Friedrich W. Murnau
Nel 1921, Albin Grau fondò, insieme a Enrico Dieckmann, la Prana-Film. Grau, artista e scenografo, era un appassionato di occultismo e da tempo meditava di realizzare una serie di film che avessero come tema l’occulto in tutte le sue manifestazioni. Fra queste, il vampirismo. Il primo e anche l’unico film realizzato dalla Prana-Film, fu Nosferatu: all’indomani della sua uscita, la vedova di Bram Stoker portò in tribunale la casa di produzione per il mancato pagamento dei diritti riguardanti Dracula (1897), a cui il film, scritto da Henrik Galeen, si era chiaramente ispirato. Il fatto di aver cambiato il titolo e il nome dei personaggi non bastò evidentemente a sviare i sospetti. La Prana-Film finì così in bancarotta e fu decretata la distruzione di tutte le copie del film, alcune delle quali fortunatamente sopravvissero. Successivamente, Grau si unì alla Fraternitas Saturni, una loggia fondata dal 1926 che seguiva le idee di Alesteir Crowley e che fu dichiarata fuorilegge dieci anni più tardi dal regime nazista. Secondo alcune fonti Grau morì in un campo di concentramento nel 1942; secondo altre riparò in Svizzera, per poi tornare in Germania dove morì nel 1971.
Albin Grau, oltre ad aver avuto l’idea alla base della realizzazione di Nosferatu, si occupò delle scenografie, dei costumi e realizzò gli storyboard per le riprese. Potrebbe dunque essere stato lui a apportare alcuni elementi occultistici, come la designazione di “paracelsiano” riservata al professor Bulwer, in riferimento al noto medico, botanico, alchimista e mago svizzero; o l’astruso alfabeto (secondo alcuni sarebbe quello Enochiano, ovvero la lingua degli angeli inventata da John Dee nel XVI secolo) con cui è redatta la misteriosa missiva che il Conte Orlok invia all’agente immobiliare Knock e, successivamente, quella che lo stesso Orlok legge davanti a Hutter.
I primi minuti di Nosferatu sono immersi nella luce e nell’idillio dei due giovani innamorati, Hutter (Gustav Von Wangenheim) ed Ellen (Greta Schröder), nella loro casa a Wisborg. Pian piano però si insinuano alcune note stonate, come la figura del datore di lavoro di Hutter, l’agente immobiliare Knock (Alexander Granach), con i suoi ghigni ambigui. E poi, vista attraverso la finestra, l’immagine cupa e inquietante della casa che il Conte Orlok (Max Schreck) vuole acquistare: si tratta, nella realtà, di uno dei sei magazzini del sale, edifici concomitanti fra loro, che si trovano a Lubecca, dove furono girate questa ed altre scene ambientate a Windsor.
Successivamente, non appena Hutter giunge in Transilvania, la natura prende possesso delle immagini, non più solo come inserto o contrappunto, come avveniva nei due precedenti film di Murnau, ma come un vero e proprio personaggio che, mano a mano che la vicenda va avanti, si trasforma da luogo ameno e persino luminoso (i prati, i cavalli, il sole), nella figurazione di oscuri presagi, fino a significare l’estensione stessa di Orlok, l’ombra del vampiro che si allarga a macchia d’olio. Una natura che arriva a farsi esplicitamente soprannaturale nella celebre sequenza in cui la carrozza fantasma attraversa a gran velocità una foresta bianca prima di giungere al castello di Orlok: sequenza che Murnau fece stampare in negativo, avendo cura di rivestire il carro e il suo conducente di panni bianchi, in modo che risultassero neri come nelle altre scene.
Tuttavia, al di là del suo significato simbolico immediato, è la natura, in tutta la sua vitalità, mutevolezza e ambiguità, ma anche in tutta la sua evidenza, a predominare: non solo la breve panoramica dei monti Carpazi, ma le valli verdi e assolate, le foreste misteriose, il fiume schiumoso che trasporta la zattera, o ancora la spiaggia con le sue dune e l’erba scossa dal vento. E’ il sentimento della natura che Murnau riprende direttamente dai pittori del Romanticismo (ma anche dai cineasti svedesi). E’ come se in quei momenti Murnau tornasse alla sua prima passione e, dipingendo con la macchina da presa, si astraesse per qualche istante dall’urgenza del racconto, inteso come mero susseguirsi di eventi.
