Downhill (Il declino, 1927)

Alfred Hitchcock

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SINOSSI: Roddy, primogenito di una famiglia benestante, viene accusato da una commessa capricciosa, Mabel, che aveva gentilmente rifiutato, di averla importunata, quando invece era stato il suo amico Tim a intrattenersi con lei. Ma dato che Tim non ha il coraggio di dire la verità e Roddy non vuole che l’amico venga punito, accetta di essere espulso dal college. Il padre, infuriato, lo caccia via di casa e così Roddy decide di andare a Parigi. Qui inizia a lavorare in una compagnia teatrale e si innamora dell’attricetta Julia. Quando riceve una cospicua eredità da parte di una nonna deceduta, Mabel, d’accordo col suo amante e complice Archie, decide di sposare l’ingenuo Roddy al solo scopo di spennarlo. La sconsiderata moglie lo riduce presto sul lastrico e Roddy cade preda dell’alcolismo. Salvato in extremis da alcuni marinai di Marsiglia, viene ricondotto a Londra, dove, pur in preda al delirio, trova il coraggio e la forza di ripresentarsi a casa. Il padre, che nel frattempo ha saputo la verità e lo stava cercando ovunque da anni, lo riaccoglie fra le sue braccia.

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Reduce dal suo primo grande successo, che lui stesso considerava “il primo vero film di Hitchcock”, ovvero The Lodger (Il pensionante, 1926), l’anno successivo il cineasta di Londra girò ben tre lungometraggi: Downhill e Easy Virtue (Fragile virtù), per la Gainsborough, e The Ring (Vinci per me!, 1927), una storia d’amore e pugilato, per la British International Pictures. Downhill è un classico melodramma nel quale però, una volta tanto, la vittima innocente, perseguitata dai pregiudizi di chi dovrebbe amarla e sostenerla e sfruttata da gente senza scrupoli, non è una donna, bensì un uomo. E questo fa di Downhill, almeno da questo punto di vista, un film molto hitchcockiano, pur non trattandosi di un thriller.

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Un segno di continuità rispetto a The Lodger è rappresentato dall’utilizzo dello stesso attore, il gallese Ivor Novello, che aveva scritto, insieme a Constance Collier, il lavoro teatrale da cui è tratto il film. Novello mostra anche qui di essere un attore molto bravo, sensibile ed espressivo, dotato di quel candore – ma anche di ambiguità, come aveva dimostrato nel film precedente – che ne fa un perfetto homo hitchcockianus: una vittima, un perseguitato, un uomo comune che si ritrova ad essere quasi stritolato in un ingranaggio, come i vari successivi personaggi interpretati da James Stewart o Cary Grant nei classici degli anni Quaranta e Cinquanta. Tuttavia, in questo caso, lo spettatore sa sin dall’inizio che il personaggio che Novello interpreta, Roddy, è innocente. Così come lo sanno la ragazza che lo incastra e l’amico che vigliaccamente lascia che Roddy si addossi una sua colpa. Ma per il resto del mondo Roddy è colpevole. Il suo declino, dunque (sociale, economico e infine psicologico, fino quasi alla follia), prende l’avvio, paradossalmente, come conseguenza di un atto profondamente etico: la promessa di non tradire il suo amico Tim. Ma l’etica è una merce scadente in un mondo in cui è l’apparenza a farla da padrone, ed è questo che Roddy imparerà a sue spese.

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Fortunatamente Hitchcock detestava gli sdilinquimenti, le lacrime gratuite e le mollezze varie del melodramma. Sicché, non appena può, tratta il film come fosse un thriller, accanendosi sul suo eroe con gusto sadico. Pensiamo ad esempio agli sguardi dardeggianti che gli rivolge l’infima Mabel mentre gli urla le sue false accuse al cospetto del rettore del college. Sotto quelle coltellate a tradimento, Roddy vacilla incredulo, ma il colpo mortale gli viene sferrato poco dopo da Tim col suo silenzio: lo sguardo muto supplichevole di Roddy, che spera che egli si prenda la sua responsabilità e lo scagioni davanti al rettore, è qualcosa di straziante. E quel senso gelido di solitudine e abbandono che lo pervade viene enfatizzato dalla regia: nel momento in cui il ragazzo esce dall’ufficio del rettore e prende a camminare lentamente per il corridoio, è sovrastato dal soffitto a volta gotica; e quando poi attraversa poi il cortile deserto del college, è inquadrato in campo lungo dall’alto. La successiva sfuriata del padre e la conseguente cacciata di casa aggiungono dolore e solitudine a un cuore già devastato.

