Schloß Vogelöd (The Haunted Castle, 1921)

Friedrich W. Murnau

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Riunitosi nel castello di Vogelöd per una battuta di caccia, un gruppo di aristocratici è costretto a rimanere confinato dentro le mura del castello a causa del maltempo. Al gruppo si aggiunge il conte Johann Oetsch, ritenuto l’autore dell’assassinio del suo stesso fratello, anni prima. Quando sopraggiunge anche la baronessa Safferstätt, vedova del morto, assieme al suo secondo marito, il barone Safferstätt, l’imbarazzo degli ospiti si trasforma in tensione. La sera successiva, dopo la battuta di caccia, arriva padre Faramund e la baronessa inizia a raccontargli del suo primo matrimonio. Quella notte uno degli ospiti fa un incubo terribile su un fantasma. Il giorno dopo il religioso è scomparso. Oetsch, la baronessa e suo marito si accusano a vicenda del vecchio omicidio e tutti ora sospettano che la scomparsa di Faramund sia opera di Oetsch. Ma poco dopo il religioso ricompare e la contessa riprende la sua confessione: il suo precedente matrimonio si stava rivelando un fallimento, poiché il marito era totalmente preso dai suoi testi sacri e agognava al distacco dai piaceri terreni. Una sera, per reazione, lei aveva espresso a Safferstätt, amico del marito, il bisogno di qualcosa di trasgressivo e terreno. Interpretando quell’esternazione come un desiderio di liberarsi del marito, il barone lo aveva ucciso. In seguito, i due si erano sposati. Alla fine della confessione, padre Faramund si spoglia del suo travestimento, rivelando di essere in realtà Oetsch. Al barone Safferstätt, oramai smascherato, non resta che suicidarsi e lo stesso farà la baronessa subito dopo. Poco dopo al castello giunge il vero padre Faramund.

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Il film è stato ricostruito e restaurato nel 2002, occasione in cui si è provveduto anche a restituirgli le sue splendide tinte, alquanto variegate, a seconda del tipo di ambiente, dell’ora del giorno o della sera, della presenza del sole o della pioggia, o semplicemente della particolare atmosfera del momento. Si tratta della terza collaborazione fra il regista e lo sceneggiatore Carl Mayer, dopo Der Bucklige und die Tänzerin (t.l. Il gobbo e la ballerina, 1920), andato perduto, e Der Gang in die Nacht (Walking into the Night, 1920), collaborazione che si rinnoverà per altri quattro film negli anni successivi. Il titolo originale tradotto suona semplicemente come Il castello di Vogelöd, mentre il titolo internazionale, Il castello infestato, tradisce la volontà di etichettare il film in un genere preciso, quello dell’orrore o del mistero che, dopo titoli quali Der student von Prag (Lo studente di Praga, 1913), le due versioni di Der Golem (Il golem) di Wegener (1915-1920) o Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920), era diventato un po’ il marchio di fabbrica del cinema tedesco. Ma, come ora vedremo, il film di Murnau non rientra propriamente in questo genere. Il sottotitolo recita «La rivelazione di un segreto – in 5 atti» (Die Enthüllung eined Geheimnisses. 5 Akte). Si tratta, in superficie, di una sorta di variazione “in giallo” del Kammerspiel, in cui si cerca di far luce su un delitto commesso ben due anni prima. Ma si capisce immediatamente che l’interesse di Mayer e Murnau è rivolto al sottotesto di questa indagine e i due lavorano perciò di concerto su tutto ciò che fa da sfondo agli accadimenti, tanto che alla fine è la banale vicenda – coi suoi cliché e i twist da romanzo d’appendice – a scivolare sullo sfondo, mentre l’atmosfera e l’interiorità dei personaggi vengono in primo piano, assieme a temi e immagini che saranno ricorrenti nei film successivi, a partire da Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro, 1922) e Phantom (Fantasma, 1922):

La sceneggiatura, adattata da Carl Mayer da un mediocre romanzo di Rudolph Stratz, potrebbe appartenere a uno qualunque degli innumerevoli Detektiv-Filme girati da Richard Oswald, Joe May o Otto Rippert, se non fosse che il testo assegnato a Mayer anticipa già con precisione gli effetti visivi del film di Murnau – avendo Mayer, com’è noto, il talento di sapere scrivere per il cinema in termini cinematografici – e che sembra esistere una tacita complicità fra lo sceneggiatore e il regista, essendo l’accento posto più specificatamente sulla descrizione degli stati d’animo del personaggio e della sua psicologia.[1]

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E così la pioggia incessante diviene una prigione che “raddoppia” quella fornita dalle pareti del castello, i presagi si travestono da incubi di matrice horror, e i travestimenti vengono sublimati nella figura del doppelgänger, ovverosia il doppio, il sosia, qui rappresentato dal travestimento di Oetsch in padre Faramund, ma anche – potremmo pensare, una volta svelato l’inganno e chiarita l’intera storia – dal desiderio di vendetta di Oetsch per il fratello assassinato, dal cui fantasma sembra essere posseduto. In definitiva, i fatti che scaturiscono dall’intreccio principale «diventano l’occasione per tessere una trama in cui la verità si disgrega in mille rivoli per poi riapparire e ricomporsi come gioco di maschere e apparenze»[2].

