Robert Wiene
SINOSSI: In un parco, di sera, Francis racconta la sua storia a un vecchio seduto di fianco a lui: a Holstenwall, il misterioso dottor Caligari giunge alla fiera del paese per presentare il suo sonnambulo, Cesare, che tiene sotto ipnosi in una cassa da morto. Caligari sostiene che il sonnambulo sia in grado di predire il futuro. Il primo a chiedere una predizione è un amico di Francis, Alan, come lui innamorato di Jane. Cesare gli predice che morirà prima dell’alba. E infatti è lo stesso Cesare a ucciderlo. Successivamente Caligari ordina a Cesare di uccidere Jane; Cesare è sul punto di farlo, ma rimane estasiato dalla bellezza eterea della giovane e così la rapisce, inseguito dalla folla. Sfinito, è costretto ad abbandonarla e successivamente cade a terra morto. Francis si reca presso l’abitazione di Caligari insieme alla polizia e li scoprono che il Cesare che giace nella bara è solo un manichino. Caligari allora fugge via e si rifugia presso un manicomio di cui è lui stesso il direttore. Tornati al presente, scopriamo che Francis, Jane e Cesare sono tutti pazienti di un manicomio, insieme allo stesso Francis, e che il suo racconto non è stato dunque altro che il parto della mente di un pazzo.
Il soggetto del film nasce dalla fantasia e dalle esperienze del cecoslovacco Hans Janowitz e dell’austriaco Carl Mayer. La loro idea originaria era di dare vita ad una potente allegoria contro il potere autoritario, ivi rappresentato dalla figura dello psichiatra ipnotizzatore, Caligari, che scuotesse dal torpore il popolo tedesco uscito smarrito e disorientato dalla Prima Guerra Mondiale. Erich Pommer, dirigente della Decla-Bioscop, si interessò al soggetto e pensò di affidare la regia a Fritz Lang (secondo altri il produttore del Caligari non sarebbe stato Pommer, ma Rudolf Meinert[1]). Lang però era occupato col suo film in due parti, Die Spinnen (The Spiders, 1919-20), perciò il compito passò a Robert Wiene. Ma sembra che fu proprio Lang a suggerire che la vicenda raccontata dal film, al fine di risultare meno spaventosa, fosse inserita all’interno di una cornice in cui, alla fine, si scopre che Francis è in realtà un malato di mente e che tutti gli accadimenti altro non sono che il frutto della sua follia[2]. Janowitz e Mayer però tentarono di opporsi, dal momento che questa cornice andava a disinnescare gran parte della forza rivoluzionaria del film da loro concepito, ma la produzione scelse la via più semplice.
Al di là dell’immediato successo che ebbe all’epoca, e della fama di cult movie di cui ancora gode, Das Cabinet des Dr. Caligari fece discutere a lungo critici e uomini di cinema in merito alle sue effettive qualità propriamente cinematografiche. Severissimo e lapidario fu, ad esempio, il giudizio di Jean Epstein, che scrisse:
Il gabinetto del dottor Caligari è il miglior esempio dell’abuso della scenografia al cinema. Caligari rappresenta una malattia grave del cinema: l’ipertrofia di un accessorio, l’eccessiva importanza accordata […] a ‘un accidente’ a scapito dell’essenziale. Non è in particolare dell’espressionismo da quattro soldi, ‘trenta franchi tutto inquadrato’, di Caligari che voglio parlare, ma dell’idea di un film che è quasi soltanto la fotografia di un insieme di scenografie.[…] Così, il film non è altro che una natura morta in cui tutti gli elementi vivi sono stati uccisi a colpi di pennello.[3]
Quando scrisse queste righe (si tratta in realtà del testo, poi pubblicato, di una conferenza da lui tenuta nel 1924), il cineasta francese era impegnato in prima persona nella liberazione del cinema dalla pesante eredità delle altre forme d’arte, e in particolare del teatro (per le scenografie bidimensionali, ma anche per il trucco marcato), e, sotto questo punto di vista, lui che era uno dei grandi innovatori, aveva pienamente ragione. D’altro canto, bisogna anche considerare che ci fu una precisa volontà, da parte degli autori di Caligari, nel concepire il film interamente su scenografie artificiali e stilizzate in base agli stilemi della pittura e del teatro espressionista: da qui i fondali dipinti (dalla mano di Walter Reimann e Walter Röhrig), gli effetti di distorsione, gli angoli acuti e le geometrie impazzite, luci e ombre disegnate, oggetti sproporzionati e surreali. Una scenografia concepita insomma come fulcro del film, creata appositamente per esprimere una visione psichica, un’immagine mentale, un mondo interiore esteriorizzato.
