Fritz Lang
SINOSSI: In un’epoca imprecisata, la vita in una cittadina è stravolta dall’arrivo di uno straniero dall’aria sinistra. Costui appare dal nulla a un crocevia e viene raccolto da una carrozza sulla quale viaggia anche una coppia di giovani innamorati. Giunto in città, lo straniero si stabilisce in un terreno vicino al cimitero, circondato da un muro altissimo, ma senza ingressi. I tre si ritrovano allo stesso tavolo nella locanda dell’Unicorno d’Oro. All’improvviso, lo straniero trasforma uno dei boccali di birra in una clessidra, sconvolgendo i due amanti. La ragazza si assenta un momento e, quando torna, il suo fidanzato è scomparso insieme all’uomo misterioso. Lei lo cerca ovunque fino a quando, di notte, si ritrova nei pressi del cimitero e qui assiste a una parata di anime di defunti, fra le quali anche quella del suo amato, che svaniscono oltre l’alto muro. La ragazza sviene. Soccorsa dal farmacista, nella sua casa legge i versi dell’Inno di Salomone e si convince che l’amore è più forte della morte. Così beve del veleno per poter penetrare nelle alte mura. Qui rincontra lo straniero, la Morte, che la conduce in una sala piena di candele accese: le anime dei vivi. Lei lo supplica di restituirgli il suo uomo, ma la Morte le dice che l’unico modo in cui può riaverlo indietro è quello di riuscire a salvare una vita in tre diverse epoche e incarnazioni.
Storia della prima fiammella: nell’antica Bagdad, durante i festeggiamenti del Ramadan, la principessa Zobeide, sorella del Califfo, ama segretamente un europeo infedele. Ma il Califfo li scopre e ne ordina l’uccisione, che Zobeide non riesce a impedire. A seppellire il suo cadavere è il giardiniere El Mot.
Storia della seconda fiammella: nella Venezia rinascimentale, Monna Fiammetta e Giovanfrancesco si amano, ma il suo fidanzato, Girolamo, durante il Carnevale, attraverso un inganno, fa sì che Giovanfrancesco, mascherato, trovi la morte proprio per ordine di Fiammetta, che lo scambia per il fidanzato geloso.
Storia della terza fiammella: Nella Cina Imperiale, il mago A Hei viene obbligato dall’imperatore a concedergli la sua giovane apprendista Tiao Tsien, innamorata dell’assistente del mago, Liang. Tiao usa la magia per far comparire un elefante e i due giovani tentano la fuga, ma è tutto inutile. In un ultimo disperato gesto, Tiao trasforma se stessa nella statua di una dea e Liang in una tigre, ma l’arciere dell’imperatore abbatte Liang con una freccia.
Falliti tutti e tre i tentativi, la Morte concede un’ultima possibilità alla fanciulla: deve portarle un’altra vita in cambio di quella dell’amato. La ragazza chiede in giro a vecchi, mendicanti e malati, ma nessuno vuole sacrificarsi. Infine, trova un neonato in una casa in fiamme, ma non ha il cuore di lasciarlo morire e così alla fine offre alla Morte la sua stessa vita. Finalmente i due amanti vengono riuniti nell’aldilà.
Quando fu proiettato a Berlino nell’autunno del 1921, Der müde Tod (Destino, 1921) non fu un gran successo, anzi, la stampa tedesca rimase spiazzata dal romanticismo esasperato di questa sorta di inversione di ruoli del mito di Orfeo e Euridice e soprattutto non apprezzò la commistione fra l’immaginario fantastico mitteleuropeo (fra Hoffmann, i fratelli Grimm e le canzoni popolari viennesi) e le tre digressioni esotiche. All’estero invece fu accolto molto bene e anzi si rivelò di fatto il primo successo internazionale di Fritz Lang (Luis Buñuel lo vide, se ne innamorò e decise di dedicarsi al cinema) e tale risonanza permise poi che fosse riconsiderato e meglio compreso anche in patria.