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La vicenda si svolge quasi interamente all’interno delle mura del castello Vogelöd. Il film alterna a questa claustrofobica situazione una serie di riprese che ritraggono il maniero (in realtà trattasi di un modellino) in varie ore del giorno o della sera, qualche inquadratura della campagna circostante e di un lago: inquadrature d’ambiente, che, come nel film precedente, Der Gang in die Nacht, si interpongono all’azione. Perfettamente calibrato e modernissimo il découpage con cui vengono introdotti, uno per uno o a piccoli gruppi, i personaggi che si trovano all’interno del castello: ai campi medi e ai totali si alternano mezze figure e primi piani, fino all’inquadratura di una porta che solo un attimo dopo si apre per mostrare il maggiordomo che annuncia l’inatteso arrivo del conte Oetsch. Da subito viene dunque instaurato il contrasto fra le scene d’interni, coi personaggi dislocati in saloni e androni, e gli inserti che ritraggono un paesaggio esterno, invernale, spoglio e immobile, perlopiù notturno, su cui la macchina da presa sembra indugiare sottolineando l’assenza umana. A differenza del film precedente, in cui pure abbondavano simili inquadrature apparentemente fuori contesto, qui la natura non dialoga affatto con i personaggi, non si offre come amplificatore di emozioni, di presagi, bensì rimane del tutto indifferente, un luogo separato e altro rispetto alle vicende umane. L’unica variante a questa rigida dicotomia è l’assolata quanto breve sequenza della caccia, in cui l’atmosfera sembra improvvisamente distendersi.

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L’apparente linearità di questo Kammerspiel, in cui sembra prevalere la componente del realismo psicologico, viene disturbata, a partire dal terzo atto, da diverse incursioni nella memoria e nel sogno. Nel primo caso si tratta del flashback innescato a più riprese dalle confessioni che la baronessa fa a padre Faramund, durante le quali la donna narra della sua vita matrimoniale, in un primo tempo idilliaca: la sequenza è introdotta da una splendida inquadratura inondata di luce in cui la donna, è raffigurata seduta in primo piano mentre sta sistemando un mazzo di fiori in un vaso; sullo sfondo, oltre l’ampia finestra, appaiono le acque placide di un lago attorniato da alti alberi e chiuso in fondo da una linea di colline. Questo stato d’animo sereno e gioioso viene ben presto messo in crisi dall’atteggiamento del marito: improvvisamente colto da un fervore spirituale e religioso, l’uomo rifiuta ogni contatto fisico con la moglie, allontanandola da sé sempre di più; parallelamente vediamo crescere nella donna un’insofferenza verso tutta quella spiritualità e il rancore verso il marito che non riconosce più e che porterà poi all’omicidio dell’uomo da parte del barone Safferstätt.

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L’incursione nel mondo del sogno avviene invece in due diverse occasioni, l’una successiva all’altra, ma per ora è la prima che ci interessa: si tratta di un incubo spaventoso, che si traduce in una sequenza horror dai tratti sottilmente parodistici: una lunga mano bestiale dalle dita ad artiglio, si fa strada attraverso la finestra nella stanza in cui dorme uno dei personaggi, il quale rimane come pietrificato a quella vista, mentre l’artiglio si avvicina sempre di più, afferra l’uomo e lo trascina fuori dalla finestra. Questa sequenza serve probabilmente a rafforzare la paranoia degli ospiti del castello nei confronti del personaggio del conte Oetsch, di cui tutti pensano il peggio, e che invece alla fine si rivelerà del tutto innocente. In questa parabola di amore, follia e paranoia, in cui si possono far rientrare sia il racconto della baronessa che l’incubo paranoico dell’ospite del castello, sembra di ravvisare l’influenza di certe pagine di E.T.A. Hoffmann, compreso quel retrogusto di humor nero tipico dello scrittore tedesco.

