Kurutta ippeiji (A Page of Madness, 1926)

Kinugasa Teinosuke

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Si nasce tutti pazzi. Alcuni lo restano.

Samuel Beckett

Kinugasa Teinosuke

Il nome di Kinugasa Teinosuke (衣笠 貞之助) è stato spesso associato dalla critica specializzata a quello delle avanguardie cinematografica, in particolare all’espressionismo tedesco, eppure, se è vero che un accostamento è difficile, se non quasi impossibile, da evitare, è altresì vero che Kinugasa per molti aspetti rappresenta con la sua opera ad inizio carriera quasi un unicum nel panorama nipponico. Invero l’opera di Kinugasa, seppur lunga e punteggiata da grandi successi – basterà ricordare Jigokumon (地獄門, Gate of Hell, 1955), trionfatore sia a Cannes che agli Academy Awards – è stata stilisticamente discontinua, e non è neppure facile fare un paragone all’interno di essa, in quanto dei suoi lavori anteriori al 1926, anno in cui dirige Kurutta ippeiji (狂った一頁, A Page of Madness, 1926) non ci restano che frammenti[1].

Kinugasa nasce il 1° gennaio 1896 a Kyoto da una famiglia di mercanti tutto sommato benestante. Il giovane Teinosuke accompagna spesso la madre a teatro e forse è proprio qui che nasce la sua passione per le scene, che inizialmente Kinugasa desidera calcare personalmente, al punto da entrare nei circoli teatrali della sua scuola. Si specializza così nel ruolo di onnagata (女形), ovvero nell’interpretazione di ruoli femminili, prassi normale nel teatro kabuki (歌舞伎), dove alle donne non era permesso recitare per “motivi di ordine pubblico”[2]. È in questo ruolo che inizia nel 1917 la sua attività cinematografica alla Nikkatsu (日活株式会社, Nikkatsu kabushiki-gaisha), in quanto anche nel mondo del cinema, pur non essendovi un provvedimento di legge ad hoc, le donne erano bandite, ma mentre la tradizione degli onnagata ancora oggi resiste nel kabuki, nel mondo del cinema l’influenza dei primi film importati dagli Stati Uniti e dall’Europa porta gli studi cinematografici a scegliere di puntare sul gentil sesso. Nonostante i numerosi scioperi e le numerose sommosse da parte degli onnagata – Kinugasa stesso fu a capo di alcune di esse – il destino di questa categoria era ormai segnato.

Costretto quindi a ricominciare da capo, nel 1922 Kinugasa lascia la Nikkatsu, con cui aveva girato ben 130 film nel ruolo di onnagata e iniziato la sua carriera da regista nel 1920, e decide di dedicarsi interamente alla regia e concentra la propria attenzione su quei generi di ambientazione storica che tanto piacevano al pubblico di allora: jidai-geki (時代劇) e chanbara (チャンバラ), lavorando per la Makino (マキノ映画製作所), casa di produzione cinematografica fondata da uno dei padri del chanbara cinematografico, Shozo Makino (マキノ省三).

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Siamo nel 1923, e il 1° settembre Tokyo, dove risiedono i maggiori studi cinematografici del Giappone, viene devastata da uno dei peggiori terremoti della storia. Il “Grande terremoto del Kanto” (関東大震災, Kantō daishinsai) uccide tra le 100.000 e le 142.000, oltre 32.000 i dispersi[3], e mette in ginocchio l’economia del Paese, che tuttavia riuscirà a riprendersi in pochi anni. Più difficile sarà per gli studi di produzione, che perdono quasi tutte le proprie sedi, oltre a una quantità inestimabile di negativi (la quale, andando a sommarsi al numero di negativi distrutti dai bombardamenti americani sul finire del 1945, giustifica l’enorme penuria di film giapponesi risalenti al periodo ante-bellico).

