A Fool There Was (1915)

Frank Powell

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SINOSSI: John Schuyler è un uomo agiato, padre di famiglia amoroso e devoto, ma, quando viene inviato in Inghilterra in missione diplomatica, incontra sulla nave una donna misteriosa e seducente che abbandona i suoi amanti dopo aver distrutto le loro vite. Costei, che ha raccolto informazioni su di lui, si è imbarcata appositamente per sedurlo. E ci riesce. Anziché rimanere un solo mese a Londra, Schuyler trascorre mesi interi con lei in Italia, abbandonando la famiglia e rovinandosi infine la carriera, nonostante gli sforzi della moglie, della sorella di lei e del suo più caro amico, Tom, per salvarlo dalle grinfie della «vampira». Tornato in America, morirà solo, distrutto dall’alcool e abbandonato dalla sua crudele amante.

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Film disponibile in streaming
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Gli Anni Dieci furono gli anni in cui le donne si affermarono sul grande schermo. Fino a quel momento, salvo rare eccezioni erano state figure di sfondo, e i nomi delle attrici raramente comparivano nei titoli di testa (come anche quelli dei registi, del resto). Le cose cambiarono quando il cinema iniziò a rispecchiare i mutamenti avvenuti nella società, non solo statunitense. Ecco dunque fioccare un lungo ciclo di fortunati serial, nei quali, al centro dell’azione, non vi era più un maschio aitante, ma una donna spregiudicata e intraprendente, dotata di senso dell’avventura. La più celebre fu la Pauline di Pearl White. In parallelo, vi fu l’ascesa irrefrenabile della “fidanzatina d’America”, Mary Pickford, l’eterna bambina, con una galleria di personaggi ancora debitori della narrativa ottocentesca e dickensiana, ravvivati però dalla sua vivacità e simpatia: del resto, la sua fama e le sue capacità imprenditoriali furono tali da costringere l’industria del cinema a riconsiderare il ruolo (anche contrattuale) della donna.

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Per quanto riguarda invece la figura della donna legata alla sessualità e alla trasgressione, il cinema statunitense – come certi mariti borghesi e benpensanti – non guardava in casa propria, ma all’estero: alla Danimarca, ad esempio, da cui era arrivata l’eco del nome di Asta Nielsen e del suo film di debutto, Afgrunden (L’abisso, 1910), grondante erotismo, ma anche realismo e modernità nel mettere in primo piano i desideri e la vita sessuale di una donna. E guardava all’Italia e alle sue dive dissolute, peccatrici, disposte a tutto per la passione. Oppure, quando decideva di pescare in casa, il cinema americano lo faceva truccando le carte, creando figure mitiche ed esotiche sensazionali, delle “attrazioni”, come avveniva pochi lustri prima quando le sale cinematografiche erano ancora affini ai baracconi da fiera. La principale di queste attrazioni esotiche fu Theda Bara.

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Alla conferenza stampa di A Fool There Was, gli agenti della casa di produzione raccontarono alla stampa del fatale incontro di una bellissima attrice francese in vacanza in Egitto, Theda de Lyse, e di uno scultore italiano smarritosi nel deserto, Giuseppe Bara. Theda Bara era stata concepita laggiù, in Arabia (da cui l’anagramma del suo nome d’arte: “arab death”), in un’oasi dipinta come un Eden, nei pressi dalla Sfinge, all’ombra delle piramidi. Ed era poi cresciuta a Parigi, dov’era diventata attrice proprio come la madre: da qui lo strano accento con cui si rivolgeva ai giornalisti (accento posticcio, ovviamente). Dopo questa introduzione, Theda Bara, “la donna più perversa del mondo”, fu presentata in carne e ossa alla stampa: i lunghi capelli neri, i grandi occhi vagamente assonnati evidenziati da un trucco pesante, l’abito di velluto, ricoperta di veli e di pelli di tigre. Da quel momento in poi, fu questa l’immagine che il grande pubblico ebbe di lei: un essere quasi mitologico, una donna di un altro mondo e di un altro tempo, sensuale, voluttuosa, crudele. Ma chi era veramente? Oggi non è semplicissimo rispondere a questa domanda:

Theda Bara fu una star in un periodo in cui fatti e fantasie circa le personalità dello spettacolo venivano mescolati e confusi come d’abitudine dagli agenti e dalla stampa. Nel momento in cui gli storici se ne interessarono, la pista era già fredda. Theda Bara e i suoi più stretti collaboratori non erano più qui per separare gli eventi reali dalle invenzioni.[1]