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Hitchcock poi, come sempre fa, adotta sin dall’inizio il punto di vista esclusivo del personaggio principale. La realtà dei fatti, di per sé, non è di nessun interesse. Ciò che è interessante sono i sentimenti, le emozioni e dunque la visione che un personaggio ha di quei fatti, che diviene la stessa visione dello spettatore, secondo un processo di identificazione. Tornando ancora alla scena nell’ufficio del rettore, è dunque attraverso il filtro dell’ansia e dell’angoscia crescenti di Roddy che noi vediamo e percepiamo quella scena, identificandoci in lui. In altri momenti, il cineasta si avvale invece del punto di vista di altri personaggi, ma lo fa per creare l’effetto suspense.

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Nella scena successiva nella casa paterna, Roddy si sta intrattenendo con un amico di suo padre, giunto in visita e il padre si allontana da loro venendo in primo piano. Da lì osserva la data sul calendario e i segni in esso presenti, si accorge che il figlio è rientrato a casa prima del previsto e così si insospettisce sulle vere ragioni che lo hanno portato a lasciare il college con tanto anticipo. Da quel momento, noi conosciamo un’informazione in più rispetto a Roddy (sappiamo cioè che suo padre ha intuito qualcosa), e dunque fremiamo ancora di più per lui, presagendo già quanto sta per accadere. Nel momento in cui il ragazzo esce di casa, Hithcock colloca l’attore su una scala mobile per esprimere il senso di vertigine del suo personaggio e significare visivamente l’inizio della sua discesa.

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Dunque per Hitchcock il declino, così come il sospetto, il dubbio o la vertigine, sono questioni essenzialmente visive, da esprimere mediante non solo la fisionomia dei personaggi, ma anche di tutto ciò che li circonda. Ed è proprio sotto questo particolare aspetto che si può ravvisare nel suo cinema la lezione dell’espressionismo tedesco: l’ambiente esterno appare deformato, inclinato verso l’interiorità del personaggio e in risposta alle sue emozioni e percezioni. Del resto, prima di diventare regista, Hitchcock aveva lavorato all’UFA di Berlino per diversi mesi, nei primi anni Venti, proprio mentre Murnau stava girando il suo rivoluzionario Der Letzte Mann (L’ultima risata, 1924). Nonostante questo fosse per Hitchcock un soggetto poco attraente, un “film alimentare”, come diremmo oggi, Downhill è tra quei film muti in cui egli ha sperimentato di più la forza e l’unicità del proprio linguaggio cinematografico, rivelando un’inventiva spesso sorprendente, anche perché meno attesa rispetto a un film come The Lodger: «Downhill fu per lui, soprattutto, l’occasione di curare fino alla perfezione tre sequenze sfoggiando le sue doti di creatore di atmosfere, di osservatore satirico e di virtuoso della macchina da presa»[1].

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Naturalmente la parte da leone la fanno le visioni e le soggettive dell’ultimo rullo, verso la fine del film, di cui parleremo più avanti. Ma già da prima Hitchcock si diverte a cambiare le carte in tavola, a confondere le acque, a giocare con la realtà e la finzione. Dopo aver lasciato Roddy che esce dalla casa paterna per non tornarvi più, se non dopo molti anni, lo ritroviamo in un caffè affollato, in piedi e in primo piano, vestito in maniera elegante. Immaginiamo sia lì come cliente. Poi l’inquadratura si allarga e ci rendiamo conto che è lì in veste di cameriere, fermo presso un tavolo in attesa dell’ordinazione di due clienti, una coppia. A un certo punto i due si alzano e si allontanano sulla destra. La donna ha lasciato qualcosa di prezioso sul tavolo, un portasigarette. Roddy, dopo essersi guardato intorno nervosamente, lo raccoglie e se lo mette in tasca. Poi si dirige anche lui verso destra e… scopriamo che si trova sul palcoscenico di un teatro, dove la coppia di prima è ora impegnata a cantare una canzone e tutti gli altri, clienti e camerieri, si mettono a ballare, compreso Roddy. Che dunque è diventato, da ragazzo ricco e privilegiato, un attore di secondo piano, un figurante.

