Der Golem, wie er in die Welt kam (Il Golem – Come venne al mondo, 1920)

Paul Wegener, Carl Boese

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SINOSSI: Dopo aver letto nelle stelle l’avvicinarsi di una catastrofe per il suo popolo, il rabbino Löw, al fine di proteggerlo, decide di infondere la vita a una creatura di argilla, il Golem, invocando il demone Astaroth che gli rivela la parola magica che dona la vita. Löw la scrive su un amuleto che appone sul petto del Golem e il mostro antropomorfo prende vita, sottomesso agli ordini del suo creatore. L’assistente, Famulus, è innamorato di Miriam, la figlia del rabbino, ma la ragazza ama in segreto il giovane cavaliere tedesco Florian, che la corteggia. Cogliendo l’occasione della Festa della Rosa presso il Palazzo imperiale, il rabbino conduce con sé il Golem, come monito affinché venga revocato l’editto che intima al popolo ebraico di abbandonare il ghetto di Praga. Poi mostra alla corte le immagini degli antichi patriarchi, ma tutti scoppiano a ridere. Il palazzo inizia a crollare, come colto da subitanea maledizione, e il Golem impedisce alla gente di uscire, fino al momento in cui l’imperatore promette di lasciare in pace il popolo ebraico. Tornato al ghetto, il rabbino toglie l’amuleto al Golem neutralizzandolo. Ma Famulus, geloso dopo aver scoperto l’amore di Miriam per Florian, rimette l’amuleto al Golem e lo risveglia. Il Golem vede per la prima volta Miriam, se ne innamora e ciò lo porta fuori controllo. E la sua prima vittima è proprio Florian. Nel ghetto si scatena la caccia al mostro, che, dopo aver incendiato la torre, rapisce Miriam. La ragazza viene poi ritrovata incolume dal padre e da Famulus, che le chiede perdono. Nel suo girovagare senza meta, il mostro si imbatte in un gruppo di bambini ignari della sua pericolosità. Quando una bimba afferra per gioco il suo amuleto, il Golem si riduce nuovamente all’ammasso di argilla che era in origine.

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Il primo e originale Der Golem, realizzato da Wegener nel 1914 insieme a Henrik Galeen, è stato a lungo ritenuto perduto (come, purtroppo, quasi tutti i film di Wegener degli anni Dieci). A partire dal 2007 però ne sono stati ritrovati prima dei frammenti, poi ancora più di recente, è saltato fuori l’intero secondo rullo da quegli stessi archivi argentini in cui era conservato il metraggio ancora mancante di Metropolis (Fritz Lang, 1927). Il film, tratto da un romanzo di Gustav Meyrink, a sua volta ispirato a una leggenda del ghetto praghese, era ambientato in parte nella Praga nel 1580, in cui si raccontavano brevemente le origini del Golem, e per il resto in epoca contemporanea, quando il Golem veniva ritrovato e riportato in vita, dopo secoli, da un mercante d’arte per proteggere la propria figlia, ma il mostro invece si innamora di lei.

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Nel 1917 Wegener tornò sul personaggio facendone una sorta di commedia auto-parodistica: in Golem und die Tänzerin (t.l.: Il Golem e la ballerina) un uomo (lo stesso Wegener), dopo aver visto il film del 1914, si traveste da Golem per fare uno scherzo agli amici, ma la cosa gli si ritorce contro. Il film è considerato perduto, eccezion fatta, forse, per un frammento di otto minuti rinvenuto in una collezione privata, del quale però non è ancora stata attestata pienamente l’appartenenza al film in questione. Il terzo film, di cui qui ci occupiamo, fortunatamente si è preservato per intero e narra, in cinque capitoli, la creazione della creatura di argilla da parte del rabbino-mago e i terribili eventi che ne conseguono. Si tratta dunque di un vero e proprio prequel, scritto da Wegener insieme a Henrik Galeen, suo fido collaboratore, che in seguito scrisse anche per Murnau, Paul Leni e altri.

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Se i film precedenti di Wegener, come Der Student von Prag (Lo studente di Praga, 1913) e il primo Golem, erano stati girati per lo più in ambienti naturali, questo film fu realizzato interamente in studio, cosa che ai tempi garantiva un controllo maggiore sull’opera, non solo per quanto riguardava le scenografie, ma anche e soprattutto la resa fotografica delle immagini, il controllo sulla luce e le ombre che proprio in quegli anni stava diventando il tratto caratteristico del cinema espressionista. Ed è in questo modo che l’attore-regista si serve dei trucchi luministici appresi durante i suoi lavori teatrali con Max Reinhardt per adattarli, o per meglio dire tradurli, nel linguaggio proprio del cinema.

