The Avenging Conscience (La coscienza vendicatrice, 1914)

D.W. Griffith

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Fra le fonti letterarie che hanno sostanziato alcuni fra gli innumerevoli cortometraggi di Griffith (i vari Tennyson, Dickens, Browning, Tolstoj, Twain, London, Cooper, Norris, Shakespeare, Balzac, Maupassant, Rostand e via dicendo) c’era stato anche Poe, al quale Griffith, agli inizi della sua carriera alla Biograph, nel gennaio del 1909, aveva dedicato un cortometraggio di non molto interesse, basato sulla celebre poesia Il corvo e dal titolo Edgar Allen Poe (anziché “Allan”: una svista dettata dalla fretta da parte della produzione, sicuramente). Cinque anni dopo, Griffith torna a Poe, ispirandosi questa volta a uno dei suoi migliori racconti, Il cuore rivelatore (The Tale-tell Heart), pubblicato nel 1843, ma anche alla poesia Annabel Lee, riportata integralmente in una serie di didascalie, sulla quale si basa il personaggio omonimo interpretato da Blanche Sweet.

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Una scena da “Edgar Allen Poe” (1909)

Il tema di fondo, come nel film del 1909, è ancora quello della colpa. Tuttavia è da notare che la differenza del titolo del film rispetto a quello del racconto allarga significativamente il discorso dal piano puramente mentale e psicologico dell’ossessione e del senso di colpa di un omicida (che, credendo di udire ancora il battito del cuore del cadavere che ha occultato in casa, finisce con l’autodenunciarsi), a quello morale e religioso della coscienza: verso la fine del film, infatti, il protagonista viene visitato da visioni mistiche in cui compaiono, fra l’altro, Cristo e Mosè. Rispetto alla coesione stringente dello splendido racconto di Poe, tutto narrato in prima persona con quel linguaggio ossimorico di lucida follia che qui raggiunge le sue vette più alte, il film di Griffith denuncia invece molta dispersione nelle sue parti, sul piano della narrazione e nel tono generale. Ciò non toglie che alcuni momenti siano estremamente interessanti, soprattutto quelli che anticipano molto di quel cinema del “fantastico” di cui si faranno alfieri di lì a poco in primo luogo i cineasti della Germania di Weimar e poi molti dei loro coevi francesi.

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Un breve prologo ci mostra una situazione in medias res, dalla composizione molto interessante: in primo piano, di spalle, c’è una donna seduta di cui si vede solo la nuca. In secondo piano, in piedi, ci sono tre uomini: il più giovane sta da una parte, verso sinistra, e tiene il capo chino; gli altri due, più anziani, si trovano sulla destra, vicino a un letto dove una donna sta esalando i suoi ultimi respiri. Al margine opposto dell’inquadratura, a sinistra, c’è una culla con un neonato che sta dormendo. Il tutto avviene in una manciata di secondi: la donna muore, senza grandi effetti, al margine dell’inquadratura e il suo volto viene coperto. Uno dei due uomini maturi, alto e con una benda sull’occhio, si avvicina allora alla culla e il bimbo viene inquadrato in primo piano mentre apre gli occhi. Lo zio si china su di lui e poi, con uno stacco, vediamo la sua mano poggiarsi delicatamente sul corpicino avvolto in un lenzuolo. Il giovane vedovo rimane sempre più sullo sfondo e intuiamo così, prima ancora di esserne informati dall’intertitolo che segue la dissolvenza, che ad occuparsi del bimbo sarà l’uomo con la benda: ovvero lo zio.

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Un prologo curioso perché, mentre narra il passato del protagonista, suona allo stesso tempo come un congedo definitivo dai film a una-due bobine, quelli in cui in poche scene più o meno statiche bisognava dire e far capire tutto. Anni dopo, il bimbo è oramai un giovanotto (interpretato da Henry B. Walthall, attore di punta della scuderia griffithiana, prima d’essere soppiantato da Richard Barthemless) alle prese con gli studi letterari, sorvegliato amorevolmente dallo zio nella sua villa. Dopo questo prologo, viene in primo piano la storia d’amore fra il giovane e una ragazza dall’aspetto comune, Annabel (Blanche Sweet, alla sua ultima collaborazione con Griffith, che sempre più le andava preferendo Lillian Gish).

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Questa relazione viene però contrastata con decisione dallo zio di lui, che vorrebbe vedere il nipote impegnarsi nel lavoro tutto il giorno per costruirsi una solida carriera letteraria. Parallelamente, Griffith decide di mostrarci l’idillio allegro e spensierato di due giovani del popolino, una cameriera (una briosa e civettuola Mae Marsch) e un garzone (Robert Harron). Una storiella alquanto anodina il cui unico scopo è quello, esplicitamente dichiarato (ma nondimeno inconcludente) di far risaltare, per contrasto, l’amore impedito, e quindi sempre più amaro e drammatico fra i due personaggi principali. Un’altra apparente deviazione dalla trama principale è costituita dal numero di danza in costumi romani nel parco cui assistono gli ospiti di una festa, ma questa in effetti funziona nel creare un contrasto con l’addio di Annabel e del giovane che, in un primo momento, si arrende alla volontà dello zio. Griffith dedica delle bellissime inquadrature a Blanche Sweet: nella sua casa, accovacciata contro un mobile, prima prega e poi piange per quella triste separazione; più tardi nel parco, è sola, in mezzo alla natura e avvolta dal sole, ma triste come non mai.

