Vsevolod I. Pudovkin
SINOSSI: Impero russo, 1905. Michail e Pavel Vlasov, padre e figlio, hanno posizioni politiche opposte: Pavel è socialista ed è un membro attivo del movimento operaio rivoluzionario, mentre Michail, alcolizzato e violento, entra a far parte dei Centoneri (o Centurie Nere), nazionalisti e reazionari, e dunque fedeli allo zar, che il padrone di una fabbrica ha assoldato per sventare uno sciopero organizzato dal movimento operaio. Nei disordini che ne seguono, Michail resta ucciso, mentre, in seguito alla segnalazione di un confidente della polizia, la casa di Pavel viene perquisita senza successo. Ma la madre di Pavel, credendo di aiutare il figlio, consegna alla polizia le armi che Pavel nascondeva in casa. Il ragazzo viene arrestato, processato e condannato ai lavori forzati. Durante la sua detenzione, la donna, che abbiamo visto prima sottomessa al marito, poi spaventata e confusa dinnanzi alla polizia, ora inizia a maturare le stesse idee del figlio. Quando Pavel evade, i due si ritrovano a marciare fianco a fianco nella manifestazione per l’1 maggio, prima di finire falciati dalla violenza repressiva delle truppe zariste.
“Se Dreyer purificò il melodramma e lo rese spirituale, Pudovkin lo politicizzò e lo rese militante”.[1]
Mat (La madre, 1926), Konets Sankt-Peterburga (La fine di San Pietroburgo, 1927) e Potomok Chingis-Khana (Tempeste sull’Asia, 1928): in tutti e tre i componenti di questa ideale trilogia rivoluzionaria, il protagonista viene dalla campagna, è ignorante, e dunque facilmente impressionabile e manipolabile dal potere, ma poi la sua coscienza (di essere umano, oltre che di classe), a contatto diretto con le ingiustizie sociali, finisce per risvegliarsi, conducendolo alla lotta: perché è solo nella lotta per il bene collettivo che la dignità di un individuo può dirsi compiuta. Così sembra dire Pudovkin, più ancora degli altri maestri del cinema sovietico. Vediamo in che modo.
L’esordio alla regia di Vsevolod Pudovkin trae la propria ispirazione dal romanzo omonimo di Maksim Gor’kij (già trasposto al cinema nel 1919, ad opera di Aleksandr Razumnyi), contrariamente alle dichiarazioni di qualche anno prima dello suo stesso Pudovkin, e cioè che il cinema doveva fare a meno della letteratura. E in effetti il lavoro gli fu commissionato dagli studi Mezhrabpom-Rus, per i quali lavorava già da un anno, dopo diverse esperienze come attore, sceneggiatore e aiuto-regista e, soprattutto la sua formazione presso il Laboratorio di Lev Kulešov.
Nonostante questo, Mat, è cinema puro. Basti vedere come sono costruiti i primi minuti. Un cielo nuvoloso, crepuscolare. Una guardia. Un’osteria dalla quale un uomo viene buttato fuori. Un ubriacone lo scavalca. Questi è Vlasov, che, barcollando, se ne torna a casa. Di nuovo il cielo cupo serale. Una donna di mezza età, in casa, si occupa delle faccende domestiche in una casa piccola e spoglia. Suo figlio Pavel, un ragazzo, è nel letto che dorme. Vlasov torna a casa, visibilmente ubriaco. Fissa tutti con occhio torvo. Il montaggio fa susseguire i primi piani dei tre personaggi. Un orologio alla parete indica le 19:50 circa. L’uomo afferra un ferro da stiro e lo mette in tasca. Poi si dirige verso l’orologio, sale sulla sedia e sta per staccarne i pesi (vuole portare questi oggetti all’osteria per pagarsi da bere). La donna cerca di impedirglielo. Lui la colpisce. Il figlio interviene armato di martello, pronto a difenderla. L’uomo si volta ed esce dalla casa per tornare in osteria. Sul finire della sequenza, il montaggio si fa serratissimo, ricco di primissimi piani e di dettagli, come se il Tutto si decostruisse nelle sue singole parti: i pezzi rotti dell’orologio sul pavimento, il martello nella mano del figlio, il pugno stretto dell’uomo che piano piano si apre. E per finire, una magnifica ripresa dall’alto della madre che, accucciata in terra, raccoglie i pezzi dell’orologio.
