Blade af Satans Bog (Pagine dal libro di Satana, 1919)

Carl Th. Dreyer

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SINOSSI: Satana, maledetto da Dio, percorre il mondo inducendo gli uomini a compiere il male; può sperare di essere liberato dalla maledizione divina solo se qualcuno gli resiste, ma pochi lo fanno. Il primo episodio racconta il tradimento di Gesù da parte di Giuda, aizzato da Satana nei panni di un fariseo. Il secondo episodio è ambientato nella Spagna del XVI secolo: Satana è un Grande Inquisitore che esercita la sua influenza su un giovane monaco, Don Fernández, tormentato dall’amore per Isabella Gómez, di cui è l’istitutore, spingendolo ad accusare il padre di lei di eresia per poterla avere in suo potere. Il terzo episodio si svolge all’epoca della Rivoluzione francese: il giovane servo Joseph, unitosi ai rivoluzionari, spronato dal maligno tradisce la sua giovane padrona, la contessina Geneviève Chambord, della quale è innamorato. Lei gli promette che gli concederà il suo perdono se lui salverà Maria Antonietta dalla ghigliottina. Ma in un impeto di rabbia, il giovane manda la regina al patibolo, conquistandosi così la dannazione eterna. Il quarto episodio si svolge in Finlandia, nel 1918: Rautamiemi ama la telegrafista Siri, la moglie di Paavo, che di lui non vuol saperne. In preda all’ira, e sotto l’influsso del monaco Ivan, ovvero Satana, che è a capo di un gruppo di bolscevichi, il giovane si unisce a loro e cerca di costringere Paavo e Siri a inviare un messaggio che attiri le Guardie Bianche della controrivoluzione in un’imboscata. Ma Paavo si rifiuta e lei, per non cedere alla tentazione di salvare suo marito e i suoi figli, si uccide. Paavo si salva e il piano di Satana, per una volta, fallisce.

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Nel 1918 Dreyer assisté alla proiezione di Intolerance (1916), di Griffith e, come tanti altri cineasti all’epoca, ne rimase profondamente impressionato. Fu colpito dal messaggio alla base del film, il discorso appunto sulla tolleranza come valore universale e pacificatore, ma soprattutto la smisurata ambizione artistica dell’opera, la conferma (già avuta dai film di Sjöström, Stiller e Christensen, tra i pochi registi da lui elogiati) che il cinema poteva finalmente considerato al pari di ogni altra  forma d’arte. E così il secondo e ultimo film di Dreyer per la Nordisk ricalca in parte la struttura della mastodontica opera di Griffith, servendosi di una sceneggiatura scritta nel 1913 dal drammaturgo danese Edgard Høyer e rimaneggiata dallo stesso Dreyer. Pare invece che non sia pertinente il riferimento che alcuni fanno, come fonte letteraria, al romanzo di Marie Corelli Satan Sorger, ovvero “La tristezza di Satana”[1]. Comunque sia, rispetto al film di Griffith, Dreyer adoperò una struttura più lineare, facendo susseguire i vari episodi, senza intrecciarli l’uno con l’altro.

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L’idea di porre Satana come trait d’union dei diversi episodi fu sfruttato in quello stesso anno da Murnau per il suo Satanas (su sceneggiatura di Robert Wiene), in tre episodi, uscito all’inizio del 1920, di cui oggi purtroppo non rimangono che pochi frammenti. Se nel film di Murnau il diavolo aveva il volto di Conrad Veidt, in quello di Dreyer è incarnato da Helge Nissen, attore del Kongelige Teater (il Teatro Reale danese), per la prima ed ultima volta davanti a una cinepresa, e il cui volto tragico e intenso appare una scelta perfetta per la visione insolita – lo vedremo fra poco – con cui Dreyer mira a dipingere il suo Satana, lontanissimo, per restare a Murnau, da quello ghignante, sornione e beffardo di Emil Jannings nel Faust (1926). Per un’altra fortuita coincidenza (o forse no?), sia il film di Dreyer che Satanas di Murnau si chiudono con un episodio ambientato durante la Rivoluzione russa (ovvero di “attualità”, in quegli anni), in cui un giovane viene persuaso dal diavolo, travestito da bolscevico, a unirsi ai rivoluzionari. Si chiese in proposito Lotte Eisner:

Si potrebbe pensare a un influsso di Murnau su Dreyer, se alcuni storici del cinema danesi non mi avessero assicurato che quest’ultimo aveva iniziato il film già nel 1918. E’ possibile che Murnau abbia fatto visita al collega nei teatri di posa?[2]

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Se il suo esordio era avvenuto nell’indifferenza generale, il secondo film di Carl Theodor Dreyer fece arrabbiare praticamente tutti, i cristiani luterani come la sinistra proletaria, per motivi ovviamente diversi. In Svezia e in Finlandia il film uscì senza il quarto episodio; in alcuni paesi del Sud fu invece il secondo ad essere decurtato. Così, se Griffith, all’epoca di The Birth of a Nation (Nascita di una nazione, 1915) era stato accusato, non a torto, di razzismo, Dreyer fu invece  tacciato da un lato di blasfemia, nella misura in cui Dio sembra qui servirsi di Satana per seminare il male; dall’altro, di essere un reazionario, di prendere le parti degli aristocratici e dei borghesi, sminuendo e tratteggiando in modo grottesco il popolo rivoluzionario, sia quello francese della fine del XVIII secolo che quello dei russi bolscevichi.

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Quasi tutti gli storici del cinema oggi difendono Dreyer da queste accuse, essendo ormai noto il suo disprezzo per la classe borghese e per la mentalità patriarcale, di cui essa si rese garante, a spese delle donne. Perché qui, come nel precedente Præsidenten (Il presidente, 1918), sono nuovamente le donne, fanciulle o madri che siano, a essere vittime e martiri; le figure maschili, fatta eccezione unicamente per Paavo, nel quarto episodio, sono tutte figure negative: predatori, oppressori, vili e nefasti (anche per loro stessi). Si sostiene dunque che Dreyer voglia dimostrare, in un’ottica tutt’altro che politica, quanto la violenza indiscriminata (dettata appunto dall’intolleranza) possa rendere ciechi anche e soprattutto coloro che agiscono in nome di una giusta causa e che questa giusta causa non dovrebbe giustificare mai la violenza.

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C’è però da dire che almeno uno dei quattro episodi si pone in modo più ambiguo di altri: quello relativo alla Rivoluzione francese. Nella fattispecie, per il modo in cui è ritratto il personaggio di Maria Antonietta. E’ vero che si tratta di una donna e di una madre, indifesa e alla mercé della sete di vendetta di un popolo inferocito, e che questo già basterebbe a giustificare la compassione da parte di Dreyer. Ma non è questo il punto. Non si tratta cioè tanto di contenuto, quanto di forma. Il problema nasce dal modo in cui la regina viene ritratta nelle numerose inquadrature che il cineasta le dedica: solenne, sofferente, dignitosa. Una vera regina, nobile per nascita ma anche d’animo. Persino sdegnosa, alla fine, quando rifiuta di salvarsi dopo aver saputo del tradimento di Joseph ai danni della contessina di cui era innamorato. Pura e virtuosa fino alla fine. E lo stesso si può dire della coppia di controrivoluzionari finlandesi del quarto episodio. Tutto questo sembra mostrare una precisa presa di posizione di Dreyer che, nel migliore dei casi, possiamo definire emotiva, poco ragionata o acritica, soprattutto considerando come la nobiltà ieratica e stentorea di queste figure si ponga in netto contrasto con la mobilità caotica e grossolana dei rivoluzionari, sia i francesi, che russi, tratteggiati, nella fisionomia come nel comportamento, come esseri spregevoli, esaltati, ipocriti e profittatori, vigliacchi e assassini, plebaglia. Non vi è neanche una figura positiva fra loro, che, del resto, sono guidati da Satana in persona. Difficile perciò difendere o giustificare fino in fondo la posizione “politica” di Dreyer, almeno sotto questo punto di vista.