Nella scena successiva, quando il giovane si reca nel camerino di Julia per riportarle il portasigarette, ecco un altro divertissement. Julia è seduta alla sua toletta e dà le spalle alla porta. Nel momento sente entrare Roddy, la ragazza, anziché voltarsi, rovescia la testa all’indietro. Il controcampo su Roddy è un’immagine capovolta, corrispondente alla soggettiva dello sguardo di Julia. La trovata ci sorprende per la sua gratuità. Certo, potremmo anche conferirle un facile significato metaforico (il destino che sta mettendo Roddy sempre più sottosopra, ad esempio), ma non sarebbe inverosimile ipotizzare che Hitchcock quel giorno sul set si stesse terribilmente annoiando e avesse voglia di un diversivo.

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Durante questa medesima sequenza, abbiamo un esempio ulteriore di quanto il cineasta, sin da allora, fosse già proiettato verso il cinema sonoro. Dovendo supplire con le immagini, in qualche modo, egli fa di tutto per traslare i suoni sul piano visivo. Lo aveva fatto in The Lodger, nella scena in cui, per rendere udibili i passi nervosi di Novello sul pavimento della stanza ai proprietari al piano sottostante, aveva utilizzato una lastra di vetro su cui far camminare l’attore. Qui, invece, per segnalare la presenza molesta di Archie che, forse per gelosia, disturba l’intimità fra Julia e Roddy, mostra dapprima una serie di stacchi sull’uomo che starnutisce interrompendo la conversazione amorosa dei due, poi lo spruzzatore di soda, che egli preme a intervalli regolari. Una gag quest’ultima che suggerisce, volendo, anche una certa impertinenza tipicamente hitchcockiana.

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Successivamente Roddy torna da Julia, in quello stesso camerino, vestito da gran signore, e le racconta di aver ricevuto una ricca eredità da parte di una nonna deceduta. Stavolta Archie non li interrompe più. Sprofondato nella solita poltrona, di spalle alla porta, di lui vediamo solo il fumo che sale dal suo sigaro verso il soffitto. Un’immagine vagamente minacciosa, che visualizza un’atmosfera di silenzioso e clandestino complotto: nel nascondersi alla vista di Roddy, Archie nasconde, assieme alla sua persona, anche le sue losche intenzioni, che sono poi le stesse della sua complice, Julia: spennare quel grasso e ingenuo pollo capitato per pura fortuna tra le loro mani. Ed è proprio quello che faranno dopo che Roddy commetterà il grave errore di sposare quella donna meschina e, non contento, di intestarle anche il suo nuovo e lussuoso appartamento.

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Tuttavia Hitchcock non è solo il regista delle trovate e delle gag, ma anche un finissimo compositore di immagini. Se ne può vedere un esempio nella scena immediatamente successiva, nella quale Roddy e Julia sono seduti dentro un taxi e ripresi dall’esterno: sui loro volti compaiono arabeschi screziati per via della pioggia battente che riga i finestrini e del gioco delle luci dei lampioni che vi si rifrange. Ma anche la scena della seduzione a tre fra Mabel, Tim e Roddy, nella prima parte del film, ambientata nel retrobottega del negozio dove lavora la ragazza: è tutto un andirivieni tra due stanze, separate da una tenda si perline che, nei primi piani, disegna strisce di ombra e di luce sui loro corpi e sui loro volti mentre ballano (alludendo ovviamente alla possibilità, di intrattenersi nell’altra stanza, quella che non si vede mai e nella quale, presumibilmente, vi è un letto).

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Più avanti, invece, Roddy si ritrova a viaggiare da solo al piano superiore di un autobus, senza copertura e quindi viene completamente infradiciato dalla pioggia. Quando giunge al suo palazzo, sale le scale che lo porteranno al suo piccolo e squallido appartamento e la sua ombra si proietta sulle pareti, mentre un gatto nero (un’ovvia incarnazione della malasorte che lo perseguita) lo segue. Dopo che Roddy ha scoperto che sua moglie e Archie sono amanti, e che oltre a non avere più soldi deve anche lasciare la sua casa, sale sull’ascensore: una lunga inquadratura, che segue il dettaglio sul pulsante “down”, lo accompagna mentre l’ascensore scende, come se non dovesse più arrivare in fondo, ma continuare a scendere all’infinito.