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Il merito della sua scoperta viene spesso attribuito al produttore ungherese William Fox, l’ex imprenditore dell’industria tessile che nel 1915 fondò a New York quello che sarà poi uno dei più importanti Studio di Hollywood; in realtà era stato Frank Powell, l’anno precedente, quando lavorava per la succursale americana della Pathé, a notare questa donna (aveva già quasi trent’anni) americanissima, di Cincinnati, Ohio, e a farla esordire in The Stain (1914). Qui l’attrice ricopriva un ruolo secondario ed era accreditata ancora con il suo vero nome: Theodosia Goodman. Il film, creduto perduto, è stato ritrovato nel 1990, ma la quasi totalità dei film che, nell’arco di pochi anni, Theda Bara interpretò è andata perduta: di oltre quaranta titoli ne rimangono solo un pugno, nessuno dei quali, eccezion fatta per A Fool There Was, è rappresentativo del suo personaggio. Oltre ai due titoli citati, sono ad oggi visibili East Lynne (1916), The Unchastened Woman (1925) e due cortometraggi comici realizzati con Laurel & Hardy agli inizi della loro carriera: Madame Mystery (1926) e 45 Minutes from Hollywood (1926). Mancano all’appello tutti i suoi ruoli chiave: Cleopatra, Salomè, Carmen, e poi l’Esmeralda di Victor Hugo, la Madame DuBarry di Dumas padre, la Margherita Gautier di Dumas figlio, la Giulietta di Shakespeare, la moglie fedifraga di Sonata a Kreutzer di Tolstoj, e persino Gioconda, nella riduzione dell’omonima tragedia di Gabriele D’Annunzio dal titolo The Devil’s Daughter (1915), anche questo diretto da Powell.

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Anche della sua vita si sa poco. E questo perché, a differenza di molti altri personaggi della Hollywood dell’epoca, il suo nome non venne mai coinvolto in scandali o gossip relativi a relazioni più o meno clandestine o all’abuso di alcool o stupefacenti. Theodosia, a differenza del suo alter ego, visse una vita apparentemente molto tranquilla: si sposò una sola volta, nel 1921, verso la fine della sua carriera, con Charles Brabin, un regista della Edison Company, e quando morì, all’età di sessantanove anni, era ancora sposata e ricca, ma senza figli che potessero un giorno rilasciare qualche intervista. Di conseguenza, quello che oggi ci rimane di lei è unicamente l’immagine pubblica della vamp con cui fu lanciata dalla Fox e che possiamo ritrovare nelle numerosissime fotografie e cartoline dell’epoca. Un fascino oggi ancora vivo, forse proprio perché, nella sua radicale antimodernità, incarna quell’archetipo femminile, perfetto binomio di eros e thanatos, atto a suscitare al contempo desiderio e timore. Paradossalmente, di lì a pochi anni, la sua eredità sarà raccolta, anziché da un’altra donna, da un uomo, anche lui esotico in quanto italiano: Rodolfo Valentino.

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Il termine vamp discende da “vampiro”, creatura che apparve per la prima volta nel romanzo omonimo di John William Polidori (1816) e fu reso celebre dall’irlandese Bram Stoker nel suo Dracula (1897). Ma ancora prima, fu declinato al femminile dal suo compatriota Sheridan Le Fanu nel racconto Carmilla (1872), che a sua volta riecheggia un poema incompiuto di Coleridge, Chrystabelle (1797-1800). Prima che uscisse Nosferatu (1922) di Murnau, che riportò il mito del vampiro alle sue origini letterarie, il termine vamp divenne sinonimo di femme fatale: sensuale, erotica, la tipica mangia-uomini e rovina-famiglie, talmente irresistibile da far credere di possedere dei poteri soprannaturali e maligni. Ne fu un primo esempio un film della Kalem, tuttora esistente, intitolato The Vampire (Robert G. Vignola, 1913), ispirato al poemetto omonimo di Rudyard Kipling (1897). La stessa fonte è alla base del lavoro teatrale di Porter Emerson Brown, A Fool There Was, di cui il film di Powell è la trasposizione cinematografica. I versi di Kipling compaiono in diversi intertitoli come commento moraleggiante della vicenda.

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Il personaggio di Theda Bara, introdotto da una didascalia come “the vampire”, viene presentato con un’immagine di lei a mezza figura, in un abito dalla foggia orientaleggiante mentre, sorridendo, schiaccia tra le dita di una mano i petali di un fiore. Trattandosi di uno dei pochi film superstiti di Theda Bara, può risultare deludente il fatto che non ci siano dei veri primi piani, ma il fatto è che all’epoca si usavano ancora di rado. Al posto del suo viso, in primo piano abbiamo un dettaglio del suo corpo, nella scena del suo primo incontro con il milionario John Schuyler sulla nave: la donna lascia cadere il fiore che tiene in mano e, mentre l’uomo si china per raccoglierlo, lei solleva leggermente la lunga gonna scoprendo una caviglia in un chiaro gesto allusivo di seduzione.