In quei brevi istanti la figura umana scompare e le immagini assumono piena autonomia, non sono motivate da alcuno sguardo diegetico, ma solo dall’occhio della macchina da presa e dunque del regista: una pratica decisamente moderna, perlomeno all’interno di un film a soggetto. Se Nosferatu è un film espressionista, lo è in un senso e in un modo del tutto opposti a quello di Robert Wiene e del suo Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920) e anzi, secondo Lotte Eisner «mai più sarà raggiunto un espressionismo così perfetto, e la sua stilizzazione è stata ottenuta senza ricorrere al minimo artificio»[1].
Occorre dunque soffermarsi un momento sull’eccezionalità della scelta di Murnau di girare la maggior parte del film in esterni e in ambienti reali (solo gli interni furono girati negli studi di Berlino). Dopotutto, Caligari e i suoi vari emuli avevano dimostrato come il modo più semplice per controllare e manipolare l’atmosfera e i segni occulti di un film fosse quello di racchiuderlo in scenografie appositamente ideate, dipinte o costruite, nella sicurezza di uno studio. Murnau invece viaggia per l’Europa alla ricerca dei luoghi più idonei e delle suggestioni più adatte alla sua opera: dalle strade di Lubecca, Lauenburg e Rostock, al panorama (quello iniziale) e al porto di Wismar (dove giunge la nave di Nosferatu, l’Empusa); dall’isola di Sylt (per la meravigliosa sequenza della spiaggia con le croci ove Ellen attende l’arrivo della nave), alla città slovacca di Poprad; dalle pendici degli Alti Tatra (le cime più elevate della catena dei Carpazi), a Dolný Kubín, in Ungheria.
Infine, il castello di Nosferatu arroccato su un’alta roccia, che a prima vista potrebbe essere scambiato per un modellino, è in realtà un luogo reale: si tratta del castello slovacco di Orava, che domina l’omonimo fiume e il paese di Oravsky Podzamok. Murnau fu inoltre colpito dall’incontro fortuito con un altro castello slovacco, quello di Trenčín – all’epoca in rovina, oggi restaurato – al punto da immortalarlo nell’ultima inquadratura del film: si potrebbe ipotizzare che l’intento fosse quello di raffigurare la sorte del castello di Orlok dopo la morte del suo oscuro signore. Eppure tutti questi luoghi reali vengono piegati all’esigenza del racconto e della sua particolare atmosfera grazie alla sola forza delle angolazioni di ripresa, della scelta delle lenti, dell’illuminazione, del montaggio. E’ in questo modo che «il demoniaco in Nosferatu penetra come “un soffio che si espande nella natura”»[2].
E ancora:
Al posto della stilizzazione geometrica del cinema di Lang o della deformazione radicale del profilmico ascrivibile seppur in modo generico all’area espressionista, Murnau opera semmai nell’orizzonte di una trasfigurazione del reale, di una restituzione sulfurea dell’atto di visione e dell’evocazione di una dimensione impalpabile e intima delle forme configurate nel lavoro di messa in scena.[3]
Più tardi, quando prima la UFA e poi la Fox negli Stati Uniti lo obbligarono a girare i film in studio, Murnau ne soffrì sicuramente, ma sia in Faust (1926), sia soprattutto in Sunrise (Aurora, 1929), egli riuscì, grazie alla sua maestria, a infondere agli scenari artificiali (le montagne nel primo film, la palude nel secondo) l’essenza dei luoghi naturali.
Oltre ai luoghi, anche il regno animale e quello vegetale vengono designati a significare simbolicamente personaggi o eventi: i cavalli che Hutter scorge dalla finestra della locanda mentre pascolano liberi nel prato, sotto il sole, riflettono la sua stessa condizione vitale: quella di un giovane pieno di energie e di ottimismo, cui la vita sorride piena di promesse e sogni sul punto di realizzarsi. Il lupo mannaro dal quale lo mettono in guardia gli abitanti del villaggio compare col suo verso lugubre come presagio dell’incontro nefasto con il Conte Orlok (anziché un lupo, fu però utilizzata una iena, forse contando sul fatto che gli spettatori dell’epoca non avessero molta familiarità con questo mammifero).