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Ciò che invece rimane più problematico, sfumato e interessante è la modalità di rappresentazione del diavolo. In ognuno dei quattro episodi, vi è almeno un momento in cui Satana, nel suo travestimento di quell’epoca, viene isolato dal contesto e il suo volto è inquadrato in primo piano mentre, con espressione grave, osserva gli uomini, si direbbe più con tristezza e rassegnazione che con odio o malvagità. Senza contare che, nel prologo, risolto interamente mediante didascalie (a causa di una riduzione del budget rispetto a quello previsto in origine) viene esposta la sua “leggenda” (sic), secondo la quale, come punizione per la sua caduta, è lo stesso Dio a condannarlo a seminare la malvagità nel mondo. Ecco il testo di una delle didascalie iniziali:

E Dio condannò Satana: “Inseguirai il tuo scopo tentando gli uomini. Abiterai tra loro. Prenderai sembianze umane e cercherai di convincerli ad agire contro la mia volontà. (…) Può darsi che tu riesca nel tuo intento: in questo caso, la maledizione che è su di te, si prolungherà per cento solstizi. Al contrario, se qualcuno ti resisterà, la tua condanna sarà accorciata di mille anni… Vai e compi la tua opera malvagia!”.

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Quest’ultima frase, contenente l’imperativo di Dio, ricompare alla fine di ogni episodio. Per Drouzy ciò implica l’assunzione, per Dreyer, che l’artefice del male nel mondo sia Dio stesso e che Satana sia un suo strumento[3]. Altri trovano forzata questa interpretazione e sottolineano come una simile problematizzazione del male e della giustizia divina, e quindi dei ruoli rispettivi ruoli di Satana e Dio, compaiano già nel Libro di Giobbe, uno dei testi più controversi della Bibbia, che verrà poi citato in altri due film di Dreyer: Michael (Desiderio del cuore, 1924) e Ordet (Ordet – La parola, 1955). La visione pessimistica di Dreyer inoltre rifletterebbe, traslata nel contesto della matrice cristiana, la filosofia esistenzialista del suo conterraneo Søren Kierkegaard: fondamentalmente, sia che ceda al male, sia che vi si opponga, l’uomo è destinato comunque alla sconfitta o alla morte[4]. Come che sia, è talmente evidente come il problema del male sia il centro nevralgico del film, che Dreyer non si sofferma quasi mai sulle sue conseguenze: la crocefissione di Gesù, così come le esecuzioni dei nobili, di Maria Antonietta o delle altre vittime, si risolvono tutte fuori campo. A Dreyer non interessa mostrare le conseguenze del male, quanto invece indagare i presupposti che lo scatenano e il meccanismo che lo regola.

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Riguardo alla figura di Giuda nel primo episodio, Dreyer si attiene alla versione del Vangelo di Giovanni, secondo la quale, a differenza dei vangeli sinottici, Satana era entrato in lui già prima dell’ultima cena, spingendolo a tradire il suo maestro. Tuttavia Giuda si mostrava già dubbioso e arrogante verso gli insegnamenti di Gesù e, come gli altri protagonisti traviati dal diavolo negli altri episodi, di fatto, egli incontra Satana quando si è già messo sulla via del male, mosso da egoismo, arroganza, invidia, gelosia. Tutti sentimenti assolutamente umani. Perciò Dreyer solo fino a un certo punto si pone il problema se Giuda fosse o no predestinato al tradimento, se potesse scegliere o meno di tradire. Di fatto tradisce, e lo fa perché è schiavo dei suoi stessi sentimenti e desideri. E lo stesso vale per i tre giovani uomini degli episodi successivi, che confondono l’amore per una donna con il loro desiderio di possesso. E a nulla vale tentare di mortificarsi, di sopprimere il proprio desiderio, come nella scena in cui Dreyer, con un’amarezza un po’ beffarda, ci mostra Don Fernández mentre si autoflagella. E’ la loro stessa frustrazione che infine li spinge al desiderio di sopraffazione e all’odio. E, per farlo, Satana offre loro il potere, tramite una posizione sociale che consenta loro di agire per i propri interessi (l’uno divenendo membro dell’Inquisizione, l’altro un Cittadino della Repubblica, il terzo un agente dei bolscevichi). Il che è come dire che il potere corrompe chi è già corrotto di suo. Questo ritengo sia un punto importante perché testimonia, al di là delle considerazioni precedenti, quanto il punto di vista di Dreyer sia essenzialmente laico, preoccupato più dell’aspetto morale, che non di quello religioso. Lo dimostra anche l’utilizzo – sia letterale che grafico – che fa della croce, che diviene nelle sue mani un simbolo controverso, poiché è, allo stesso tempo, sia il baluardo della fede sincera delle vittime innocenti che l’ombra minacciosa che si allunga su di loro, strumento di potere – puramente temporale e ben poco divino – di esseri perversi e vili che si spacciano per rappresentanti di Dio in Terra.

