L’archivio di Jean Desmet incontra Peter Delpeut. Il found footage come archeologia poetica

Non possiamo quindi più parlare di immagini senza parlare di ceneri
(Georges Didi-Huberman)

Innanzitutto, cosa s’intende per found footage film? Found footage film significa letteralmente “metraggio ritrovato” ed assolve ad una duplice configurazione: da una parte, edizione critica del film con annessa interpretazione dei materiali; dall’altra, manipolazione volontaria delle immagini originali al fine di “fare arte”. François Niney ne Le documentaire et ses faux-semblants (2009) colloca il found footage nel crocevia di quattro paradigmi teorici: 1. la messa in questione del mito del “progresso storiografico”; 2. la riconsiderazione del cinema “primitivo”; 3. la consapevolezza, da parte di alcuni storici, di un valore non solo contenutistico, ideologico o stilistico delle immagini; 4. l’interesse di cineasti sperimentatori per le possibilità estetiche, antropologiche e politiche del riciclo d’archivio. Si tratta, dunque, di “immagini riciclate”, per prendere in prestito il titolo di un libro di William C. Wees, Recycled Images: the art and politics of found footage, dedicato al regista di A Movie (1958), Bruce Conner. Il recupero di queste immagini nasce dal desiderio di sganciarle «da un cinema fatto di sguardi controllati»[1], per citare Marco Bertozzi il quale, nella sua riflessione, prosegue citando Georges Didi-Huberman: «per aprire gli occhi bisogna saperli chiudere. L’occhio sempre aperto, sempre in stato di veglia – come quelli di Argo – diventa secco. Un occhio secco, in permanenza, forse vede tutto, ma guarda male. Paradossalmente, per guardare bene ci occorrono tutte le lacrime di cui disponiamo»[2]. E attraverso il found footage si attua proprio un lavoro di sperimentazione sull’immagine che sviscera le numerose possibilità d’espressione ch’essa contiene: un gioco di reinterpretazione che rifugge categorie universalmente imposte.

Lo studioso Andrè Habib si pone degli interrogativi a proposito del ruolo del found footage film, all’interno del cinema post post-moderno, generalmente considerato «as a way to discuss and better understand the history of film heritage and technology, inside and outside of archives proper. By asking simple questions like, “How is found footage actually found and appropriated?”, the idea is to convey what found footage films tell us about archival access, film technology and materiality. Can found footage films give us a sense of what was and is today considered worthy of preserving or, on the contrary, considered disposable at a given historical time? Can these filmmakers shed new light on the archive, simply by displacing or misplacing films that are often dismissed because they were useful (educational, industrial, training films, pornography, advertisements) and have become useless (that is, useless for some but insightful, beautiful, disturbingly poetic for others)?»[3].

Attraverso il found footage si crea una nuova poetica dell’immagine, sia nel senso della creazione – si consideri l’etimologia greca ποιέω che significa appunto “fare, produrre” – di una nuova immagine nata dalla combinazione di immagini altre, sia nel senso di una immagine che può essere considerata opera artistica. Esemplificativi di questa nuova poetica sono alcuni found footage films contemporanei meritevoli di grande interesse, come A Long Way from Home (2015) di Jay Rosenblatt: Rosenblatt invoca le ultime ore di Gesù attraverso il reengagement di film di finzione che vengono manualmente elaborati. Un altro caso peculiare è quello di Picture Again (2002) di Linda Christanell in cui vengono riciclati frames che vedono protagonisti Barbara Stanwyck e Fred MacMurray in Double Indemnity (1944) di Billy Wilder: l’intento è quello di (di)mostrare come il cinema sia capace di liberarsi da forme narrative ed estetiche predefinite. Inoltre, a questa decomposizione del cinema hollywoodiano si assiste anche in un’opera come Bond, Found Bond (2016) di Pedro Ferreira che rimaneggia, fino alla disintegrazione finale, fotogrammi dell’icona del cinema James Bond. Il polimorfismo artistico del found footage si evince anche da un lavoro come
Playtime (2009) di Steven Woloshen, in cui il cinema si combina alla pittura: i quadri astratti del pittore canadese Jock MacDonald si trasformano in immagini manipolate e animate. Infatti, Andrè Habib definisce questa operazione di found footage una «archéologie poétique», elemento distintivo di esperienze artistiche quali quelle di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian [Dal polo all’equatore, 1986], Gustav Deutsch [Film ist 1–6, 1998, Film ist 7–12, 2002], Bill Morrison [Decasia, 2001, Light is Calling, 2003], Peter Delpeut [Lyrisch nitraat (Lyrical Nitrate, 1991), Diva dolorosa, 1999] ed anche di lavori fotografici come quelli di Éric Rondepierre [Précis de décomposition, 1993–1995].