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Poco prima, quello stesso fiore, lo aveva posto sorridendo davanti alla pistola con cui un giovane disperato la stava minacciando, finendo poi per sparare a se stesso. Se nelle scene in esterni Theda compare sempre in abiti eccentrici ma abbottonati fin sotto il mento, negli interni la troviamo invece coi capelli sciolti, magari adagiata mollemente su un sofà, in camicia da notte, oppure in piedi, con le spalline che le calano pericolosamente da una spalla, in presenza di uno dei suoi amanti. Sopperisce all’assenza di primi piani e al montaggio convenzionale un uso pregevole dell’illuminazione, che procede spesso per contrasti e controluce, sul modello danese, e che trova il culmine nella scena in cui Schuyler entra barcollando nel suo appartamento immerso nel buio e strappa le tende da una finestra, lasciando entrare dei fasci di luce che illuminano il suo viso ghignante e instupidito dall’alcool: un effetto molto simile alla cosiddetta “illuminazione Lasky” resa celebre, in quello stesso anno, dal film di Cecil B. DeMille The Cheat (I prevaricatori, 1915). Più tardi, Schuyler giace riverso su una rampa di scale, immersa nell’oscurità, e solo il suo viso deformato dal dolore, la mano tesa ad artiglio a ghermire l’aria oltre la ringhiera, e la ringhiera stessa sono colpiti dalla luce, mentre quel relitto umano rivive sia i dolci ricordi della sua vita famigliare, sia l’inascoltato monito del suicidio del giovane sulla nave.

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Vi sono poi un paio di scene che riprendono il traffico di automobili e carrozze per le strade della città. Nella seconda, l’automobile su cui viaggiano Schuyler e la vamp viene affiancata da quella della moglie di lui, e la figlia, accorgendosi del padre (per il cui ritorno a casa non fa che pregare), inizia a chiamarlo. Questi finge di non vederla, voltandosi dall’altra parte e calcandosi il cappello sulla testa per la vergogna, mentre la vamp le saluta sfacciatamente con la mano. Tutto questo avviene in movimento, con una camera-car all’indietro e l’angolazione della ripresa leggermente dall’alto. Anche il realismo di queste scene in esterni richiama ancora una volta il cinema danese e, nella fattispecie, il già citato Afgrunden.

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Senza contare che, tre anni prima, era uscito in Danimarca Vampyrdanserinden (La danza del vampiro, 1912), di August Blom, con Clara Wieth (pseudonimo di Clara Pontoppidan). Non sono sicuro che il film sia stato distribuito negli Stati Uniti, ma è molto probabile, date le forti analogie con il summenzionato film della Kalem del 1913. Anche qui abbiamo una vamp che deliberatamente seduce, consuma e poi abbandona le sue vittime, con esiti ovviamente tragici. I due finali sono molto simili. Il film danese si conclude sul palcoscenico di un teatro, uno spettacolo nello spettacolo: la donna carnefice e il giovane sua vittima sono entrambi attori, ma il giovane che giace riverso in terra, mentre la donna volteggia e si china su di lui come un vampiro, è morto davvero, dopo essersi avvelenato. Nel film americano, invece, Schuyler giace morto nel suo appartamento, a causa del delirium tremens. Improvvisamente ricompare la sua crudele amante, che gli getta addosso petali di fiori, chinandosi poi su di lui per soffiarglieli via dal viso. Con un sorriso soddisfatto sulle labbra.

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Il film fu uno dei più grandi successi dell’anno, nonostante le critiche perlopiù negative, anche se la maggior parte dei recensori, oltre ad apprezzare la mancanza del solito happy ending, valutò più che positivamente la performance dell’attrice protagonista, che all’improvviso divenne una delle maggiori celebrità della nascente Hollywood[2]. Frank Powell, proveniente dai teatri di Broadway, era stato attore e sceneggiatore e aveva esordito come regista assieme a Griffith, lavorando per diversi anni alla Biograph, per poi passare alla Pathé e infine alla Fox. La sua carriera, terminata agli inizi degli anni Venti, conta un gran numero di film, eppure la sua fama rimane legata a quest’unico film. A Fool There Was fu poi rieditato poi nel 1918 e accorciato di un rullo.

Vittorio Renzi

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A Fool There Was

(a.k.a. La vampira)

Usa, 1915

regia: Frank Powell

soggetto: lavoro teatrale di Porter Emerson Brown
[dalla poesia The Vampire di Rudyard Kipling].

sceneggiatura: Roy L. McCardell.

fotografia: Gene Santoreilli e George Schneiderman.

costumi: George ‘Neje’ Hopkins.

musica: Phil Carli (1981).

produzione: Frank Powell, William Fox, per Fox Film Corporation

cast: Theda Bara (la “vampira”), Edward José (John Schuyler), Mabel Frenyear (Kate Schuyler), Runa Hodges (la figlia), May Allison (sorella di Kate), Clifford Bruce (Tom), Victor Benoit (Reginal Parmalee, prima vittima), Frank Powell (dottore), Minna Gale (sua moglie), Creighton Hale

lunghezza: 6 rulli; 5 rulli (1918)

durata: 67’

data di uscita: 12 gennaio 1915

Theda Bara

Theda Bara in una foto pubblicitaria del film

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[1] Robert S. Birchard, prefazione a: Eve Golden, Vamp. The Rise and fall of Theda Bara, Vestal Press, 1996, p. IX (traduzione mia).
[2] E. Golden, op.cit., p. 41.

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