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Le architetture dalle forme contorte o deformate – le case e i tetti del villaggio, il ponte o l’interno della casa-laboratorio del rabbino, con quella scala a chiocciola vertiginosa che sembra proprio una conchiglia – sono opera di Hans Poelzig, che due anni prima aveva progettato il Großes Schauspielhaus, il teatro di Berlino, considerato fra i più importanti esempi di architettura espressionista, voluto dallo stesso Reinhardt e rimasto in piedi fino al 1988. Queste scenografie tridimensionali, che rileggono in maniera fantasiosa il ghetto medievale, si differenziano da quelle per lo più dipinte che costituiscono gli ambienti dei coevi Caligari (1920) o Genuine (1920), entrambi di Robert Wiene. Lotte Eisner racconta che Wegener non desiderava affatto realizzare un’opera espressionista, e il fatto che venne poi considerata come tale è dovuto proprio alle scenografie di Poelzig e Kurt Richter (e Edgar G. Ulmer, che però non compare nei credits).

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In termini di regia e montaggio, rispetto al Caligari, uscito all’inizio di quello stesso anno, Der Golem appare assai più dinamico, con ricorrenti cambi di piano, primi piani, ardite angolazioni di ripresa (addirittura un quasi plongée sulla folla festante del villaggio), e un montaggio ritmico nei momenti più concitati dell’azione, specie negli ultimi due atti. A differenza di Wiene che si affida quasi totalmente al potere suggestivo delle scenografie e a quello ipnotico dell’atmosfera ricreata, l’interesse dell’attore-regista polacco (originario di Arnoldsdorf, nella Prussia Occidentale) era tutto rivolto alla specificità del mezzo cinematografico, come ebbe a dire lui stesso:

E’ con questo film che mi sono spinto più profondamente nel dominio del cinema puro. Tutto dipende dall’immagine, da un certo “flou” nel quale il mondo fantastico del passato si unisce al mondo del presente. Avevo compreso che la tecnica fotografica avrebbe determinato il destino del cinema. Luce e ombra nel cinema giocano lo stesso ruolo del ritmo e della cadenza nella musica.[1]

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Eppure, nonostante la preziosa collaborazione di un operatore geniale come Karl Freund, non sono solo gli aspetti tecnici a interessarlo. Per Wegener, che, in pratica «fra il 1913 e il 1918 (…) crea il genere del film favolistico»[2] il cinema è la porta per entrare finalmente nel regno dell’immaginazione, del fantastico, e questo aspetto lo pone senz’altro più sotto il segno di Méliès, che dei fratelli Lumière, come la maggior parte dei più noti cineasti tedeschi dell’epoca. Ma i tempi sono cambiati, in due decenni si sono avuti progressi importantissimi e il cinema non è più un susseguirsi di trucchi e giochi di prestigio da baraccone. Non è più una semplice attrazione, è un linguaggio, un medium, e Wegener sa sfruttarlo per costruire un efficace connubio tra l’Autorenfilm (il film d’autore, generalmente ispirato a fonti letterarie della tradizione tedesca) e il cinema popolare.

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E così la magia cabalistica che pervade il film, pur essendo motivata dal soggetto, esprime anche, di per sé, un qualcosa di già metafilmico, di autocelebrativo del cinema stesso. E se la cerimonia della preghiera nella prima parte col rabbino che dà le spalle a una gigantesca menorah (il tipico candelabro ebraico a sette bracci), quasi unica fonte di luce di una scena avvolta nell’oscurità, funge, si potrebbe dire, da ingresso introduttivo nel buio della sala cinematografica, la seconda cerimonia, quella dell’evocazione di Astaroth, preceduta dall’apparizione del cerchio di fuoco, e poi la visione-proiezione della marcia dei patriarchi ebrei nel deserto, sono il culmine di un cinema che celebra il suo stesso potere occulto e le sue innumerevoli potenzialità immaginifiche. In quest’ultima scena, Wegener e Boese inquadrano dapprima gli astanti di spalle (il re e la sua corte), con lo “schermo” sullo sfondo (una sovrimpressione) su cui scorrono le immagini della marcia dei patriarchi, come fossero proiettate lì per lì. Poi l’inquadratura entra nella proiezione: è la narrazione fattasi immagine, incorniciata da un mascherino a forma di sole raggiante. Infine viene inquadrato solo il pubblico, frontalmente, che guarda incuriosito quelle immagini, ovvero una cosa che non aveva mai visto prima, come devono aver fatto i primi spettatori di una sala cinematografica.

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Una scena così efficace, sia a livello letterale che simbolico, non poteva sfuggire a Fritz Lang che la riutilizzò in modo simile per Dr. Mabuse, der Spieler (Il dottor Mabuse, 1922) due anni dopo. Così come quella del cerchio di fuoco fu riutilizzata da Murnau per il suo Faust (1926). Si tratta in questo caso di trucco puramente scenografico, realizzato tramite un sistema di impalcature e di fessure nel pavimento da cui provengono le fiamme, incrociato poi con la sovrimpressione dei piccoli demoni danzanti sotto forma di fiammelle e, successivamente, dei fulmini.