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E veniamo alle considerazioni formali. Sul modello di Intolerance, il film erige un apparato visivo improntato alla monumentalità e alla solennità: non tanto delle scenografie, che sono nella maggior parte dei casi semplici e scarne, quanto dei volti e dei gesti. La particolare cura della composizione delle immagini, che era già ben visibile in Præsidenten, si fa qui ancora più evidente. Le scene in esterni (il giardino di Getsemani nel primo episodio, i boschi innevati della Finlandia nel quarto) sono splendidamente fotografate senza risultare “pittoresche”. L’aspetto visivo si lega indissolubilmente al discorso austero del film, e sarà sempre più così nel suo cinema, salvo rare eccezioni. Anche se poi un altro limite di Blade af Satans Bog è che questa ricercata monumentalità e solennità finisce a tratti per risultare algida, a discapito dello scavo umano dei personaggi, anche perché spesso il registro recitativo degli attori si risolve in pose magniloquenti e un po’ ridicole, da filodrammatica (o da icone medievali, a voler essere gentili), con un susseguirsi sfiancante di sguardi da martiri e mani tese verso il cielo: un aspetto, questo, fortunatamente circoscritto a quest’unico film del maestro danese e nel quale mai più ci imbatteremo.

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Nei momenti migliori, comunque, Dreyer tratta i volti e i corpi come elementi architettonici, cercando in tal modo di rendere iconografica la presunta oggettività e universalità degli assunti morali sottesi alla narrazione, di scolpirli nelle immagini. E se per la scena dell’ultima cena egli si rifà al Cenacolo di Leonardo Da Vinci, è soprattutto nei primi piani su sfondo neutro che isolano i personaggi, ciascuno “prigioniero” della sua funzione narrativa, ma anche nel suo universo morale, che Dreyer in qualche modo anticipa già il volto della Falconetti ne La Passion de Jeanne d’Arc (La passione di Giovanna d’Arco, 1928). Dreyer, oltre ai piani ravvicinati sui volti, si avvale ancora spesso dei mascherini per isolarli, e soprattutto non compie ancora il passo del primissimo piano, magari obliquo e “tagliente” del suo capolavoro del 1928. Si tratta dunque di un procedimento ancora acerbo ma, almeno nel caso del Satana di Helge Nissen, siamo già sulla strada di quell’immagine-affezione tipicamente dreyeriana di cui parla Deleuze che, più è spazialmente chiusa e circoscritta, «più essa è atta a aprirsi su una quarta dimensione che è il tempo, e su una quinta dimensione che è lo Spirito, la decisione spirituale di Giovanna o di Gertrud»[5].

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Il cineasta si avvale poi della profondità di campo, suddividendo l’azione tra primo piano e sfondo, conferendo così maggiore tridimensionalità alle scene; ricorre a immagini dall’alto, come quando i nobili Chambord osservano terrorizzati dalla finestra del loro palazzo il tribunale itinerante del popolo che approda nel loro cortile recando con sé una ghigliottina; lente carrellate o panoramiche svelano i visi degli apostoli dell’ultima cena o seguono i soldati che si addentrano nel bosco degli ulivi in cerca di Gesù, recando, alcuni di loro, dei bracieri che spargono fumo rendendo ancora più densa e vivida l’immagine. Fa uso di chiaroscuri e giochi di luce desunti principalmente dai film di Christensen. Una sequenza del quarto episodio mostra il volto in primo piano di Siri illuminato dal basso; successivamente, la donna scorge l’ombra della cornice della finestra proiettata sul pavimento in cui si disegna anche la sagoma di Rautamiemi, che da fuori, la sta spiando, per poi irrompere in casa: scena che sembra ripresa quasi alla lettera da una analoga in Hævnens Nat (Blind Justice, 1916), che forse ha anche ispirato, in un momento diverso e precedente, il lento carrello che, dal primo piano di Siri, indietreggia fino ad allargare il campo e mostrare per intero la cucina in cui la donna si sta muovendo.

