger – ad essere trasformata in una donna in carne ed ossa (che poi si rivelerà essere un vampiro) qui è una statua – sia quello del tele-specchio, antesignano del teleschermo di Die Spinnen (I ragni, 1919), primo film di Lang come regista, e del videotelefono di Metropolis tramite il quale Joh Fredersen comunica con l’operaio Grot, addetto alla Macchina del Cuore (Herzmaschine). Per inciso, Brigitte Helm torna a interpretare una donna artificiale l’anno dopo in Alraune (La mandragora, 1928), di Henrik Galeen.
In un’intervista, Lang si attribuì il soggetto del film ricavato, a suo dire, da un viaggio a New York nel 1924. Tuttavia oggi sappiamo che all’epoca Thea Von Harbou aveva già iniziato a scrivere il romanzo omonimo, uscito nel 1926, cui seguirono la sceneggiatura del film e, successivamente, una seconda versione, molto rimaneggiata, pubblicata a puntate sulla rivista «Das Illustrierte Blatt». Nel susseguirsi di questi tre testi, diversi temi del primo romanzo concernenti la magia e l’occulto e i tratti più espressionisti furono dapprima attenuati e poi quasi interamente rimossi, nella sceneggiatura del film come nel romanzo a puntate, in favore dei mutamenti culturali e artistici avvenuti in Germania in quegli anni e confluiti nella Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività), che si traducono soprattutto in un maggiore sviluppo dei motivi legati al sociale e alla tecnologia.
Il contributo della Von Harbou alla realizzazione dei film non è semplice da circoscrivere, dato la sua sceneggiatura non si limita all’aspetto narrativo, ma è ricca di spunti riguardanti aspetti iconografici, stilistici e tecnici, dalla scenografia, alle inquadrature, al montaggio. Così come è problematica, in assenza di una relativa documentazione, l’attribuzione di quel finale così posticcio (per inciso, la riconciliazione degli operai col proprio padrone era presente anche in uno dei testi teatrali di Kaiser citati prima). Per lungo tempo ha pesato il pregiudizio, radicatosi in seguito alla sua adesione al nazionalsocialismo, secondo il quale gli elementi più kitsch e dozzinali delle sceneggiature fossero da attribuire alla Von Harbou. Lotte Eisner scrisse: «Il suo sentimentalismo e il suo deplorevole gusto per la falsa magnificenza l’avrebbero fatta scivolare rapidamente nelle tenebre dell’ideologia nazista»[3]. Tuttavia, considerando la qualità delle sceneggiature da lei scritte per Murnau o Dreyer[4], diviene problematico aderire a un giudizio così severo.
Viceversa, escludendo che la stesura della sceneggiatura possa essere attribuita alla sola Von Harbou e sia invece nata dalla collaborazione con Lang, è molto probabile che l’intrigo da feuilleton e l’impianto spettacolare e popolare – tanto aborriti da Kracauer, che non amava affatto il Lang dei kolossal[5] – sia dovuto in gran parte allo stesso Lang, il quale, lungi dal possedere una visione elitaria o intellettuale del cinema, ha sempre concepito i suoi film come opere per un vasto pubblico. E tuttavia le sue vere intenzioni non sembrano essere state interamente attuate nella versione originale del film, men che mai in quella tagliata. E dato il grande prestigio di cui Lang oramai godeva, dopo i trionfi dei suoi due kolossal precedenti, è da ritenere più che plausibile l’ipotesi che sia stato lui stesso ad auto-censurarsi, temendo che il pubblico non lo avrebbe compreso.
In effetti, il personaggio di Maria-robot avrebbe dovuto essere solo la punta dell’iceberg di quella grande rappresentazione del male e dell’ambiguità che Lang voleva mettere in campo attraverso una fitta rete di simboli, in modo ancora più pervasivo ed apocalittico che in Dr. Mabuse, der Spieler (Il dottor Mabuse, 1922). La stessa rivolta degli operai avrebbe avuto conseguenze ben più estese dell’allagamento della città sotterranea (la cui lunga sequenza costituisce in ogni caso un primo formidabile esempio di cinema catastrofico), che prevedevano la distruzione di strade e l’incendio di automobili: «I ghignanti gargoyle di pietra avrebbero dovuto prendere vita e volare giù dalla cattedrale, attratti dalle fiamme dei macchinari coi quali gli ingegneri stavano riparando le strade sopraelevate»[6].
In assenza di questo “grande male”, pesano dunque maggiormente, i risvolti semplicistici che fanno capo a quel leitmotiv del film (e del romanzo) che recita: «Il mediatore tra mente e braccia deve essere il cuore». Nel film abbondano i riferimenti iconografici al Cristianesimo, come nella scena in cui Freder sorregge, ormai esausto, le lancette del macchinario a orologio con le braccia a croce ed esclama: «Padre! Padre! Queste dieci ore avranno mai fine?»: una posizione e un’invocazione innegabilmente cristologiche.