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Scena di “magia nera” che trova il suo apice grandioso con l’apparizione della gigantesca maschera di Astaroth dalla cui bocca escono volate di fumo che diventano poi la parola “aemaet”, con cui viene rianimato il Golem. Allo stesso modo, nella sequenza clou del risveglio del Golem, Wegener e Boese non si contentarono di uno stacco di montaggio per sostituire il manichino con l’attore, ma fecero in modo che la trasformazione avvenisse in campo, sia pure nascosta dall’avanzare del rabbino verso la mdp, fino a quando sono inquadrate solo le sue mani che ripongono la parola magica nell’amuleto. Fatto questo, il rabbino torna indietro presso la “statua”, che è oramai già l’attore Paul Wegener, pronto a risvegliarsi e a seminare il terrore.

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Non si può prescindere dall’efficace interpretazione di Paul Wegener nei panni del mostro d’argilla. Wegener era uno di quegli attori, come Jannings, la cui presenza scenica era già espressiva di per sé, nella sua fisicità. Ma, a differenza dell’incontenibile istrionismo di Jannings, così dinamico e camaleontico, il fascino di Wegener era lo stesso che hanno certe effigi: egli giocava con le diverse sfumature di inquietudine che emanavano dal suo volto dai tratti esotici e si ritrovò così spesso a interpretare mostri, maghi o scienziati pazzi. Quanto al dramma del personaggio del Golem, per certi versi altro non è che l’ennesima riproposizione del canovaccio della fiaba La bella e la bestia: il dramma di un essere spaventoso per gli altri e per se stesso che vorrebbe solo essere amato, come Homunculus (Otto Rippert, 1916), come il Cesare di Caligari, o come la creatura di Frankenstein (James Whale, 1931).

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La simpatia degli autori, comunque, sembra andare tutta agli ebrei del ghetto praghese (città in cui Wegener aveva ambientato anche Der Student von Prag e il primo Golem): la corte imperiale viene rappresentata come un luogo di decadenza e corruzione dei costumi, gremito di donne frivole e uomini effeminati, compreso l’imperatore. E lo stesso cavaliere Florian, che a un certo punto sembra imporsi come il vero eroe del racconto, finisce morto ammazzato dal Golem, senza che gli sia tributata nessuna gloria, subito rimpiazzato nel cuore dell’amata da Famulus, al quale è poi dovuta (almeno indirettamente) la morte di Florian. C’è da dire comunque che né Florian né Famulus brillano per virilità: forse Wegener voleva creare un netto contrasto fra gli uomini comuni (ebrei o “gentili” che fossero) e le brutali e rozze fattezze del Golem.

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Miriam, la figlia del rabbino, è interpretata dalla moglie dell’attore-regista, la praghese Lyda Salmonova, già presente in quasi tutti i film precedenti di Wegener. Lei abbandonò il cinema molto presto, già nel 1923, ma il loro matrimonio durò fino al 1948, anno della morte del marito. In un ruolo minore, compare anche una diciottenne Greta Schröder, che due anni dopo rivestirà i panni di Ellen in Nosferatu (1922): la si vede alla Festa delle Rose a corte, assieme ad altre ragazze, mentre sgrana gli occhi dalla paura nel veder apparire il Golem. Ed è sempre lei poco dopo a porgere gentilmente una rosa al mostro.

Il film uscì inizialmente nelle sale italiane con il titolo Bug, l’uomo di argilla.

Vittorio Renzi  (2 dicembre 2017)

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Der Golem, wie er in die Welt kam

(Il Golem – Come venne al mondo)

[Bug, l’uomo di argilla]

Germania, 1920

regia: Paul Wegener, Carl Boese

soggetto: romanzo Der Golem di Gustav Meyrink

sceneggiatura: Paul Wegener, Henrik Galeen

fotografia: Karl Freund

musica: Hans Landsberger

scenografia: Kurt Richter, Hans Poelzig, [e Edgar G. Ulmer]

costumi:  Rochus Gliese

produzione: Paul Davidson, per PAGU [Projektions Aktiengesellschaft Union-Film]

cast: Paul Wegener (il Golem), Albert Steinrück (rabbino Löw), Lyda Salmonova (Miriam), Ernst Deutsch (Famulus), Lothar Müthel (Florian),
Hans Stürm (rabbino Jehuda), Max Kronert (servo del tempio),
Otto Gebühr (kaiser Rodolfo II), Greta Schröder (la ragazza con la rosa),
Loni Nest (la bambina)

lunghezza: 1.922 metri

durata:  85’

première: Berlino, 29 ottobre 1920

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[1] Lotte H. Eisner, L’écran démoniaque, Paris, Le Terrain vague, 1965 [precedentemente: André Bonne, 1952], p. 39 (traduzione mia).
[2] Thomas Elsaesser, Cinema muto tedesco, 1895-1919, in G.P. Brunetta, Storia del cinema mondiale III. L’Europa. Le cinematografie nazionali, Torino, Einaudi, 2000, vol. 1, p. 79.

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