Come osserva Kracauer, «le facciate e gli interni architettonici non erano soltanto sfondi, ma anche geroglifici. Esprimevano la struttura dell’anima in termini di spazio»[4]. Per osare un parallelo azzardato, sarebbe come criticare certi film odierni che fanno largo abuso di computer grafica senza riuscire a distinguere quelli in cui ciò avviene per carenza di idee o razionalizzazione dei costi, da quelli – sicuramente in minor numero – in cui la CGI è adoperata come strumento artistico al fine di ricreare un mondo volutamente artificiale, appositamente ideato e immaginato. E a rivederlo oggi, infatti, il Caligari conserva una carica di inquietante mistero, emanata principalmente proprio da quel mondo “disegnato” e simbolico, la cui dirompente forza creativa non lascia indifferenti.
L’insipienza registica di Wiene, man mano che le immagini scorrono, passa in secondo piano al cospetto di questa forza visionaria, volta a rappresentare graficamente tutte le ombre e gli spigoli dell’inconscio collettivo di un’intera nazione nei primi anni del dopoguerra. Lotte Eisner, pur considerando Wiene un regista di second’ordine, afferma che nel Caligari
l’interpretazione espressionistica è riuscita con raro successo a evocare la “fisionomia latente” di una piccola città medievale dai vicoli tortuosi e oscuri, budelli stretti rinserrati tra case sgretolate le cui facciate sbilenche non lasciano mai entrare le luce del giorno. Porte cuneiformi dalle ombre pesanti e finestre oblique dai vani deformi sembrano rodere i muri[5].
Riuscendo con tutto ciò a evocare quella «agitazione spirituale» e quella «animazione dell’inorganico» che, secondo lo storico dell’arte Wilhelm Worringer, costituiscono due elementi basilari dello spirito e dell’arte nordica e nella fattispecie tedesca[6].
Dopotutto, forse lo stesso Epstein rimase colpito da almeno un’immagine del film: quella dell’apparizione di Jane Olsen vestita di bianco, stagliata contro l’oscurità di un giardino di notte, e del suo incedere come un fantasma. Immagine gotica che ritroviamo, molto simile, ne La Chute de la maison Usher (La caduta della casa Usher, 1928) quando Madeleine esce dalla tomba e fa ritorno nella sua casa.
Tuttavia parlare di “cinema espressionista”, con riferimento al Caligari o ad altri film di quel periodo, potrebbe essere improprio e per diverse ragioni. Il movimento culturale e artistico denominato espressionismo, che all’indomani della prima guerra mondiale era pressoché estinto, aveva ideali e valori ben precisi, fortemente radicati nella società tedesca della prima metà degli anni Dieci. Il cinema del decennio seguente si limitò a utilizzarne alcuni elementi in chiave puramente formale, quando non puramente decorativa, come argomenta Jacques Aumont in un suo brillante scritto[7].
Il ruolo di Cesare, interpretato in modo magnifico da Conrad Veidt, fece da trampolino di lancio per la sua carriera cinematografica a livello internazionale. L’attore di Potsdam, proveniente dal teatro e, nella fattispecie, dalla scuderia di Max Reinhardt, aveva interpretato già molti ruoli sotto la direzione di diversi registi tedeschi, fra cui Dupont, Oswald, Leni e, di lì a poco, Murnau. La sua carriera giunse al culmine nell’epoca del sonoro con il ruolo del Maggiore Strasser in Casablanca (1942), suo penultimo film.