Kinugasa tuttavia è una persona di notevole carisma e non perde tempo per ricominciare. La distruzione di Tokyo aveva spostato il centro della produzione cinematografica nipponica a Kyoto, e qui Kinugasa decide di fondare nel 1926 la propria casa di produzione, la Kinugasa eiga renmei (衣笠映画聯盟)[4]. Kinugasa ha anche in mente il primo film di questa nuova realtà cinematografica: si intitola Kurutta ippeiji, “una pagina folle”, folle, come lo è stata secondo alcuni l’idea di mettersi in proprio.

Il film invero non è un soggetto originale e nasce dalla frequentazione da parte di Kinugasa del movimento artistico d’avanguardia del Shinkankakuha, (新感覚派, Scuola della nuova sensibilità), la quale si proponeva di andare oltre la rappresentazione della realtà naturale, avvicinandosi, per certi aspetti, ma non fondendosi, con alcune tendenze surrealiste. Tra gli esponenti del Shinkankakuha vi erano due scrittori che molto avrebbero segnato l’opera di Kinugasa: Kawabata Yasunari (川端 康成) e Kikuchi Kan (菊池 寛). È proprio il futuro premio Nobel per la letteratura a fornire il soggetto del film, mentre Kikuchi fungerà da supervisore. Alla parte tecnica la fotografia è affidata a un maestro, Sugiyama Kohei (杉山公平), poi collaboratore abituale di Kinugasa.

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La trama nel complesso è semplice, meno l’ambientazione: un manicomio.  Protagonista è uno degli inservienti di questo manicomio, legato al suo mestiere anche a causa delle condizioni della moglie, ivi ricoverata. Il giorno in cui loro figlia ritorna a casa per annunciare il proprio fidanzamento si innescano una serie di intrecci e flashback che porteranno alla luce le tristi vicende dei suoi protagonisti.

La struttura del film invece è complessa, e per questo dividerà la critica giapponese, e si rivelerà un disastro al botteghino, segnando di fatto la fine dell’esperienza (un film all’attivo!) del Shinkankakuha nel mondo del cinema, e l’inizio di un periodo difficile per Kinugasa, che tuttavia riuscirà, almeno temporaneamente, a risollevarsi grazie al successo al botteghino di Jujiro (Crossways, 1928), un film completamente diverso da Kurutta ippeiji. Ma di questa storia parleremo in un’altra occasione.

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Una pagina folle

Quando nel 1971, scavando nel proprio scantinato[5], Kinugasa si è trovato di fronte ad una copia del negativo di Kurutta ippeiji, deve essergli preso un colpo! Il film era ritenuto perduto, e sembrava ormai destinato all’oblio. Da lì in poi, dopo aver provveduto al restauro delle bobine, il film ha iniziato a girare il mondo, imponendosi all’attenzione della critica e degli studiosi di storia del cinema.

Una pagina folle, questo appunto il titolo in traduzione italiana di Kurutta ippeiji, rappresentava infatti uno dei primi film sperimentali della cinematografia nipponica, in quegli anni giovanissima, in quanto nata sul finire del primo decennio del Novecento, e capace di acquisire una propria fisionomia solo negli anni ’20, e era, a dire il vero, un caso unico in tutta la cinematografia giapponese e non solo. Era anche il primo ed unico esempio cinematografico della corrente del Shinkankakuha, che in quanto tale si riproponeva di intervenire in tutti i campi dell’arte, cinema incluso. All’occorrenza infatti era stata fondata la Shinkankakuha eiga renmei (新感覚派映画聯盟), che in collaborazione con la casa cinematografica fondata da Kinugasa produrrà poi Kurutta ippeiji.

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Il soggetto originale è scritto da Kawabata, ma in realtà alla realizzazione di esso parteciperanno, non accreditati, lo stesso Kinugasa, Sawada Banko (沢田晩紅) e Inuzaka Minoru (犬塚稔), il primo uno stretto collaboratore di Kinugasa, il secondo invece un dirigente alla Shochiku Kyoto satsueijo (松竹京都撮影所), studio affiliato alla Shochiku (松竹株式会, Shochiku kabushiki gaisha), o meglio, filiale di Kyoto della Shochiku, da cui manteneva comunque una certa autonomia, e che si occuperà di distribuire il film nelle proprie sale. Kinugasa naturalmente dovrà in parte adattare la sceneggiatura del Maestro alle esigenze cinematografiche, ma a lavoro compiuto le differenze con l’opera originale[6] non sono tantissime, sebbene nella realtà dei fatti Kinugasa, che ha sempre dichiarato di non avere simpatia per delle sceneggiature che vincolassero la narrazione, abbia rimaneggiato lo script originale di Kawabata più volte, in particolare con l’aiuto di Sawada. Quest’ultimo è probabilmente il vero sceneggiatore principale dell’opera, mentre al premio Nobel spetterebbe di certo l’attribuzione del soggetto, sebbene a conti fatti entrambi sono attribuiti a Kawabata[7].