Il significato del titolo originale tedesco completo è «La morte stanca – Ballata popolare tedesca in sei canti»: nonostante Lang abbia affermato di non essere particolarmente versato nella musica, il film si presenta dunque come un’opera musicale, declinata in movimenti e provvista di prologo ed epilogo, fortemente imbevuta di romanticismo tedesco, delle sue fiabe, delle sue ballate, dei suoi miti. A livello visivo, si riscontra l’influenza della pittura di Caspar David Friedrich. Si impone il lavoro sulle scenografie, che sostituiscono le tele dipinte di Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920) di Wiene, inaugurando quella “grandiosità architettonica destinata in seguito a divenire una delle caratteristiche di Lang: il muro, lo scalone e i ceri seppero rappresentare meglio degli stessi attori la morale del film: l’uomo è prigioniero del proprio destino”[1].
La prima immagine del film vede l’apparizione, a un crocevia, di un uomo alto, avvolto da una cappa nera e da un cappello a tesa larga, con in mano un bastone. Il volto è severo, accigliato, gli occhi gelidi. Si tratta della prima memorabile personificazione della Morte al cinema, e bisognerà aspettare Ingmar Bergman e il suo Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, 1947) per trovarne un’altra di pari impatto ed efficacia iconica. Inizialmente la sua è una presenza sinistra e inquietante, indifferente alle vicende umane, in grado di arrivare a chiunque, ma non di essere raggiunta, come sta a testimoniare l’alto muro senza entrate con cui circonda la sua “proprietà” di fianco al cimitero locale. In questa e altre immagini, Kracauer vide una delle più convincenti raffigurazioni del Fato, quel sentimento di infausta predestinazione che incombeva sulla Germania di Weimar, in preda ai conflitti interni e alla crisi economica. Molti film tedeschi dell’epoca rivelano una sorta di ipnotico abbandono all’inevitabile che va a coincidere con il rimestamento di temi e simbologie romantiche, una fuga verso l’irrazionale nel momento in cui la Storia si ergeva opaca e imponderabile, innescando domande per le quali ogni risposta sembrava insoddisfacente:
Oltre a nascondere il cielo, l’enorme muraglia eretta dalla Morte corre parallela allo schermo, in modo che nessun punto di fuga permette di valutarne le dimensioni. Quando la ragazza è in piedi davanti al muro, il contrasto fra l’immensità di questo e l’esile figuretta è un simbolo del Fato, inaccessibile alle suppliche umane.[2]
Più avanti però, e precisamente all’interno della “cattedrale”, piena di candele che raffigurano le singole vite umane (idea ripresa dalla fiaba Gevatter Tod, ovvero Comare morte, dei Grimm) si stabilisce una sorta di connessione emotiva, di intimità, tra la Morte, ormai stanca di assolvere al suo compito, e la ragazza che vuole solo ricongiungersi al suo amato, viva o morta. Ed è allora che il Tristo Mietitore mostra il suo volto più umano, offrendo diverse possibilità alla giovane, pur sapendo di non essere altro, lui per primo, che uno strumento nelle mani di un fato più grande di tutto: «L’eroina è, con ogni evidenza, il Bene, mentre il Male non corrisponde alla morte, quanto all’errore morale. La morte è soltanto l’ago della bilancia, funge da mediatrice tra ciascun essere umano e le sue azioni»[3].
Oltre all’alto muro e alle candele-anime, troviamo altri oggetti-simbolo (della morte stessa, della caducità umana): il piccolo scheletro che si erge, al posto del pomello, all’estremità del bastone della Morte; la clessidra che, apparendo all’improvviso sul tavolo della locanda al posto di un boccale di birra, spaventa i due amanti. Per dare maggior risalto alla natura sovrannaturale della Morte, e di tutto ciò che le fa capo, Lang fa un uso abbondante di trucchi e sovrimpressioni (per inciso, va detto che Körkarlen, Il carretto fantasma di Sjöström uscì in Germania due mesi dopo Der müde Tod), come nella bellissima scena della “parata” dei morti che attraversano il muro al cospetto della ragazza atterrita o in quella, situata nell’episodio cinese, del tappeto volante.