Quanto al dottor Caligari del veterano Werner Krauss, col senno di poi, sembra di assistere alle prove generali del langhiano Mabuse nella saga omonima. In Dr. Mabuse, der Spieler (Il dottor Mabuse, 1922), ritroveremo anche Lil Dagover, che lavorò diverse volte non solo con Fritz Lang, ma con i maggiori registi del cinema tedesco, ed ebbe una lunghissima carriera senza quasi mai spostarsi dalla Germania.
Lo sceneggiatore Carl Mayer, una figura fondamentale per il cinema tedesco degli anni Venti, collaborò quello stesso anno con Wiene per la realizzazione di un altro film dall’impronta fortemente espressionista, Genuine, die Tragödie eines seltsamen Hauses (Genuine, 1920). Successivamente preferì accostarsi a un tipo di cinema meno simbolico e più realista e introspettivo, quello del Kammerspiel, e collaborò con registi del calibro di Lupu Pick, Paul Czinner e F.W. Murnau.
Das Cabinet des Dr. Caligari è stato restaurato nel 2014 dalla Friedrich-Wilhelm-Murnau Stiftung e dalla Cineteca di Bologna. Esistono ben due remake americani: il primo, nel 1962, firmato da Roger Kay, in realtà si limita a sfruttare la popolarità del titolo e a “rubarne” il personaggio principale, ma per il resto ha poco a che fare con l’originale; il secondo, nel 2005, firmato dal regista indipendente David Lee Fisher, è invece un tentativo di attualizzare, a colpi di postmodernità, proprio quegli elementi grafici e scenografici che resero celebre il film di Wiene.
Ma la profonda influenza di Caligari non si ferma certo ai remake: innumerevoli sono i film che ne ripresero motivi tematici o stilistici, non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti. Nel primo caso basti pensare a The Monster (Per amor suo, 1925), di Roland West, in cui Lon Chaney tiene sotto ipnosi un bruto pronto a compiere per lui i più efferati crimini, proprio come il dottor Caligari fa con Cesare. Riguardo allo stile visivo (quello che in seguito sarà chiamato caligarismo), se ne trovano numerosi esempi anche nel cinema sonoro (fra i primi: Svengali, 1931, Archie Mayo).
Vittorio Renzi (13 gennaio 2016)
Das Cabinet des Dr. Caligari
(Il gabinetto del dottor Caligari)
[The Cabinet of Dr. Caligari]
Germania,1920
regia: Robert Wiene
soggetto: Hans Janowitz
sceneggiatura: Hans Janowitz e Carl Mayer
fotografia: Willy Hameister
musica: Giuseppe Becce
scenografia: Walther Reimann, Walter Röhrig e Hermann Warm
costumi: Walther Reimann
produzione: Erich Pommer (o Rudolf Meinert), per Decla Film-Ges Holz & Company
cast: Werner Krauss (dott. Caligari), Conrad Veidt (Cesare), Friedrich Fehér (Franzis), Lil Dagover (Jane Olsen), Hans Heinrich von Twardowski (Alan), Rudolf Lettinger (dott. Olsen), Rudolf Klein-Rogge (criminale), Ludwig Rex (assassino)
lunghezza: 5 o 6 rulli, 1.703 metri (4682 piedi)
durata: 78′
première: Berlino, 20 gennaio 1920
distribuzione: 26 o 27 febbraio 1920
[1] Lotte H. Eisner, Lo schermo demoniaco, Roma, Editori Riuniti, 1991 [1952], p. 23-26.
[2] Ivi, p. 20.
[3] Jean Epstein, L’essenza del cinema, B&N, 2002, p. 59.
[4] Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001, p. 121.
[5] Eisner, op.cit., p. 21.
[6] Ivi, p. 23.
[7] Jacques Aumont, Où commence, où finit l’expressionnisme?, in Aumont e Benoliel (a cura di), Le Cinéma expressionniste. De Caligari à Tim Burton, Rennes, P.U.R. / La Cinémathèque Française, 2008, pp. 13-28.