Germaine Dulac
SINOSSI: La signora Beudet è una casalinga imprigionata in un soffocante matrimonio borghese con suo marito, un noioso commerciante di stoffe, e passa il suo tempo sfogliando riviste e fantasticando su una vita appagante e gioiosa anziché quella monotona esistenza coniugale. Spesso il marito, per scherzare, estrae dalla scrivania una pistola, che tiene scarica, e finge di spararsi alla tempia. Memore di ciò, la donna, stufa marcia del suo comportamento superficiale, aspetta che lui esca di casa per andare a teatro, prende la pistola, la carica con dei proiettili e la ripone nel cassetto della scrivania. Ma quando il marito, sempre per scherzare, prende in mano la pistola, anziché puntarla su di sé la punta verso la donna e spara. Il proiettile colpisce un vaso da fiori e il marito, contrito, corre da lei e la abbraccia. Subito dopo sembra capire, ma invece fraintende completamente: “Dunque volevi ucciderti?”, le chiede. La signora Beudet non dice niente e lascia il marito alle proprie errate conclusioni.
La Souriante Madame Beudet è considerato a buon diritto il primo esempio di film femminista della storia. Germaine Dulac (pseudonimo di Charlotte Elisabeth Germaine Saisset-Schneider) aveva studiato musica, pittura e teatro, era critico teatrale e scriveva in giornali e riviste femministe, come “La Fronde” e “La Française” (di quest’ultima divenne poi direttrice). Al momento di girare il suo primo film, Les sœurs ennemies (t.l.: Le sorelle nemiche), nel 1915, Germaine Dulac divenne così la prima regista donna del cinema francese. Successivamente il suo interesse teorico e pratico verso il cinema s’intensificò e, con l’aiuto del marito e di alcuni amici, fondò una casa di produzione cinematografica, la Delia-Film. Con le sue opere s’inserì in quella feconda stagione del cinema francese di cui facevano parte Abel Gance, Louis Delluc, Jean Epstein, Marcel L’Herbier e personaggi provenienti da altri campi artistici che avevano deciso di sperimentare la settima arte: Marcel Duchamp, Man-Ray, Fernand Léger e Antonin Artaud. Si trattava del cosiddetto cinema impressionista, che discendeva in gran parte dagli scritti e dalle teorie (in particolare quella della fotogenia) di Delluc, Epstein e Canudo, e che verso la metà degli anni Venti fu fortemente influenzato dal Surrealismo.
Se per molti di quei cineasti, tuttavia, il cinema narrativo era ancora la strada da percorrere, per la Dulac un film era e doveva essere principalmente rappresentazione, doveva cioè mettere in evidenza le immagini, nel pieno rifiuto di una trama che non fosse un semplice pretesto. Ebbe infatti a scrivere la Dulac: «L’avvenire è del film che non potrà essere raccontato»[1]. Ma forse il suo era più un augurio, dal momento che, naturalmente, gli sviluppi successivi la smentirono e, in particolare, l’avvento del sonoro mise in crisi tutto quel fermento di ricerca e innovazione formale.
Il film in questione, pur essendo tratto da un testo teatrale (la commedia di Denys Amiel e André Obey, a sua volta ispirata a una novella di Maupassant), si pone, nelle intenzioni della sua artefice, come superamento del film narrativo e in funzione di «un cinema di sensazioni»[2], pensato e scritto per le immagini in un andamento lirico e ritmico, seguendo cioè un’ispirazione affine alla composizione musicale, come una sinfonia visiva. L’interesse della cineasta, qui, è principalmente quello di rappresentare l’interiorità e le fantasie della protagonista, la signora Beudet. Per far questo,
la Dulac intercala alle immagini del ricordo quelle immaginare coordinandole e raccordandole per mezzo di alcuni specifici tecnici che proprio in quegli anni ebbero una loro prima teorizzazione ad opera dell’avanguardia francese: il rallentato, il flou, la deformazione, la soggettiva, ecc.[3]
All’inizio del film, la donna suona al piano uno spartito di Debussy e subito la sua mente evade nella fantasticheria: quelle liquide note la portano con la mente a uno stagno nelle cui acque placide, fra le canne, scintilla la luce del sole. Un’immagine che sembra richiamare esplicitamente la pittura impressionista.
A volte la Dulac utilizza il primissimo piano della donna, o meglio, il dettaglio della parte superiore del suo viso, cui segue un’immagine che è in tal modo esplicitamente indicata come un parto della sua mente: un’automobile che solca un cielo di nuvole. Fantasia che prende vita dalla rivista che sta sfogliando e tramite la quale ella sogna una vita avventurosa, in movimento. Altre volte l’uso del primissimo piano serve invece a sottolineare la sua insofferenza crescente, come nel caso del primissimo piano del marito che ride sguaiatamente dopo il suo scherzo della pistola.
L’ottusità dell’uomo, un personaggio superficiale in senso letterale, in quanto sembra esistere solo come superficie, come maschera odiosa di volgarità, si situano al polo diametralmente opposto alle dinamiche interiori e alla sensibilità accesa della donna. Nel momento in cui non riesce a imporre la sua volontà sulla moglie, l’uomo si arrabbia. Nella seconda parte giunge a rompere una bambola, gesto evidentemente simbolico e sostitutivo di un atto di violenza domestica. Dice infatti l’uomo a un amico: «Le donne bisognerebbe picchiarle» (e questi gli risponde: «Le bambole sono fragili come le donne», un paragone a termini invertiti che suona quasi come un lapsus).