E poi ancora, un ragno che cattura un insetto nella sua ragnatela e lo divora, un microrganismo a forma di polipo che Bulwer (John Gottowt) mostra ai suoi studenti, assieme alla pianta carnivora che racchiude le prede fra i suoi denti acuminati. Infine i topi: se da un lato la loro comparsa è un espediente creato dallo stesso Orlok per far credere che la morte dei marinai sia dovuta alla peste, anziché al suo morso vampiresco, dall’altro essi rappresentano la piaga che discende sugli abitanti di Wisborg, e dunque l’ombra del vampiro e il suo morso (una delle possibili derivazioni del termine nosferatu, di incerta etimologia, è quella alla parola greca nosophoros, ovvero “portatore di calamità”).
E gli stessi incisivi acuminati di Orlok – anziché i canini dei vampiri a venire – lunghi e prossimi fra loro, richiamano quelli di un topo. E quest’ultimo non è che l’esempio più diretto e lampante del fatto che in Nosferatu «il vampirismo è un fenomeno interno alla natura e non fuori dal suo orizzonte; non è una mostruosità che la natura esclude, ma un fenomeno che essa porta dentro di sé»[4].
Orlok appare soltanto dopo circa venticinque minuti di film (a meno di non volerlo identificare con la misteriosa figura del vetturino della carrozza fantasma), in un’inquadratura che lo vede comparire all’improvviso dall’oscurità di un passaggio ad arco del castello e dirigersi lentamente verso la macchina da presa, con quell’aria allampanata, deforme e spettrale che ne farà una delle più note icone del cinema muto. Dopo aver incontrato il suo ospite nella corte del castello, Orlok lo conduce con sé a ritroso nel passaggio buio dal quale era emerso: questa scena rende dunque esplicito l’ingresso di Hutter nell’oscurità.
Da quel momento in poi, infatti, egli si trova alla mercé del vampiro, avvinto dal suo potere, terrorizzato dalla sua ombra. Successivamente, dopo che la vera natura di Orlok è stata palesata, il suo modo di abitare il quadro viene modulato a seconda delle circostanze: si passa da un’immobilità terrificante, a una cadenzata lentezza fino a una innaturale velocità. Il primo caso coincide spesso con il contatto visivo stabilito con le sue vittime, potremmo dire che la sua sola presenza sia sufficiente a veicolare il suo potere ammaliante e ipnotico: come nella celebre sequenza in cui Hutter si affaccia dalla porta della sua stanza e noi vediamo, in profondità di campo, il vampiro stagliarsi in fondo al corridoio.
Il suo lento avanzare corrisponde invece al momento in cui la vittima si è già arresa al suo potere ed attende il suo arrivo: ciò avviene quando entra nella stanza di Hutter, che giace svenuto sul letto; o quando, sul veliero, emerso dalla stiva, il vampiro cammina, inquadrato dal basso, e, costeggiando la botola, attraversa il quadro prima in senso orizzontale e poi verso verticale uscendo fuori campo, diretto verso l’ultimo sopravvissuto, il capitano, che si è legato al timone. In altri momenti invece il non-morto è rapidissimo: ad esempio quando si prepara a partire per il suo viaggio verso la Germania e Hutter lo vede, dall’alto della finestra della stanza dov’è prigioniero, caricare diverse bare su un carretto per poi rinchiudersi in una di esse. In questa sequenza, Murnau e il suo operatore Fritz Arno Wagner si avvalsero della proiezione accelerata e all’inverso, per ottenere l’effetto del coperchio della bara che si chiude da solo.
Altri trucchi, come le riprese a passo uno, furono utilizzate anche per la già citata sequenza della carrozza fantasma che attraversa il bosco bianco; o per quella in cui, sul ponte della nave, un telo si solleva scoprendo la botola della stiva, che a sua volta si spalanca per mostrare, infine, il cranio calvo di Orlok che emerge dall’oscurità. Nosferatu ha dunque una padronanza sovrumana sul suo corpo, può addirittura renderlo immateriale per attraversare la porta della sua nuova casa a Wisborg senza aprirne l’uscio, come un vero e proprio fantasma: trucco ovviamente risolto con una sovrimpressione. Ma è anche nell’assenza, mentre giace nella sua bara al riparo dei raggi del sole, che la sua presenza si fa più inquietante, come nelle splendide immagini girate sul ponte della nave, oramai deserta, che sembra pilotarsi da sola attraverso i mari dopo che il vampiro ne ha sterminato l’intero equipaggio.