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La prima mezzora scorre così fra idilli e angosce degli innamorati, condotta con un registro naturalistico (anche nella recitazione) e un montaggio che, seppur molto articolato, conduce la narrazione in modo piuttosto lento e piano. Nel frattempo però ci era stato mostrato il giovane mentre leggeva Il cuore rivelatore di Poe, quando, stanco, si era addormentato sulla poltrona. Ed è a partire da quel momento che, per gradi e molto lentamente, il film va assumendo sempre più le caratteristiche cupe e fosche e infine folli e deliranti del racconto cui s’ispira. Lo fa ricorrendo a una serie di immagini dalla doppia valenza che, per accumulo e in un modo quasi impercettibile, conducono pian piano quella che era cominciata come una commedia o un dramma naturalista sul sentiero del cinema fantastico e persino horror. Queste immagini sono riconducibili tutte a degli animali. La pellicola ne è piena e, giunta agli ultimi metri, viene a costituire un autentico bestiarium.

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L’ispirazione è ancora Poe, con i suoi animali simbolici e carichi di cattivi presagi (il gatto nero, il corvo), ma Griffith ne sfrutta la naturale fotogenia per proporli dapprima nella loro evidenza “documentaria”. Un cane, un gatto, un uccellino in gabbia, un cagnolino incastrato in una siepe che Annabel libera: tutti animali domestici, utilizzati apparentemente come elementi decorativi. Ma fanno numero, si accumulano nelle pieghe del racconto e sempre di più vengono caricati di valenze simboliche e di rimandi psicologici ai personaggi. Come il ragno che percorre rapidamente la sua tela per andare a cibarsi della sua preda incagliata, sotto lo sguardo incuriosito del protagonista. Subito dopo, un grande numero di formiche circondano un insetto più grande fino a sopraffarlo. Più tardi, nel pieno dell’incubo, ne arriveranno anche altri, ma ne parleremo più avanti. Accanto alla fauna, anche la flora viene utilizzata in funzione descrittiva dei caratteri dei personaggi e come eco delle loro azioni: il fiore appassito nello studio dello zio ci parla della sua incapacità di empatia nei confronti dei due giovani e del loro amore; mentre le rose rigogliose in camera di Annabel, testimoniano di lei che è una creatura rappresentata unicamente nell’atto di amare (di lei non sappiamo e non sapremo in effetti altro). Ma dopo la separazione, anche le rose di Annabel appassiscono.

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C’è poi una scena in cui Annabel, nella sua stanza, si avvicina alla finestra e tira su la tapparella, rivelando un cielo scuro, denso di nuvole minacciose fra le quali si aprono piccoli squarci di luce. Griffith ricava questa suggestiva immagine attraverso una doppia esposizione (ci si fa caso perché le nuvole compaiono anche sulla porzione di parete a destra della finestra, quasi fosse trasparente), ottenendo un’immagine che può controllare artisticamente, ricreata ex novo, evitando così l’uso di un fondale dipinto, sicuramente meno incisivo. Dal naturalismo si passa in un colpo solo alla dimensione del fantastico e del dark attraverso questa immagine liminare. Che per Griffith si tratti di un’immagine fondamentale e di cesura lo dimostra il fatto che ci torna su più volte, nel corso dei minuti successivi, un po’ come farà, per motivi diversi, con quella composita del monaco buddista che suona la campana e della torre cinese in lontananza in Broken Blossoms (Giglio infranto, 1919). Griffith annuncia in tal modo una seconda parte che si presenta sorprendente e inattesa e che fa di The Avenging Conscience «il primo e l’ultimo film davvero sperimentale di Griffith»[1].

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Il giovane inizia a coltivare pensieri omicidi: prende in mano una pistola e fissa ghignando lo zio addormentato su una sedia, ma qualcosa lo frena. La sua mente si riempie di dubbi e paure, gli occhi si velano di lacrime, tutto in primo piano (questi pochi, eccelsi minuti credo costituiscano l’apice interpretativo della carriera di Walthall). Alla fine, sentendo delle voci fuori dalla casa decide, per evitare il rumore dello sparo, di strangolare lo zio e di murarlo poi nel camino (al vecchio del racconto di Poe andava anche peggio: fatto a pezzi e sepolto sotto le assi del pavimento, ma in almeno altri due celebri racconti le vittime vengono murate, perdipiù vive). Subentra poi il personaggio dell’italiano, che dalla finestra assiste di nascosto al delitto e decide di trarne vantaggio mediante il ricatto. L’italiano è interpretato dal corpulento George Siegmann, che l’anno dopo sarà il villain mulatto Silas Lynch in The Birth of a Nation (La nascita di una nazione, 1915). Proprio quando tutto sembra sistemato e il giovane può finalmente vivere la sua vita con Annabel nella ricca dimora ormai sua, ecco apparire il fantasma dello zio, per mezzo di una serie di sovrimpressioni. Apparizioni che culminano poi con quelle, un tantino fuori climax (ma molto care a Griffith) del Cristo e poi di Mosè con le tavole della Legge e il quinto comandamento bene in vista («Thou shalt not kill», “non uccidere”, che è poi il secondo titolo con cui è stato distribuito il film in alcuni paesi). Infine, uno scheletro semovente: la Morte stessa che tenta di ghermirlo.