La seconda parte del film si fa ancora più mentale, quasi delirante. La donna è inquadrata spesso in primo piano, su sfondo nero, il volto è turbato, depresso. La fede al dito scompare e ricompare sotto i suoi occhi. Il marito entra ghignante dalla finestra come un vampiro, le compare alle spalle ridendo odiosamente. La donna si sente impazzire.
Anche le doppie esposizioni servono allo scopo di far entrare in conflitto le immagini reali con quelle prodotte dall’immaginario della donna: quando il marito le propone di andare a teatro a vedere il Faust, la donna immagina già lo spettacolo scadente cui andrebbe incontro: un coro di attori buffamente agghindati; subito dopo, su sfondo nero, sulla sinistra dello schermo, compare il faccione dell’attore che interpreta Mefistofele mentre a destra si agita a mezza figura l’attrice che veste i panni di Margherita. Più avanti, mentre il marito, seduto alla sua scrivania, parla e parla, annoiandola a morte per l’ennesima volta, la signora Beudet immagina un avvenente campione di tennis uscire da una delle sue riviste e comparire d’improvviso nel salotto, con la racchetta sollevata e portarsi via il petulante marito una volta per tutte.
L’illuminazione non è mai uniforme, luci e ombre si alternano sui volti e negli ambienti. Soprattutto, la luce non proviene mai da fonti diegetiche, seppur presenti, e dunque non è adoperata in funzione realistica bensì emotiva. Il marito, essendo una creatura poco più che bidimensionale, è sempre in piena luce, quasi appiattito dalla luce; la donna, viceversa, vive di sfumature e di contrasti e ha bisogno dell’ombra per celare i suoi segreti pensieri. Quando il marito impreca contro la donna che non vuole andare a teatro, lei è ripresa di spalle, stagliata contro uno sfondo nero, e questo nonostante ci sia un lume acceso su un tavolino davanti a lei. Ma la luce, anziché illuminare l’intero ambiente, illumina solo il suo contorno, sottolineando il sentimento di oppressione e di solitudine della donna, china sulla sua rivista.
Sempre nell’intenzione di sabotare la narrazione (e l’oggettività della narrazione), la Dulac ricorre spesso ai dettagli, senza raccordarli ai piani d’insieme, frammentando così il flusso delle immagini. Un esempio di dettaglio è l’inquadratura delle mani della Beudet che sfogliano un libro. Altre volte utilizza invece dei mascherini per “stringere” su alcuni oggetti. Oggetti che costituiscono un punto centrale in questo gioco di frammentazione: dai numerosi orologi dell’appartamento che segnano ognuno un orario diverso, al vaso di fiori che i due a turno spostano dal centro al bordo del tavolino, una scena ricorrente che funge da leitmotiv della diversa visione della vita e dell’incompatibilità che regna fra i due coniugi. E poi ovviamente gli specchi, che triplicano l’immagine della donna che vi si riflette con aria interrogativa, quasi non fosse più capace riconoscersi o di ritrovarsi, perduta com’è in quel limbo di sopportazione («E ogni giorno sempre gli stessi orizzonti», recita subito dopo una didascalia). Per l’immagine della donna che si spazzola i capelli davanti allo specchio, la Dulac sembra aver tratto ispirazione da un dipinto di Manet, Jeune femme se poudrant (1877): anche la forma dello specchio è simile, sebbene nel film gli specchi siano tre.
Al momento di girare questo film, Germaine Dermoz, l’attrice protagonista, aveva alle spalle una carriera piuttosto folta, iniziata nel 1908. Carriera che proseguirà, sebbene in maniera più sporadica, anche nel periodo del sonoro, fino agli inizi degli anni Sessanta.
Vittorio Renzi (28 marzo 2016)
[1] Germaine Dulac, in «Le Rouge et le Noir», luglio 1928, citato in A. Canziani, Il cinema francese negli anni difficili, Milano, Mursia, 1976, p. 20.
[2] E’ il titolo di una monografia: Germaine Dulac: A Cinema of Sensations, di Tami Williams, University of Illinois Press, 2013.
[3] Canziani, op. cit., p. 22.
La Souriante Madame Beudet
(La sorridente signora Beudet)
Francia, 1923
regia: Germaine Dulac
soggetto: testo teatrale di Denys Amiel e André Obey,
ispirato a una novella di Guy de Maupassant
sceneggiatura: André Obey e Germaine Dulac
fotografia: A. Morrin
musica: Manfred Knaak [2005]
produzione: Charles Delac, Marcel Vandal, per Colisée Films
cast: Germaine Dermoz (Mme Beudet), Alexandre Arquillière (M. Beudet), Jean D’Yd (M. Labas), Madeleine Guitty (Mme Labas), Yvette Grisier (la domestica), Raoul Paoli (il campione di tennis), Armand Thirard (l’impiegato)
lunghezza: 4 rulli
durata: 38′
première: 9 novembre 1923