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Il modello griffithiano spinge infine Dreyer a usare il montaggio alternato per creare tensione e accelerare il ritmo, che per buona parte del quarto episodio, caso quasi unico nella sua filmografia, diviene fortemente sincopato, con inquadrature della durata di soli tre secondi, fra corse di uomini a cavallo nei boschi innevati, inseguimenti, salvataggi, minacce di morte ed esecuzioni sventate all’ultimo secondo. Per contrasto, l’episodio immediatamente precedente invece, quello sulla Rivoluzione francese, che è anche il più lungo, soffre di una struttura anodina, che affianca alla vicenda principale dei conti di Chambord e del loro servo Joseph, la storia parallela di Maria Antonietta, che è poi anche, come dicevamo prima, la più controversa e meno risolta di tutto il film.Il primo episodio del film, che descrive gli ultimi momenti della vita di Cristo, costituisce un primo abbozzo di quello che era il grande progetto di Dreyer: il film Vita di Gesù, alla cui sceneggiatura lavorò per decenni, ultimandola, ma che, per diversi motivi, non riuscì mai a filmare. La sceneggiatura è stata poi pubblicata e si trova anche tradotta in italiano.

Clara Wieth Pontoppidan, che interpreta Siri, era stata una delle primissime vamp del cinema, apparendo in un film di August Blom dal titolo Vampyrdanserinden (La danza del vampiro, 1912). Dreyer la dirigerà ancora una volta in Der var engang (C’era una volta, 1922), mentre ritroverà Johannes Meyer, qui nel ruolo del monaco Fernandez, al suo ritorno in Danimarca per girare Du skal ære din hustru (L’angelo del focolare, 1925).

Vittorio Renzi

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Blade af Satans Bog (Pagine dal libro di Satana)

[Leaves from Satan’s Book]

Danimarca, 1919

regia: Carl Theodor Dreyer

soggetto: sceneggiatura di Edgar Høyer (1913)

sceneggiatura: Carl Theodor Dreyer (adattamento)

fotografia: George Schnéevoigt

scenografia e montaggio: C. Th. Dreyer, Axel Bruun, Jens G. Lind

musica: Philip Carli (2004)

produzione: Nordisk Film

cast: Helge Nissen (Satana/Inquisitore/Erneste/Ivan), Halvard Hoff (Cristo), Jacob Texiere (Giuda), Nalle Halden (maggiordomo), Tenna Frederiksen Kraft (Maria Antonietta), Elith Pio (Joseph), Vil Petersen (Fouquier-Tinville), Clara Wieth Pontoppidan (Siri), Hallander Hellemann (Don Gomez de Castro), Ebon Strandin (Isabel de Castro), Johannes Meyer (Don Fernandez), Erling Hansson (John), Hugo Bruun (conte Manuel), Jeanne Tramcourt (Lady Genevieve de Chambord), Viggo Wiehle (conte di Chambord), Emma Wiehe (contessa di Chambord), Emile Helsengreen (commissario del popolo), Sven Scholander (Michonnet), Viggo Lindström (Pitou), Carl Hillebrandt (Rautamiemi), Cristian Nielsen (caporale Matti), Karina Bell (Naimi), Carlo Wieth (Paavo)

lunghezza: 9 rulli, 3,091 metri

durata: 150′ (a 18 fps)

première: Norvegia, 17 novembre 1920

data di uscita: Danimarca, 24 gennaio 1921

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[1] Casper Tybjerg, Blade af Satans Bog, in Giornate del cinema muto 2006, Pordenone, 2006.
[2] Lotte H. Eisner, Murnau. Vita e opere di un genio del cinema tedesco, Padova, ALET, 2010, p. 119.
[3] Maurice Drouzy, Carl Th. Dreyer nato Nilsson, Milano, Ubulibri, 1990, pp 126-7.
[4] Auro Bernardi, Carl Theodor Dreyer. Il verbo, la legge, la libertà, Genova, Le Mani, 2003, pp. 98-100.
[5] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 31.

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