L’orologio/macchina è il culmine visivo di una lunga serie di orologi che attraversano tutto il film. Dunque l’orologio è la nuova croce perché detta il tempo di un lavoro disumano, richiedendo come sacrificio le energie vitali degli uomini, la loro stessa identità, e l’orologio-macchina è una perfetta metafora della nuova schiavitù nell’era industriale. Ma anche questa celebre scena, seppure in modo più pregnante rispetto a quella che conclude il film, sembra dar luogo a una sorta di socialismo mistico, o semplicemente “emotivo” e fin troppo semplicistico e astratto, del quale è intrisa anche la figura del Mediatore.
A differenza dei film sovietici coevi, gli operai vengono rappresentati non come una collettività, ma come un mucchio di automi, una massa bruta, abbrutita e anonima (con le due uniche eccezioni dei già citati Georg e Grot), che non suscita alcuna empatia tanto è disumanizzata e che a un certo punto vuole solo distruggere, senza obiettivi e senza curarsi delle conseguenze (al punto che i loro figli vengono abbandonati a loro stessi e si salvano dall’inondazione solo grazie all’intervento di Freder e Maria). Alla fine essi sono capaci solo di accusare la “strega” Maria di tutti i loro guai e metterla al rogo. Non può dunque sorprendere che la circolazione di Metropolis fu vietata nell’Unione Sovietica. Un riferimento diretto al Cristianesimo primitivo e clandestino si trova poi nella prima sequenza delle catacombe in cui si riuniscono gli operai per ascoltare le parole di Maria. La ragazza narra loro la storia biblica della Torre di Babele, narrazione che prende poi vita a se stante, andando a costituire un breve film nel film, in un modo già sperimentato da Lang in Der müde Tod (Destino, 1921).
Quello che è certo è che se il fascino di Metropolis è giunto immutato fino a noi oggi il merito non è dell’impianto narrativo e/o discorsivo e delle sue lacune e debolezze, quanto della centralità della visione, dell’occhio, dello sguardo, a partire dal fatto che lo stesso eroe del film, Freder, è, prima ancora che un uomo d’azione, un visionario e che alcune delle sequenze principali del film sono filtrate dal suo punto di vista, di volta in volta estatico, delirante, trasfigurante. La lunga sequenza dell’allucinazione di Freder è girata con le tecniche del cinema sperimentale d’avanguardia, così come l’incubo di Krimhild in Die Nibelungen.
Ma, oltre a questo, ricorre lungo tutto il film il gioco di traiettorie degli sguardi che potremmo suddividere in almeno due importanti gruppi: quello della moltiplicazione e frammentazione degli sguardi (come nel caso estremo della sovrimpressione dei dettagli degli occhi che guardano/bramano Maria/Hel a Yoshiwara) e quello degli sguardi in macchina, che in numerose occasioni cercano e sollecitano lo sguardo dello spettatore in un confronto diretto, come avviene, contemporaneamente e in modo simile, in alcuni dei capolavori di Erich Von Stroheim.
E’ in particolar modo sulla doppia natura di Maria che si giocano gli sguardi in macchina: lo spettatore partecipa direttamente tanto della visione religiosa/mistica/amorosa di Freder (nella scena della prima apparizione di Maria nei Giardini Eterni, ma anche nel colloquio privato fra lei e Freder nelle catacombe), quanto di quella lasciva/sensuale/diabolica della falsa Maria che danza davanti agli spettatori bramosi di Yoshiwara e che costituisce, al tempo stesso, la visione-incubo di Freder.
In entrambi i casi, lo sguardo in macchina di Maria, seppure diegetico, è al tempo stesso extradiegetico e metafilmico: «uno sguardo che sottolinea la propria intensità ed esercita una funzione apertamente seduttiva» (che è poi lo sguardo del cinema stesso), «uno sguardo che si appropria dell’altro e lo pietrifica. Uno sguardo meduseo» o, ancora, «uno sguardo magico-ipnotico»[7], che emana una fascinazione perversa e demoniaca, come già avveniva con lo sguardo ipnotico di Mabuse. La perversità dello sguardo della falsa Maria è sottolineato inoltre dal fatto che il suo occhio sinistro è pesantemente truccato di nero, come sarà poi quello di Alex in A Clockwork Orange (Arancia Meccanica, 1971) di Kubrick.