L’ombra del vampiro, alla quale ho accennato già più volte, si rivela essere uno degli elementi principali e determinanti del film. Non si tratta soltanto della proiezione del corpo di Orlok, ma quasi una sua estensione e, sia che ne anticipi o ne segua i movimenti, dà l’impressione di essere un’entità autonoma, ossia il vero aspetto, se non l’essenza, del Conte Orlok, e dunque la figurazione stessa del suo oscuro potere. Non a caso, il film successivo che Albin Grau realizzerà come scenografo s’intitola Ombre (Schatten, Ombre ammonitrici, 1923, di Arthur Robinson): anche in quel caso egli apportò le sue credenze magiche che vedono nell’ombra il lato oscuro della realtà, e dunque il tramite mediante il quale le forze oscure, altrimenti invisibili, si manifestano all’uomo.
In Nosferatu, l’ombra del vampiro si allunga su Hutter, rannicchiato sul suo letto in preda al terrore; oppure si staglia sulla parete lungo le scale che il mostro sta salendo per raggiungere Ellen nella sua camera da letto. Infine, l’ombra del suo artiglio arriva a “stringere” il seno di Ellen, connotando così anche eroticamente il fenomeno del vampirismo (cosa che sarà fondamentale per buona parte del cinema dei vampiri a venire). Deleuze battezzò questa modalità di trasfigurazione delle ombre, nonché della stessa natura (modalità che egli ascrive in generale allo stile espressionista, e in particolare all’uso che ne fa Murnau) «la vita non-organica delle cose», ovvero «un’oscura via paludosa in cui tutte le cose affondano, sia lacerate dalle ombre, sia sommerse nelle foschie»[5]. E’ interessante notare come sia questa modalità dell’uso delle ombre sia l’utilizzo di un libro sui vampiri per spiegarne le caratteristiche principali – all’epoca ignorate dalla maggior parte degli spettatori – verranno utilizzati anche da Carl Th. Dreyer per il suo magnifico Vampyr (Il vampiro, 1932).
Dei personaggi principali del film, soltanto Hutter ha un contatto diretto con il vampiro. Gli altri due, Knock ed Ellen, instaurano con lui un rapporto a distanza, che potremmo definire telepatico. Nel caso di Knock, si tratta di un rapporto maestro-discepolo: la follia dell’agente immobiliare cresce infatti con l’avvicinarsi del mostro ed egli viene rinchiuso in una cella. Qui sembra a sua volta iniziare a manifestare certi tratti ferali ed oscuri di un vampiro, arrivando a uccidere una guardia per evadere di prigione, inseguito dalla folla che, a un certo punto, ci viene mostrata attraverso lo sguardo di Knock, in soggettiva, dall’alto di un tetto.
Quanto a Ellen, la relazione indiretta – per il tramite di Hutter – con Orlok le provoca sonnambulismo e premonizioni. Ed è in particolar in questo rapporto fra la donna e il vampiro che Murnau fa un uso originalissimo del montaggio, quella che Minuz chiama «congiunzione virtuale degli spazi»[6], riuscendo a raccordare fra loro due personaggi distanti, unicamente in base alle risonanze interiori, uso che si era già visto in Der Gang in die Nacht (Walking into the Night, 1920).
Così, nel momento in cui, a mezzanotte, Nosferatu sta per entrare nella stanza di Hutter, Ellen, sonnambula, si alza, esce sul balcone e inizia a camminare sul cornicione, le braccia protese in avanti (in modo peraltro simile a quello del vampiro). Non appena l’ombra di Nosferatu si staglia sulla parete oltre il letto in cui Hutter, terrorizzato, si è rifugiato, Ellen, che era stata riportata a letto dalla coppia che la ospita, si issa di scatto, le braccia protese e gli occhi spalancati verso il fuoricampo a sinistra del quadro, chiamando ad alta voce il marito, come per salvarlo. In quello stesso momento, Orlok, già chino sulla sua vittima, si ferma e si volta a guardare fuori campo, verso destra, poi esce dalla stanza.