Scrive Habib che, per questi artisti, «a pellicule semble être un lieu, un site où se stocke de l’histoire et de la mémoire. Ces fragments des premiers temps sont devenus des traces, laissées par l’histoire, dont souvent plus personne ne se souvient: ils interpellent une mémoire impossible de la pellicule»[4]. La materia, allora, diventa memoria. Queste immagini recuperano il loro valore di immagine completo proprio quando, paradossalmente, appaiono come frammenti e rovine e quando sono espropriate della loro funzione iniziale, narrativa o spettacolare che sia o, addirittura, della loro
utilità ai fine della storia del cinema. Insomma, sono proprio i segni del tempo a produrre nella pellicola nuove figure, nuove forme, che vengono percepite come un surplus di significato – si pensi a quanto afferma Francesco Casetti, ovvero che ogni mediascape è anche e forse soprattutto un timescape – «La matière abîmée devient image»[5]. Viene a crearsi così un «immaginario della rovina» che entra a far parte della storia del cinema e dell’estetica di molto cinema contemporaneo e che, soprattutto, determina e regola il nostro rapporto con le immagini. Queste immagini in rovina sono «allégories de la nonlisibilité»: esse non riproducono un passato depurato dalle sue asperità, bensì lo rappresentano con tutte le sue opacità, «comme un site d’altérité qui ouvre le temps et l’image aux puissances signifiantes de sa dislocation, de sa décomposition»[6].

Antropologo di una cultura visuale ormai perduta, Peter Delpeut utilizza la pratica del found footage con lo scopo di documentare, narrativizzare, estetizzare e soprattutto esoticizzare il processo di decadimento della pellicola in nitrato. Delpeut è uno di quei registi sperimentali che come Ernie Gehr o Ken Jacobs volgono lo sguardo al passato, alle origini del medium cinematografico, non solo per recuperarne la memoria ma anche per criticare il presente. L’icona dell’arte avanguardista Hollis Frampton definirebbe Delpeut un meta-historian, un meta-storico, poiché utilizza la storia per criticare la storia stessa. Il lavoro artistico di Delpeut evoca nello spettatore la percezione del passato criticando contemporaneamente, in maniera implicita, le condizioni di visione del cinema contemporaneo, caratterizzate da frammentazioni e ripetizioni.

Delpeut afferma che il nostro patrimonio culturale  «disappearing before our very eyes», mettendo in luce l’analogia tra l’essere mortale dell’uomo e la precarietà della pellicola in nitrato, tra la realtà contemporanea e quel mondo originario da cui il cinema deriva. Ma, scrive Nadia Bozak, «the sense of loss for cinema’s inevitable decay […] does not simply fuse contemporary viewers to our cinematic point of origin; it also creates an important distance from that quintessentially modern invention. In other words, this rescued footage works according to an ethnographic logic, creating as it does an encounter between two distinct visual cultures – a contemporary “us” and a historical “them”»[7].

Esemplificativo è proprio Lyrisch Nitraat (1991) di Delpeut, pervaso da uno spirito paradossale che utilizza strumenti contemporanei per salvare il passato, o meglio l’Altro primitivo che caratterizza un cinema tipicamente etnografico, connotato da immagini esotiche, di diari di viaggio e documentaristiche. Le immagini esotiche – si parlava di “esoticizzazzione” all’inizio del paragrafo – che vanno a costituire questo straordinario lavoro di found footage, sono attraversate da un forte sentimento di perdita e di evanescenza: il nostro incontro con immagini evanescenti rispecchia il modo in cui lo spettatore contemporaneo guarda alle culture evanescenti che la macchina da presa sembra congelare nel tempo.

Come avverte Catherine Russell, in questo paradigma della salvezza che definisce il cinema etnografico convivono due tendenze contrastanti: da una parte, il regista crea una distanza rispetto all’“Altro esotico”; dall’altra, egli rende l’esotico come un’alternativa alla condizione industriale ed urbana contemporanea. Quindi, attraverso questo processo di esoticizzazione della decadenza le immagini recuperate affascinano lo spettatore, creando al contempo una sensazione di alienazione rispetto al mondo contemporaneo. Lo studioso di antropologia Hans Belting propone un’analisi molto interessante a proposito del fatto che immagini non occidentali abbiano influenzato massicciamente le teorie contemporanee dell’immagine. Belting si sofferma principalmente su due casi: il primitivismo e la colonizzazione delle immagini messicane. Nel caso del primo, gli artisti primitivisti si appropriavano di immagini che ricavavano da manufatti africani, ad esempio, senza tuttavia preoccuparsi del vero significato che quelle immagini rappresentavano per le popolazioni indigene: ciò porta a riflettere sul fatto che uno stesso medium può produrre immagini che cambiano di valore se calate nel contesto originario o se trapiantate in quello occidentale. Nel secondo caso, invece, gli spagnoli condannarono le immagini azteche, ritenute cerniés, ovvero semplici oggetti: il progetto dei conquistadores spagnoli consisteva in una vera e propria colonizzazione delle immagini e soprattutto delle menti. Per gli spagnoli in Messico dovevano esistere solo idoli e pseudo-immagini che sarebbero andate a costituire l’immaginario collettivo azteco: questo progetto trovò la piena realizzazione grazie soprattutto alla pervasività dei media.