E’ da notare, che subito dopo il cupo incipit dell’apparizione della Morte e prima della visione dell’alto muro, Lang ci presenta un siparietto di ritratti delle personalità importanti del paese in cui prende inizio la storia: il notaio, il medico, il farmacista. Una galleria di caricature che alleggerisce, per un attimo, il tono cupo e angosciante su cui il film era partito. Questa caratteristica di alternare il tragico al comico, in maniera a volte stridente, si ritrova in quasi tutti i film muti di Lang, il quale andava ripetendo, citando anche Shakespeare, che il tragico e il comico sono entrambi aspetti della vita e dunque dell’arte. Ma, oltre al tono, il contrasto che qui maggiormente risalta è quello fra i diversi stili visivi nel raffigurare i diversi tipi di immaginario, e forse proprio questo aspetto aveva in un primo momento spiazzato il pubblico coevo. La compresenza di vari episodi a tema, per l’epoca, non era una novità, come testimoniano fra gli altri Intolerance (1916) di Griffith e Blade af Satans bog (Pagine dal libro di Satana, 1920) di Dreyer. C’è da dire però che, rispetto soprattutto al monumentale film del cineasta americano, il film di Lang è molto più breve e almeno i primi i due film nel film sono poco più che delle digressioni.
La «Storia della terza fiammella», invece, oltre ad essere la più estesa, colpisce per l’apparente “regressione”, sul piano visivo e di regia, che la fa assomigliare curiosamente a una di quelle féerie in voga nei primordi del cinema (da Méliès a Zecca a tanti altri), per la frontalità delle riprese, nei primi minuti, le scenografie palesemente disegnate e bidimensionali. E da ultimo, un tono più leggero e più “comico” rispetto ai due episodi esotici precedenti i quali, pur pescando a piene mani in mondi lontani, mantengono una certa verosimiglianza che fa capo a quella psicologica dei personaggi della storia principale. Ad ogni modo, i trucchi più macchinosi e sorprendenti del film si trovano qui: il lungo papiro del mago che si anima e prende a ondeggiare come un serpente, il tappeto volante, l’esercito in miniatura, il cavallo giocattolo tramutato in un vero cavallo, la metamorfosi del mago in un cactus e delle guardie in maiali, i demoni di fiamma. Un vero e proprio film nel film. Questo Le mille e una notte in versione cinese entusiasmò Douglas Fairbanks al punto da spingerlo ad acquistare il film e a riutilizzarne alcuni trucchi e trovate per The Thief of Bagdad (Il ladro di Bagdad, 1924), che girò insieme a Raoul Walsh pochi anni dopo.
Dopo Der müde Tod, considerato da alcuni il suo primo capolavoro, negli anni successivi Fritz Lang si gettò in imprese produttivamente e artisticamente sempre più complesse, dando vita ad alcune fra le saghe e i film monumentali più importanti e celebrati di tutto il cinema muto.
Vittorio Renzi (22 ottobre 2016)
Der müde Tod (Destino)
[Destiny / a.k.a. Between Worlds, Beyond the Wall]
Germania, 1921
regia e montaggio: Fritz Lang
sceneggiatura: Thea von Harbou, Fritz Lang
fotografia: Erich Nitzchmann, Hermann Salfrank, Fritz Arno Wagner
musica: Peter Schirman
scenografia: Robert Herlth, Walter Röhrig, Hermann Warm
costumi: Heinrich Umlauff
produzione: Erich Pommer, per Decla-Bioscop AG
cast: Bernhard Goetzke (la morte/El Mot/Bogner/Archer), Lil Dagover (la ragazza/Zobeide/Monna Fiametta/Tiao Tsie), Walter Janssen (il ragazzo/Franke/Giovanfrancesco/Liang ), Rudolf Klein-Rogge (derviscio/Girolamo), Georg John (mendicante), Eduard von Winterstein (califfo), Max Adalbert (tesoriere), Hans Sternberg (borgomastro), Ernst Rückert (ministro)
lunghezza: 6 rulli, 2.306 metri
durata: 100’
première: 6 ottobre 1921
data di uscita: novembre 1921
[1] Georges Sadoul, Storia del cinema mondiale dalle origini ai nostri giorni, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 202.
[2] Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001, p. 142.
[3] Stefano Socci, Fritz Lang, Milano, Il Castoro, 1994, p. 25.