E’ anche e sopratutto per questa centralità della visione che Metropolis è, tra il film muti di Lang, il più sperimentale, quello in cui il cineasta viennese esibisce la regia più movimentata, il montaggio più serrato (soprattutto nel terzo e ultimo atto, intitolato non a caso “Furioso”), le angolazioni di ripresa più creative e insolite, oltre a tutta una serie di sovrimpressioni e trucchi di ogni genere. Ma è anche il suo film più espressionista, in ritardo sui tempi, fra l’altro, dato che siamo già in piena Nuova Oggettività, il movimento artistico sorto in Germania sul finire della Prima Guerra Mondiale. Il cinema è oramai rivolto verso il realismo dei Kammerspiel di Pabst e altri autori. E’ un fatto curioso, che rivela come Lang si sia mosso sempre al riparo dal facile richiamo delle mode. Come sempre in Lang, tuttavia, l’influenza dell’espressionismo si avverte non tanto negli elementi scenografici (anche se qui ne troviamo un esempio perfetto nella casa/laboratorio di Rotwang, una stamberga che si erge solitaria in un punto imprecisato della città), quanto in quelli luministici, come ad esempio nella mirabile sequenza dell’inseguimento di Maria da parte di Rotwang nelle catacombe. Ma si avverte soprattutto nella direzione degli attori. Lang chiese loro una recitazione particolarmente tesa, sopra le righe, “demoniaca”, che infatti risente del teatro espressionista.
Spiccano in questo senso l’interpretazione di Rudolf Klein-Rogge, attore langhiano per eccellenza, che costruisce qui uno degli archetipi dello scienziato pazzo di cui tutto il cinema successivo terrà conto, di Gustav Fröhlich (che vestiva i panni di Siegfried nel film precedente) e dell’esordiente e non ancora diciottenne Brigitte Helm: il suo, in particolare, è un vero tour de force, anche per via del suo doppio ruolo nei panni delle due Marie. Nelle scene in cui impersona la falsa Maria, la Helm si lancia in una serie di esibizioni di carattere fortemente fisico, marionettistico. Dai primi piani sul suo volto, in entrambi i ruoli, Lang ricava la perfetta polarità fra angelico e demoniaco, calore umano e disumanità della macchina, bene e male, ma entrambe le polarità sono rese con la medesima potenza simbolica e antirealistica.
Significativamente, la recitazione di Alfred Abel nei panni di Joh Fredersen è invece piana, controllata. Eppure si tratta dell’ultimo dei tiranni nella già folta galleria langhiana. Se escludiamo per un attimo il finale conciliante, possiamo identificare in lui la figura moderna e definitiva del tiranno: quella del magnate, un uomo interessato solo al potere e al denaro, anaffettivo e privo di qualsiasi forma di empatia nei confronti dei suoi simili (e del suo stesso figlio), un uomo presso cui il male governa senza più maschere né artifici, senza più derive nel fantastico o nell’orrorifico, ma anzi nel più imperturbabile e disinvolto dei modi. In breve, la “banalità del male” di un capitalista, di uno sfruttatore senza scrupoli.
Vittorio Renzi (9 gennaio 2017)
Metropolis
Germania, 1927
regia e montaggio: Fritz Lang
sceneggiatura: Thea Von Harobu [e Fritz Lang]
fotografia: Karl Freund, Günther Rittau
musica: Gottfried Huppertz
scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Volbrecht
costumi: Anne Willkomm
sculture: Walter Schultze-Middendorf
effetti speciali: Ernst Kunstmann e Eugen Schüfftan
produzione: Erich Pommer, per UFA
cast: Brigitte Helm (Maria), Gustav Fröhlic (Freder Fredersen), Alfred Abel (Johann Fredersen), Rudolf Klein-Rugge (C.A. Rotwang), Heinrich George, Fritz Rasp (il “magro” [Der Schmale]), Theodor Loos (Josaphat), Erwin Biswanger (11811 – Georgy), Heinrich George (Grot), Olaf Storm (Jan)
lunghezza: 17 rulli, 4.189 metri (orig.)
durata: 153′ (2008)
première: Berlino, 10 gennaio 1927
[1] Paolo Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Torino, Lindau, 1990, p. 27
[2] Bertetto, op. cit., p. 35.
[3] Lotte H. Eisner, The Haunted Screen, University of California Press, 1952, pp. 232-233 (traduzione mia).
[4] Sono nell’ordine: Der brennende Acker (Il campo del diavolo, 1922), Phantom (1922) e Die Austreibung, (1923) per Murnau; Mikaël (Desiderio del cuore, 1924) per Dreyer.
[5] «Nei Nibelunghi il suo stile decorativo era ricco di significati; in Metropolis non soltanto sembra fine a se stesso ma smentisce perfino certi postulati del racconto». (Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001, p. 203.)
[6] Lotte H. Eisner, Fritz Lang, New York, Da Capo Paperback, 1976, p. 87.
[7] Bertetto, op. cit., p. 43, 44 e 45.