Belting, i cui studi antropologici ci aiutano a comprendere meglio il pensiero artistico di Delpeut, parte dal presupposto che non sia possibile comprendere adeguatamente il concetto di immagine se non si tengono in considerazione anche i concetti di medium e corpo. Il medium rappresenta il canale comunicativo attraverso cui le immagini vengono trasmesse; il corpo è il destinatario delle immagini poiché attraverso di esso noi percepiamo, ricordiamo, immaginiamo e produciamo immagini di ogni sorta. Il corpo diviene il prototipo antropologico fondamentale che spiega il rapporto tra immagini e media: le immagini vivono nei loro media così come noi viviamo nel nostro corpo. Scrive Belting: «The use of a medium to experience an image is analogous to the way in which we experience our own bodies as media through which we both give birth to inner images and receive images from the outside world. These mental images happen within our bodies, like dreams, and in both cases – that is, in the case of dream and mental images – we perceive the image as if it were using our body merely as a host medium. […] we transfer the visibility that bodies possess to the visibility that images acquire through their media»[8]. Belting, inoltre, fa risalire l’esistenza della triade immagine-medium-corpo alle pratiche di culto dei morti in cui le immagini servivano a riempire l’assenza del corpo della persona cara. Come si può ben constatare, quello tra morte e immagine è un legame che dura da secoli: inoltre, già nel 7000 a.C. in Medio Oriente i teschi venivano rianimati attraverso l’inserimento di conchiglie al posto degli occhi e uno strato di argilla spalmata sulla faccia come fosse una pelle nuova. Uno “scambio simbolico”, per dirla con Baudrillard, tra un corpo morto e un’immagine viva.

Dalla creazione alla disintegrazione alla rinascita: è questo il processo che regola l’attività artistica di Peter Delpeut. Il passato viene innestato nel presente attraverso una «apocatastasi storica», per dirla con Benjamin: attraverso cioè un restauro, una riformazione e ripetizione di un mondo dopo la sua distruzione. Ciò è rintracciabile principalmente nel suo straordinario lavoro di found footage, già citato numerose volte, Lyrisch Nitraat. Gli spezzoni di Lyrisch Nitraat provengono tutti dall’archivio del distributore olandese Jean Desmet. Dopo la sua morte, oltre 900 film su supporto nitrato, perlopiù degli anni 1907-1916, arrivarono al Nederlands Filmmuseum (oggi EYE – Film Instituut Nederland). Quando nel 1988 Eric de Kuyper divenne direttore artistico del Filmmuseum, cominciò con il suo collaboratore Peter Delpeut a guardare le centinaia di nitrati sconosciuti e non restaurati. Per far conoscere al pubblico contemporaneo questi film, De Kuyper e Delpeut svilupparono numerosi progetti che oggi sono considerati pionieristici e che ci hanno consentito di apprezzare esteticamente il cinema dei primi due decenni del Novecento. Il loro intervento è consistito nel restauro del colore dei nitrati tinti attraverso un internegativo colore, in collaborazione con il laboratorio Haghefilm, e nel preservare i frammenti non identificati numerandoli e assemblandoli in rulli di proiezione.

Il lavoro artistico di Peter Delpeut si inscrive nel panorama audiovisivo contemporaneo anche per la questione della fallibilità dell’immagine, legata in questo caso specifico alla sua dimensione temporale e memoriale. Nel caso di Delpeut si conserva probabilmente quella specificità della memoria legata al suo carattere prettamente temporale: «La memoria è del tempo», diceva Aristotele. Ovvero, la memoria segnala la distanza temporale della cosa che viene ricordata così da scardinare quella che Paul Ricoeur definisce «una secolare colonizzazione della problematica della memoria da parte dell’immaginazione»[9]. Mentre l’immaginazione è legata alla finzione e al possibile, la memoria si preoccupa di essere fedele alla realtà, alla verità dell’immagine: tale epistemologia della memoria fu anticipata da Platone che nel Sofista tratta della distinzione tra i due poli opposti dell’arte mimetica, l’arte eikastiké, ovvero l’arte di copiare – «Si copia più fedelmente quando per perfezionare la propria imitazione si mutuano dal modello i suoi rapporti esatti di lunghezza, larghezza e profondità e si riveste poi ogni parte dei colori convenienti» – e l’arte phantastiké, l’arte della simulazione. Solo la prima, legata alla memoria, mira alla fedeltà al reale.