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Colpisce fin da subito il fatto che un ex onnagata abbia scelto di affidare i ruoli femminili a delle attrici, segno forse che ormai anche Kinugasa si era rassegnato al cambiamento, e ancor di più stupisce il fatto che il film, nella versione che ci è giunta, sia assolutamente privo di cartelli, il che lo rende allo spettatore odierno certamente complesso, mentre forse per i contemporanei il problema era meno sentito grazie alla figura del benshi (弁士)[8], una sorta di narratore il cui ruolo era di “raccontare” le immagini che apparivano sullo schermo ad un pubblico che, anche volendo, non avrebbe potuto leggere comunque i cartelli in quanto in maggioranza assoluta analfabeta.

Tornando al film, lo abbiamo già detto, siamo in un ospedale per malattie mentali. Uno degli inservienti, assunto da poco, cela un pesante segreto: sua moglie è infatti ricoverata nell’ospedale, dopo aver ucciso il proprio figlioletto, accidentalmente a dire il vero, a causa di un attacco di follia. L’inserviente è lì per vegliarla, ma non ha fatto i conti con l’ambiente che lo circonda. L’incipit del film è grandioso:

«Notte. Il tetto di un ospedale psichiatrico. Un parafulmine. Un acquazzone. Lampi. Una ballerina danza leggiadra su un gaio palcoscenico»[9].

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Sebbene la storia ruoti intorno all’inserviente ed alla moglie, le figure che più restano impresse sono proprio gli “altri”, gli ospiti del manicomio, tre uomini barbuti, e soprattutto una bellissima ballerina. E poi ci sono i sogni, o gli incubi, o entrambi, visto che il confine tra i due è sottilissimo.

La quiete dell’inserviente viene rotta dall’arrivo della figlia. I due non si parlano da tempo, tant’è che lei non sapeva che lui lavorasse all’ospedale e lui non aveva idea che la figlia stesse per sposarsi. È infatti venuta a dare la bella notizia alla madre, che però è ormai persa nei suoi deliri e non comprende nulla di quello che le viene detto. Ma c’è un problema. La ragazza non ha detto niente della sua famiglia al futuro marito, tale è la vergogna che prova. La bugia non regge a lungo, e quando la ragazza andrà dal padre a raccontargli i suoi timori di veder naufragare il matrimonio, quest’ultimo prenderà una decisione assurda, quella di liberare sua moglie, di portarla lontano, perché, a suo modo di vedere, solo così sua figlia potrà coronare il proprio sogno. Da qui il precipitare degli eventi.

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Sogno intervallato dalla realtà, e non viceversa, perché il reale è sfuggente nel dramma della malattia mentale, delirio folle, opera surreale, Kurutta ippeiji è anche questo. Il film è stato girato prendendo in prestito uno studio abbandonato della Shochiku, utilizzando lamiere di metallo per creare le pareti delle stanze dei pazienti, in quanto facili da trovare in giro e perché, riflettendo la luce, permettevano di risparmiare sulle luci artificiali (sic!). L’ambientazione, come quasi tutto il cinema giapponese di quegli anni, si rifà al teatro kabuki, ma al di fuori di questo il film prende una strada a sé stante. L’influenza del kammerspiel tedesco sembra evidente, ma in realtà, nonostante Burch insista sulla rilevanza del cinema tedesco e francese (Gance in particolare, con il suo La Roue, La rosa sulle rotaie, 1922) degli anni ‘20 su Kinugasa[10], la realtà è che il regista giapponese non aveva in quegli anni un background tale da permettergli di conoscere bene il cinema europeo, ed in particolare quello sperimentale, che girava raramente in sala ed era limitato ad alcuni circoli culturali elitari[11]. È in tal senso che dico che difficilmente ci si sbaglia affermando che Kurutta ippeiji si muove su binari propri, ed è per questo che la sua influenza sul cinema giapponese contemporaneo e successivo è quasi nulla.