E così, Ellen e Orlok, pur trovandosi in luoghi distinti e distanti tra loro, grazie a questo uso del montaggio alternato e dei raccordi degli sguardi, in qualche modo si vedono, anche se su un piano diverso da quello reale, un piano psichico o metafisico. Anche nella seconda parte, quando il vampiro ha ormai preso possesso nella casa antistante l’abitazione degli Hutter, Ellen sente il suo sguardo e il suo potere su di sé per tutto il tempo, fino a comprendere quale sia l’unica cosa da fare per fermare la piaga che si è abbattuta sul paese. In questo senso forzando un po’ la mano, si potrebbe quasi dire che lo spazio, nel film di Murnau, sia altrettanto virtuale e immaginario di quello disegnato e distorto di Caligari. Eppure, anche ammettendo tutto ciò, i due film (e i due modi di concepire il cinema) non potrebbero risultare più agli antipodi.
Nosferatu fu interpretato da Max Schreck. Il fatto che nessuno lo avesse mai sentito nominare prima e che il suo nome, tradotto, suonasse come “massimo terrore”, oltre all’indubbia efficacia del make up vampiresco, fecero nascere la leggenda che egli fosse realmente un vampiro. Chiaramente Murnau e Grau non si sognarono nemmeno di smentire queste voci. In realtà, il berlinese Friedrich Gustav Max Schreck, all’epoca quarantaduenne, era attore di teatro presso la Münchner Kammerspiele. Dopo Nosferatu lavorò in molte altre produzioni tedesche, anche se mai più in ruoli importanti. Lo stesso Murnau lo scritturò nuovamente per Die Finanzen des Großherzogs (The Grand Duke’s Finances, 1924) nel ruolo di uno dei sinistri cospiratori.
Il suo nome fu omaggiato da Tim Burton per il personaggio interpretato da Christopher Walken in Batman Returns (Batman – Il ritorno, 1991). Nel 1979, Werner Herzog girò una sua personale versione del capolavoro di Murnau intitolata Nosferatu: Phantom der Nacht (Nosferatu, il principe della notte), con Klaus Kinski nei panni del vampiro. Il mediocre The Shadow of a Vampire (L’ombra del vampiro, 2000) di E. Elias Mehrige, sceglie invece di giocare con la leggenda di Max Schreck, ma lo fa con pressapochismo filologico e i soliti irritanti cliché sui personaggi del mondo del cinema. Fra le varie imprecisioni, non tiene conto (o sceglie di non farlo) del fatto che tutte le scene notturne di Nosferatu erano state girate di giorno con l’effetto notte, come si evince dalle ombre – incidentali, stavolta – proiettate dagli attori e dagli edifici; senza contare che Murnau, all’epoca, non era affatto il regista più importante della Germania, come viene dichiarato all’inizio del film. Ma lo diventerà di lì a poco, grazie in particolar modo al formidabile exploit di Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924).
Vittorio Renzi (17 aprile 2017)
Nosferatu, Eine Symphonie des Grauens
(Nosferatu il vampiro)
Germania, 1922
regia: Friedrich Wilhelm Murnau
soggetto: romanzo Dracula di Bram Stoker
sceneggiatura: Henrik Galeen
fotografia: Fritz Arno Wagner, Günther Krampf
musica: Albin Grau
scenografia e costumi: Albin Grau
produzione: Enrico Dieckmann, Albin Grau, per Prana-Film
lunghezza: 7 rulli, 1.967 metri
durata: 95′
cast: Max Schreck (conte Orlok), Gustav Von Wangenheim (Hutter), Greta Schröder (Ellen), Ruth Landshoff (Ruth), Alexander Granach (Knock), Georg Heinrich Schnell (Harding), Max Nemetz (capitano), John Gottowt (prof. Bulwer), Gustav Botz (prof. Sievers)
première: Berlino, 3 marzo 1922
[1] Lotte H. Eisner, L’écran démoniaque, Paris, Le Terrain vague, 1965 [già pubblicato da André Bonne, 1952], p. 74.
[2] Andrea Minuz, Friedrich Wilhelm Murnau. L’arte di evocare fantasmi, Fondazione Ente dello Spettacolo, 2010, p. 46
[3] Ivi, pp. 43-44.
[4] Ivi, p. 67.
[5] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 70.
[6] A. Minuz, op.cit., p. 57.