Tuttavia, appare comprensibile che anche alla memoria sia imputata un’aggravante di fallibilità: la memoria incorre nell’errore e, soprattutto, nell’oblio il quale viene doppiamente inteso come cancellazione di tracce e come difetto di adeguamento dell’immagine al ricordo, ad un’impronta lasciata come da un sigillo nella cera. Non si deve pensare che l’oblio si contrapponga alla memoria, poiché essa lo contiene già in sé. Diverso è tuttavia l’inganno: il carattere fallace dell’immaginazione è dato dalla confusione tra reale e irreale; invece, nel caso della memoria ciò su cui ci s’inganna è l’essere-stato dell’eikón, della immagine-copia. Ricordiamo per un momento uno stralcio di quel racconto superbo che è Funes o della memoria di J.L. Borges: «Attraversai il patio lastricato, un andito breve; giunsi al secondo patio. C’era una pergola; l’oscurità poté sembrarmi totale. Udii d’un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava in latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incanto. Risonavano le sillabe romane nel patio di terra; il mio timore le credette indecifrabili, interminabili poi, nell’enorme dialogo di quella notte, seppi ch’erano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia. L’argomento di questo capitolo è la memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis redereretur auditum»[10]. Ovvero: Nulla di ciò che è stato ascoltato può essere raccontato con le stesse parole.
Remo Bodei, nell’introduzione al fondamentale libro di Ricoeur Ricordare, dimenticare, perdonare, scrive: «L’unico antidoto alla falsificazione della memoria consiste nel rivendicarne la dimensione
etica, nella richiesta che ciascuno formuli una promessa di fedeltà e verità, da rinnovare incessantemente dinanzi al pericolo cui tutti siamo esposti, quello della rapsodica frammentarietà e casualità dei ricordi, che si distribuiscono e si organizzano in livelli di senso, in arcipelaghi, eventualmente separati in abissi»[11].

E, infatti, ciò a cui aspira il lavoro di found footage di Delpeut si può spiegare con le parole della Torah: Zakhor, ossia divieto di oblio. Il motivo principale è legato alla conservazione e alla costituzione di una identità: non bisogna dimenticare, innanzitutto per resistere ad una rovina universale che minaccia le tracce lasciate da quelle pellicole destinate all’oblio e, poi, per preservare il legame dialettico tra tradizione e innovazione. La studiosa di media José van Dijck ha dimostrato che i media giocano un ruolo davvero importante nella formazione della nostra memoria personale e della memoria collettiva. Essi sono in grado di modificare le nostre interpretazioni di eventi passati interfacciandoli con i nostri ricordi: «Media and memories are not separate entities – the first enhancing, corrupting, extending, replacing the second – but media invariably and inherently shape our personal memories»[12]. Da qui il concetto di “mediated memories” che Dijck considera dei veri e propri oggetto culturali: «Mediated memories are the activities and objects we produce and appropriate by means of media technologies, for creating and re-creating a sense of past, present, and future of ourselves in relation to others»[13]. Insomma, la memoria è connaturata all’immagine filmica: si tratta di una sinergia posta a suggello di una lettura ontologica dell’immagine filmica a cui è strettamente connessa l’urgenza contemporanea di concepire il cinema sia come archivio della memoria culturale sia come mediatore del ricordo.

Martina Mele


[1] M. BERTOZZI, Recycled Cinema, Marsilio Editori, Venezia 2013, p.49

[2] G. DIDI-HUBERMAN, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Milano. Il Saggiatore (2004), p.1

[3] A. HABIB, (In)appropriation: Dirty Movies and Second Hand Poetics, 2019,
https://foundfootagemagazine.com/en/special-issue-5/

[4] A. HABIB, “Des fragments des premiers temps à l’esthétique de la ruine”, In Kessler F., Verhoeff N., Networks of Entertainment. Early Film Distribution 1895–1915, Indiana University Press, John Libbey Publishing, 2007, pp.320-326

[5] Ibidem

[6] Ivi, p.325

[7] N. BOZAK, “Salvage Ethnography and the Exoticisation of Decay in Peter Delpeut’s Lyrical Nitrate anche Bill Morrison’s Decasia” In Beyond the Screen. Institutions, Networks, and Publics of Early Cinema, India University Press. John Libbey Publishing, 2016, p.202

[8] H. BELTING, An Anthropology of Images, Princeton University Press, United Kingdom 2011, p.21

[9] P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino, Bologna 2004, p.63

[10] J.L. BORGES, Finzioni, Adelphi Editore, Milano 2014, p.47

[11] P. RICOEUR, op. cit., p.10

[12] J. VAN DIJCK, Mediated Memories in the Digital Age, Stanford University Press, Stanford 2007, p.16

[13] Ivi, p.21

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