Anche la scelta di non usare cartelli è di sicuro unica in tutto il cinema giapponese contemporaneo al capolavoro di Kinugasa. Tutto il film si svolge senza dialoghi, sebbene la sceneggiatura sembra contemplarli in alcuni passaggi. Il montaggio, fatto di sovraesposizioni e di sovrimpressioni è un qualcosa di mai visto, che a sprazzi ricorda il miglior Ėjzenštejn, altro regista che tuttavia Kinugasa non conosceva[12], poiché il cinema russo, in quanto comunista, era vietato in Patria, perché sovversivo. L’ambientazione è essenziale, minimalista diremmo, ma in realtà è solo povera, causa mancanza di finanziamenti, sebbene il film sia finito per costare, stando a Kinugasa, oltre 20.000 yen, cifra altissima in quegli anni e superiore alla media dei film contemporanei, il cui costo era solitamente intorno ai 12.000 yen[13].

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La trama, in un contesto del genere, senza cartelli e con un montaggio simil-espressionistico, non poteva che essere difficile da comprendere. In teoria – lo abbiamo già detto – lo spettatore nipponico doveva essere aiutato dal benshi, il quale era sempre presente alle proiezioni dei film durante l’era del muto, che in Giappone terminò solo sul finire degli anni ’30, proprio grazie alle pressioni di questa categoria la cui influenza era enorme. Tuttavia le fonti sono discordanti riguardo l’utilizzo dei benshi per Kurutta ippeiji, in quanto alcuni studiosi sembrerebbero avallare la tesi secondo la quale il film di Kinugasa avrebbe fatto eccezione a questa regola, come sarebbe dimostrato dal fatto di aver voluto fare a meno dei cartelli. In realtà, il ritrovamento di un libretto dedicato al film, realizzato apposta per i benshi, ed altre fonti, come la memoria storica di alcuni degli ultimi benshi superstiti, sembrerebbero dimostrare che la visione di Kurutta ippeiji era comunque accompagnata dalle declamazioni di un benshi.

È pur vero che quella che conosciamo non è la versione originale del film. La copia ritrovata da Kinugasa nel 1971 è infatti soltanto parziale. Rimontata e restaurata, essa probabilmente è molto diversa da quella, più lunga, che hanno visto gli spettatori nel 1926, e non è detto, a voler sfatare un mito, che quest’ultima non avesse predisposti dei cartelli. Insomma, si potrebbe definire la versione oggi nota come una sorta di Director’s Cut di Kurutta ippeiji! Il fatto che Kinugasa non abbia trovato tutto il negativo, ma solo una parte di esso, avvalorerebbe questa ipotesi: secondo alcuni storici infatti mancherebbero quasi 500 metri di pellicola[14]. Il regista ha d’altronde conservato lo script originale del film, e da esso è facile evincere che sono numerosissime le scene che non appaiono nella versione a noi pervenuta dell’opera[15]. Non è certo facile capire se si tratta di scene semplicemente espunte, ovvero tagliate o appunto mancanti. Ne risulta una certa difficoltà nel dire quali fossero esattamente le caratteristiche del film del 1926 (benshi e cartelli, o no?) rispetto a quelle della versione del 1971 (cui Kinugasa ha aggiunto un commento sonoro).