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Ci sono poi due brevi parentesi comiche che coinvolgono il garzone della cucina e il cuoco, la cui funzione sembra essere quella di un contrappunto “basso” rispetto alle tematiche “alte” che toccano la vita degli aristocratici del castello: nella prima scena, il garzone infila le dita in un contenitore contenente della crema e se le porta alla bocca, succhiandosele con avidità, fino a quando il cuoco non se ne accorge e interviene. La seconda, invece, situata subito dopo l’incubo horror, va a raddoppiarne in maniera dichiaratamente comica, il contenuto onirico: il ragazzo, nel suo letto, sogna di essere in cucina e viene imboccato dal prete e, ad ogni cucchiaiata di crema, schiaffeggia con gusto il cuoco, immobile accanto a lui. Due momenti che spiccano per contrasto nell’atmosfera prevalentemente tesa e paranoica del film, compromettendone forse l’omogeneità, ma che esplicitano anche il distacco ironico con cui Murnau e Mayer affrontano quel trito e contorto canovaccio (il soggetto è tratto da un romanzo di Rudolf Srtatz). In ogni caso queste due scenette rendono conto anche dell’interesse di Murnau per la commedia, che tornerà poi in Die Finanzen des Großherzogs (Le finanze del granduca, 1924), Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924) e in Herr Tartüff (Tartufo, 1926), tutti e tre, seppure in gradi diversi, sospesi fra dramma e commedia, verità e apparenze, maschere e doppi: «Un Murnau che, come ci hanno confermato tutti i suoi amici, poteva essere timido e trasognato, quasi melanconico, ma che all’improvviso sapeva diventare allegro, vivace, incline allo scherzo come un ragazzino»[3].

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Se la macchina da presa è ancora fissa – Murnau le darà piena libertà solo qualche anno dopo, a partire da Der letzte Mann – gli spazi sono invece utilizzati già ad arte, i personaggi sono spesso dislocati in diversi punti del piano, lungo l’asse di profondità, o addirittura disposti sui due lati opposti, come nella magnifica, ultima inquadratura del flashback, dopo che Safferstätt ha confessato alla baronessa di aver ucciso suo marito. Questo tipo di uso dello spazio crea del movimento interno al quadro e lo sguardo dello spettatore è sollecitato a vagare da un punto all’altro, a scegliere cosa guardare, anziché rimanere passivamente al centro dell’inquadratura. E se le vaste sale isolano, più che unire, le figure umane, lo stesso fanno i primi piani, assai più ricorrenti rispetto alla media dei film dell’epoca, ma anche rispetto agli altri film di Murnau, che preferisce solitamente altre tipologie di inquadratura.

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I personaggi, spesso immobili nelle loro posizioni, sembrano avvolti da un velo di sospetto, diffidenza e menzogne o schiacciati dalla loro stessa coscienza. In altre occasioni, certe azioni sono “raddoppiate” in una scena successiva, come nel caso del conte Oetsch che discende una scalinata del maniero, azione ripetuta poi più avanti da un altro personaggio, ovvero la baronessa, tramite un’inquadratura quasi identica e alla stessa distanza. E l’illuminazione, modellando spazi dall’atmosfera ambigua e sospesa, contribuisce a suggerire inquietudine e agitazione e soprattutto crea una netta frattura percettiva tra il presente cupo e spettrale, nelle scene all’interno nel castello, e il passato, in cui l’idillio amoroso del barone e della baronessa è pervaso da una luce intensa che sembra evocare quella trasfigurazione e idealizzazione che la mente esercita sui ricordi più belli e preziosi.

In conclusione, come ben sintetizzò Kracauer, «questo film dimostrò anche la sua [di Murnau] inimitabile capacità di abolire i limiti fra il reale e l’irreale. Nei suoi film la realtà è circondata da un alone di sogni e presentimenti, e una persona tangibile può improvvisamente sembrare al pubblico una semplice apparizione»[4]. Ne avremo piena conferma con il film successivo, Nosferatu.

Vittorio Renzi  (13 marzo 2017)

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Schloß Vogelöd (The Haunted Castle)

[t.l.: Il castello di Vogelöd]

Germania, 1921

regia: Friedrich Wilhelm Murnau

soggetto: romanzo di Rudolf Stratz

sceneggiatura: Carl Mayer

fotografia: Fritz Arno Wagner, László Schäffer

scenografia: Hermann Warm

costumi: S. Adams House

produzione: Erich Pommer, per Uco-Film

cast: Lothar Mehnert (conte Johann Oetsch), Olga Tschechowa (baronessa Safferstätt), Paul H. Bildt (barone Safferstätt), Arnold Korff (Lord von Vogelschrey), Lulu Kyser-Korff (Lady von Vogelschrey), Paul Hartmann (conte Peter Paul Oetsch), Victor Blütner (padre Faramund), Hermann Vallentin (giudice), Julius Falkenstein (l’uomo spaventoso), Robert Leffler (custode), Walter Kurt Kuhle (servo)

durata:  70′

première: Berlino, 7 aprile 1921


[1] Charles Jameux, Schloß Vogelöd, in “Positif” n. 80, dicembre 1966 (traduzione mia).
[2] Andrea Minuz, Friedrich Wilhelm Murnau. L’arte di evocare fantasmi, Fondazione Ente dello Spettacolo, 2010, p. 60-61.
[3] Lotte H. Eisner, Murnau. Vita e opere di un genio del cinema tedesco, Padova, ALET, 2010, p. 110.
[4] Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001, p. 128.

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