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Ma l’apice di tutto il film – nonché, probabilmente, uno dei momenti migliori dell’intero periodo muto di Hitchcock – è l’ultima parte, che comprende la sequenza del music hall e, a seguire, il delirio di Roddy. Nella grande sala del music hall, dove il ragazzo è finito a lavorare come accompagnatore di ricche dame sole e annoiate in cerca di avventure, regnano la penombra e il fumo. Roddy è così avvilito che, seduto a un tavolo, prende a raccontare la sua triste storia a una di queste dame. Gli occhi di lei lo frugano avidamente, mentre lui parla, e dopo un po’ capiamo che quella donna lo ascolta, sì, ma solo perché è invaghita di lui e non aspetta altro che un suo cenno di cedimento. E lui, non avendo più alternative, sta quasi per cedere. Senonché, proprio in quel momento, un cliente del locale si sente male e vengono aperte le pesanti tende di una finestra. La luce dell’alba inonda la sala e rivela una donna vecchia e brutta, molto più di quanto non sembrasse nella penombra. A Roddy è come se si fosse fermato il cuore, la guarda come se guardasse il proprio destino. Si alza e si volta dall’altra parte. La donna lo fissa ancora per un po’, poi, rassegnata, si alza e se ne va. E’ una scena di crudele realismo psicologico come se ne vedono soltanto nei kammerspiel tedeschi coevi di Pabst.

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La tappa successiva di Roddy, oramai alcolizzato, è una bettola di Marsiglia. Qui Hitchcock si concede un’inquadratura propriamente espressionista della stanza semibuia dove Roddy alberga: dalla finestra su una parete inclinata entra un fascio di luce che ne proietta il telaio sul muro, sopra il letto, come una croce. E, per finire, la soggettiva allucinata di Roddy che scende le scale, che diventano poi i gradini della passerella della nave, senza soluzione di continuità, cioè senza segnalare una cesura temporale. Racconta Hitchcock:

All’inizio della sua allucinazione, si trovava in una sala da ballo; non c’era dissolvenza, solo uno stacco; s’avvicinava al muro e s’arrampicava su una cuccetta. Allora, nei film, i sogni erano resi mediante dissolvenze e l’immagine era sempre sfumata. Nonostante fosse difficile mi sono sforzato di integrare il sogno nella realtà, e con un procedimento efficace.[2]

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Lì, nella sua cabina, ancora il delirio: Roddy rivede il volto severo del padre e poi le figure delle donne che lo hanno sfruttato e che ora, sedute tutte insieme a un tavolo, lo deridono. Anche dopo l’approdo e la fuga dalla nave, le visioni continuano (tramite soprattutto l’uso delle sovraesposizioni), nel porto e per le vie della città, ma svaniscono quando il giovane giunge alla casa paterna, dove avviene la riconciliazione, in un finale sbrigativo e poco coerente con l’ultima, cupissima parte del film.

Il film successivo, Easy Virtue, fu un’esperienza decisamente peggiore: Downhill si rivelò un fiasco e deluse anche i critici che avevano promosso a pieni voti The Lodger. Sicché, nel film successivo, dal soggetto ancora più piatto e di scarso interesse, Hitchcock non ebbe più la libertà di sperimentare sul piano formale, come aveva fatto qui.  E fu probabilmente anche questo a decretare la fine della sua collaborazione con la Gainsborough.

Vittorio Renzi

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Downhill (Il declino)

UK, 1927

regia: Alfred Hithcock

soggetto: lavoro teatrale omonimo di David Lestrange
[Ivor Novello e Constance Collier]

sceneggiatura: Eliot Stannard.

fotografia: Claude L. McDonnell.

scenografia: Bertram Evans.

montaggio: Ivor Montagu, Lionel Rich.

produzione: Michael Balcon e C.M. Woolf, per Gainsborough.

cast: Ivor Novello (Roddy Berwick), Isabel Jeans (Julia Fotheringale),
Ben Webster (Dr. Dowson), Norman McKinnel (Sir Thomas Berwick),
Robert Irvine (Tim Wakeley), Jerrold Robertshaw (rev. Henry Wakeley),
Sybil Rhoda (Sybil Wakeley), Annette Benson (Mabel),
Lillian Braithwaite (Lady Berwick), Ian Hunter (Archie),
Hannah Jones (costumista), Barbara Gott (Mme Michet),
Violet Farebrother (poetessa), Alf Goddard (marinaio), J. Nelson

lunghezza: 9 rulli, 8635 piedi

durata: 105’

data di uscita: 24 ottobre 1927

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[1] Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock, Venezia, Marsilio, 1996, p. 32.
[2] François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Parma, Pratiche  1977, p. 45.

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