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La complessità aumenta se si pensa che tutto il film gioca sul labile confine tra sogno e realtà, tra presente e passato. Trascinati a forza nella mente dell’inserviente del manicomio vediamo il protagonista combattuto tra il desiderio di rendere felice la figlia e quello di riappropriarsi della moglie, che non mostra neanche di riconoscerlo, portandola via dall’ospedale. Tutto ciò ha un non so che di catartico e patetico allo stesso tempo. Le pulsioni umane, ben rappresentate dal suo sogno di vincere alla lotteria, e le paure personali, che esplodono nell’incubo di essere scoperto durante la fuga con la moglie – la qual cosa lo costringerebbe addirittura a subire il dileggio degli internati – sono narrate da Kinugasa senza stacchi apparenti. Protagonista assoluta del film diviene così la mente umana, con la sua naturale imperscrutabilità, ma anche la natura umana, con i suoi istinti che nella follia si fanno ancora più insistenti. Emblematica in tal senso la scena in cui la ballerina continua a danzare imperterrita nella propria stanza, e tutti gli altri pazienti si avvicinano a guardarla, lottando tra di loro per accaparrarsi il posto migliore. Il disordine creato dai pazienti viene così a simboleggiare la ribellione all’ordine precostituito (le regole imposte in ospedale), mentre il desiderio di raggiungere la ballerina e la sua danza eterna rappresentano l’energia sessuale che dalla ribellione stessa scaturisce.
A ciò si deve, principalmente, il carattere surrealista del film, che in chiusura si complica ulteriormente.

Non deve meravigliare dunque la fredda accoglienza da parte della critica e del pubblico all’uscita in sala, sebbene non siano mancate voci che ne abbiano messo in luce la bellezza e la carica innovativa, rispetto ad altre che hanno bollato l’opera come “priva di senso”.

Ma per quanto complessa possa essere la visione di Kurutta ippeiji, non si può negare di essere al cospetto di un film straordinario, capace di lasciare a bocca aperta anche lo spettatore contemporaneo, a cui difficilmente può sfuggire la sua moderna bellezza. Il film è un capolavoro non solo per merito di un soggetto che di sicuro è sia interessate che originale, ma anche per l’incredibile, visionaria, messa in scena. La macchina da presa gira vorticosamente nei vari scenari, mettendo in mostra un’umanità fatta di reietti, persi nel loro mondo. Un mondo fatto di incomprensione, solitudine, angoscia e speranza. Struggente, visionario e poetico nell’insieme, il capolavoro di Kinugasa ha oramai, seppur tardivamente, occupato il posto che gli spettava di diritto nella storia del cinema, e la sua grandiosità trova ulteriore conferma nella straziante ed onirica scena finale, la più nota del film.

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L’inserviente non è riuscito a liberare la moglie, ha anche perso le chiavi che gli permettevano di accedere al reparto in cui è alloggiata. È di nuovo preso dallo sconforto e si perde tra i suoi pensieri.
E sogna.
Sogna di entrare nel manicomio con un cesto pieno di maschere del teatro . Sono tutte maschere dal volto sorridente. I pazzi sono tutti in preda ad un attacco di frenesia, ma quando l’inserviente pone sul loro volto le maschere essi si acquietano. Fa lo stesso con le pazienti che si trovano nel padiglione, e con la ballerina.

In un istante tutti i volti acquistano un’espressione sorridente e gentile.
L’inserviente applica una maschera anche alla moglie.
Il suo volto sorridente mostra affetto verso di lui.
Egli applica la maschera anche a sé stesso. Il suo volto sorridente.
Ora abbraccia la moglie che sorride anche lei.
È solo un sogno. Nella realtà l’inserviente continua a spazzare i corridoi, i medici continuano a visitare i pazienti, che gironzolano, alcuni almeno, per i locali. La moglie dorme.
E la ballerina?
Anche oggi danza follemente.