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Un’estrema suspense e stilemi proto-hitchcockiani si trovano poi in una delle scene più riuscite del film, che è poi anche quella più fedele e inerente al testo di Poe: l’interrogatorio del giovane da parte di un detective. Nel racconto è l’immaginario rumore del battito cardiaco a far saltare del tutto i nervi al protagonista. Come renderlo in un film muto? «Il film sostituisce alla tensione psicologica l’azione fisica»[2] e Griffith adotta diversi espedienti in modo che lo spettatore possa sentire, oltre che vedere, ciò che sente il protagonista: il primo dei quali è il dettaglio della mano del detective che batte ritmicamente sul tavolo una matita. Successivamente costui prende a battere anche il piede in terra, in un tripudio di campi, controcampi, mascherini a stringere sugli occhi e dettagli insistiti che riesce ad evocare in modo perfetto il rumore martellante che perseguita la mente del protagonista. Infine, un gufo – di nuovo il bestiario – appollaiato proprio fuori dalla finestra della villa, con il suo ritmico, lugubre richiamo è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso: il giovane inizia a delirare e ha una visione di alcuni esseri con la testa di animali, sorta di demoni che una didascalia definisce «ghoul». E dopo aver rivisto davanti ai suoi occhi la scena dell’assassinio (un’altra sovrimpressione), il giovane si tradisce davanti al detective.

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Ma mentre il racconto di Poe si chiudeva qui, il film prosegue ancora, prima con una sparatoria con cui il protagonista tenta di resistere alle forze dell’ordine, chiuso in una baita, una sequenza forse superflua, arrivati sin qui, ma comunque ben girata e che rimanda ai tanti gioiellini western realizzati da Griffith per la Biograph; e, per concludere, il doppio suicidio dei due amanti. Ma ecco il lieto fine: il giovane si sveglia di soprassalto sulla poltrona dove si era addormentato leggendo Il cuore rivelatore. Era solo un incubo: una trovata, questa, che nel 1914 non era ancora un logoro cliché. Dopo la riconciliazione con lo zio, che ora si mostra più che favorevole all’unione dei due giovani, segue una scena simile a quella sopra descritta di Annabel davanti alla finestra, ma di segno opposto: i due amanti, finalmente riuniti e felici, siedono su un prato lungo un fiume. Ma sul cielo sopra di loro scorrono ancora quelle nuvole nere (di nuovo ottenute con uno split screen). Si tratta di un’immagine strana e quasi irreale, che ci fa dubitare del fatto che siamo tornati davvero alla realtà: è forse allora questo il sogno? Il sogno di un pazzo che è stato arrestato? Infine, Griffith sceglie di chiudere il suo già alquanto eclettico film con una scena davvero sopra le righe: all’improvviso siamo in un bosco e, seduto mollemente sotto un albero, Pan suona il suo flauto, richiamando fuori dalle loro tane un puma, un leopardo, dei conigli e dei bambini travestiti da elfi o altri esseri fatati. Quasi per lenire il suo pubblico dal disagio delle precedenti immagini cupe e terrificanti, Griffith lo trasporta improvvisamente nell’Arcadia più serena e bucolica possibile. E’ un espediente che userà ancora, in più di un’occasione: una preoccupazione, questa, che non avrebbe mai sfiorato la mente di Poe!

In origine, il film fu distribuito da noi con il titolo Ragnatela.

Vittorio Renzi  (25 marzo 2017)

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The Avenging Conscience (or ‘Thou Shalt Not Kill’)

(La coscienza vendicatrice)

[Ragnatela]

Usa, 1914

regia: David Wark Griffith

soggetto: racconto Il cuore rivelatore
e poema Annabel Lee di E.A. Poe

sceneggiatura: Frank E. Woods e/o William E. Wing

fotografia: G.W. Bitzer

montaggio: James Smith, Rose Richtel

musica: S.L. Rothapfel

produzione: D.W. Griffith, per Reliance, Majestic Motion Picture

distribuzione: Mutual

lunghezza: 6 rulli

durata:  90′ (a 16 fps)

cast: Henry B. Walthall (il nipote), Blanche Sweet (Annabel),
Spottiswoode Aitken (lo zio), George Seigmann (l’italiano),
Ralph Lewis (il detective), Mae Marsh (la domestica),
Robert Harron (il garzone), George A. Beranger

première: New York 2 agosto 1914

data di uscita: 24 agosto 1914

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[1] Paolo Cherchi Usai, David Wark Griffith, Milano, Il Castoro, 2008, p. 240.
[2] William K. Everson, American Silent Film, New York, Da Capo Press, 1978, p. 77.

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