Ed è soprattutto questo Mat, oggi: una sinfonia ritmata di volti, di sguardi, di traiettorie vitali lungo le quali si comprimono o esplodono stati d’animo, consapevolezze e passioni. Perché se ci sono la Storia e la Rivoluzione, nei propositi del cineasta sovietico, è però la componente umana quella che prevale nelle immagini di questo e di tutti i suoi film. Le raffinatissime capacità tecniche e l’elevata qualità estetica, sin da questo mirabile esordio, sono sempre al servizio del resoconto di una coscienza collettiva nella quale le individualità non scompaiono – seppur in senso dialettico – in nome dell’epica della collettività come in Ejzenštejn o, in modo quasi mistico, estatico in Dovženko, non si fanno materia pura, “molecolare” (per dirla con Deleuze) come in Dziga Vertov, ma al contrario si iscrivono in una sarabanda di volti, come se la Storia vi passasse attraverso, anzi, come se solo attraverso ogni singolo individuo la Storia potesse farsi narrazione.
Ma certo questo non significa che Pudovkin, nel guardare al modello del cinema americano, e in particolar modo a quello di Griffith (omaggiato esplicitamente nella corsa sul ghiaccio di Pavel, che rimanda alla scena analoga alla fine di Way Down East, Agonia sui ghiacci, 1920), non tenti poi di superarlo, per ricondurre il discorso ad una necessaria coralità epica coerente con gli ideali sovietici: ecco dunque che ricorre al montaggio non solo in funzione narrativa, ma per esprimere dei concetti, tramite l’accostamento analogico di due diverse immagini (il canto del gallo e il suono della sirena che sveglia gli operai, l’ufficiale incaricato della repressione e il cane a cuccia che guarda dal basso il suo padrone), o la valenza metaforica e simbolica di immagini-leitmotiv: i “battaglioni” di nuvole mossi dal vento, la corrente impetuosa del fiume e, infine, i blocchi di ghiaccio in fase di disgelo per l’arrivo della primavera, che hanno la valenza della rivoluzione popolare in atto. Per poi tornare alla sua geografia preferita: quella dei volti. Una tale attenzione al volto ha fatto sì che Pudovkin sia ricorso, per i ruoli principali, ad attori professionisti, attingendo al Teatro d’arte di Mosca di Stanislavkij, che vanno ad affiancare quelli presi dalla strada. Da Teatro di Stanislavkij provengono infatti sia Nikolai Batalov, sia Vera Fëdorovna Baranovskaja (1885 – 1935), magnifica incarnazione della Madre, il cui volto, in particolar modo nella scena finale del film, brucia di una tale intensità da renderla indimenticabile ed eterna, come un archetipo. Ritroveremo questa formidabile attrice anche nel film successivo, Konets Sankt-Peterburga. In una delle copie conservate, i due attori venivano “presentati” all’inizio del film, come si usava fare in ottemperanza con la stessa tradizione teatrale. Pudovkin si ritagliò invece lo sgradevole ruolo di un ufficiale di polizia.
Anche se Gor’kij non rimase soddisfatto di questa trasposizione, il film ebbe un grande successo e da subito se ne riconobbe l’importanza.
Vittorio Renzi (13 novembre 2015)
Mat |Мать (La madre)
[Mother]
URSS, 1926
regia e montaggio: Vsevolod Illarionovich Pudovkin
soggetto: romanzo omonimo di Maksim Gorky
sceneggiatura: Nathan Zarkhi
fotografia: Anatoli Golovnya
musica: S. Blok [1935], Tikhon Khrennikov [1970]
scenografia: Sergei Kozlovskij
produzione: Mezhrabpom-Rus
cast: Vera Baranovskaja (Niovna-Vlasova, la madre), Nikolai Batalov (Pavel Vlasov, il figlio), Aleksandr Čistjakov (Michail Vlasov, il padre), Anna Zemtsova (Anna, una rivoluzionaria), Ivan Koval-Samborskij (Vessovchtchnikov), N. Vidonov (Misha, un operaio), Aleksandr Savitskij (caposquadra Isaik Gorbov), Vsevolod I. Pudovkin (poliziotto)
lunghezza: 1.966 m
durata: 84’ / 101′ (a 17 fps)
data di uscita: 11 ottobre 1926
[1] Gilberto Perez, The Material Ghost: Films and Their Medium, The Johns Hopkins University Press, 1998.