Danilo Tagliaferri

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Kurutta ippeiji

(狂った一頁 | A Page of Madness)

[t.l. Una pagina folle]

Giappone, 1926

regia: Kinugasa Teinosuke

soggetto: Kawabata Yasunari

sceneggiatura: Kawabata Yasunari, Kinugasa Teinosuke,
Inuzuka Minoru e Sawada Banko

fotografia: Sugiyama Kohei, Tsuburaya Eiji

scenografia: Ozaki Chiyo

produzione: Kinugasa Teinosuke, per Kinugasa Eiga Renmei

cast: Inoue Masuo (il vecchio custode), Iijima Ayako (la figlia),
Nakagawa Yoshie (la moglie), Nemoto Hiroshi (il giovane),
Seki Misao (il dottore), Minami Eiko (ballerina), Takase Minoru,
Takamatsu Kyosuke, Tsuboi Tetsu, Takiguchi Shintaro

durata: 59′

data di uscita: 24 settembre 1926

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[1] Frammenti che gli studiosi reputano comunque «look very convincing». Cfr. VASSILEVA M., Kinugasa Teinosuke. Another Interpretation of the Expressionist Intentions of the Director of “Page of Madness”, Societas Classica, Vol. VI, 2013, 579.
[2] Originariamente il kabuki nasce come forma teatrale itinerante formata interamente da donne, poi ad essa si aggiunsero anche uomini, creando sia compagnie miste che compagnie maschili. Il problema era che spesso dietro a queste compagnie itineranti si scatenava un giro di prostituzione tale da scatenare spesso vere e proprie resse per accaparrarsi l’attrice più bella. È per questo motivo che nel 1629 una legge dello shogunato sancì il bando delle donne dalla recitazione in teatro. Invero spesso nel ruolo di onnagata venivano scelti giovanissimi attori, belli per lo più, con la conseguenza che il problema non venne risolto, ma finì piuttosto per assumere forme diverse… Cfr.: LEUPP G. P., Male Colors: The Construction of Homosexuality in Tokugawa Japan, University of California Press, 1997, 92 ss.
[3] I numeri sono incerti, ma invero non fu il terremoto a causare il maggior danno, bensì gli incendi che divamparono per le città per oltre 2 giorni prima di spegnersi per mancanza di combustibile.
[4] Per una strana coincidenza, a parte alcuni frammenti, gli unici film di Kinugasa relativi alla Kinugasa eiga renmei che ci sono giunti in una forma più o meno “completa” sono probabilmente i suoi maggiori capolavori del periodo: Kurutta ippeiji e Jujiro (十字路, 1928, tit. int. Crossroads), rispettivamente il primo e l’ultimo film realizzati da quella che è stata una delle prime compagnie cinematografiche indipendenti della storia del Giappone.
[5] GEROW A., A Page of Madness: Cinema and Modernity in 1920s Japan, Center for Japanese Studies, University of Michigan, 2008, 59.
[6] Il testo integrale della sceneggiatura è edito in Italia nel volume: KAWABATA Y., Romanzi e racconti, a cura di Giorgio Amitrano, Mondadori, 2003, 1059 ss.
[7] GEROW A., A Page of Madness: Understanding a Work in its Time, in https://www.flickeralley.com.
[8] Sulla figura del benshi, su cui si ritornerà più volte anche in futuro, si rinvia per un approfondimento al meraviglioso lavoro di BERNARDI J., Writing in Light: the Silent Scenario and the Japanese Pure Film Movement, Detroit, Wayne State University Press, 2001, 33 ss.
[9] Le citazioni sono tutte tratte dal testo di Kawabata.
[10] BURCH N., To the Distant Observer. Form and Meaning in the Japanese Cinema, University of California Press, 1979, 128.
[11] Cfr.: RICHIE D., Japan’s First Experimental Cinema: Two Films by Teinosuke Kinugasa, Art and Cinema 1.2, 1986, 3 ss.
[12] Lo incontrerà sul finire degli anni ’20, dopo aver diretto Jujiro, con cui partirà, bobina alla mano, per un viaggio che dalla Russia lo porterà prima a Berlino e poi a Parigi, dove resterà due anni a studiare tecniche di montaggio. Kinugasa diverrà così il primo “esportatore” di cinema giapponese fuori dal suo territorio, e Jujiro il primo film nipponico ad essere visto in Europa.
[13] GEROW A., A Page of Madness: Understanding a Work in its Time, cit., 5.
[14] Ivi, 9.
[15] GEROW A., A Page of Madness: Cinema and Modernity in 1920s Japan, cit., 38 ss.

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