Cœur fidèle (Cuore fedele, 1923)

Jean Epstein

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SINOSSI: Marie, un’orfana adottata da una coppia, proprietaria di un bar sul porto di Marsiglia, viene sfruttata come una serva. Sulla ragazza ha delle mire Petit Paul, un criminale perdigiorno, ma Marie è segretamente innamorata di Jean, un scaricatore di porto. Un giorno, Marie è spinta dai genitori adottivi ad uscire con Petit Paul, ma Jean li segue a un luna park dove i due uomini lottano. Un poliziotto interviene, ma rimane accoltellato nella mischia e, mentre Petit Paul scappa, Jean viene arrestato e incarcerato. Un anno dopo, uscito di prigione, Jean scopre che Marie ora ha un bambino e vive con Petit Paul, che spende tutti i loro soldi per bere. Il bambino è malato e Jean cerca di dare una mano a Marie, aiutato da una donna storpia, che abita alla porta accanto. Un giorno, avvertito dai vicini pettegoli che Jean è con Marie, Petit Paul si precipita a casa armato di pistola…

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Desidero dei film in cui non accada, non dico niente, ma niente di importante. (Jean Epstein) [1]

Dopo, L’Auberge Rouge (L’albergo rosso, 1923), Epstein prosegue sul sentiero della sperimentazione, stavolta senza avvalersi di un testo letterario di partenza. In modo simile agli altri colleghi modernisti (Gance, Delluc, Dulac, L’Herbier), si serve del melodramma come piattaforma per la messa in opera delle proprie idee filosofiche ed estetiche (la lirosofia) e delle teorie sul linguaggio cinematografico (la fotogenia, teorizzata per primo da Delluc). Gina Manès e Léon Mathot, la coppia di amanti del film precedente, divengono quindi i protagonisti assoluti di un film la cui sceneggiatura, per ammissione dello stesso Epstein, fu scritta in una sola notte «scegliendo deliberatamente la storia più semplice, brutale e melodrammatica possibile»[2].

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Melodramma, sì, ma non borghese. Come in Fièvre (1921) di Louis Delluc (di cui riprende sia l’ambientazione sia, vagamente, l’intreccio principale), Cœur fidèle si svolge in parte in esterni, in parte in ambienti squallidi e realistici: il porto, la taverna, i quartieri popolari, proletari e malfamati, liminari (per la presenza dell’acqua che sembra introdurre a una dimensione altra) che affolleranno poi i film del “realismo poetico” di Carné, Duvivier, etc. Se però in Delluc le scene di finzione si alternano a vere e proprie sequenze documentaristiche del porto e delle navi, in Epstein gli ambienti reali (o ricostruiti come tali negli interni), anziché porsi in evidenza in modo autonomo rispetto alla narrazione, divengono non solo manifestazione dei sentimenti dei personaggi, ma anche materia prima del linguaggio cinematografico. Epstein non credeva nel realismo in quanto tale e infatti rigettò l’etichetta di “film realista” che Ricciotto Canudo aveva apposto al suo film. A una conferenza dichiarò: «Confesso di non sapere cosa sia il realismo nell’arte. Mi sembra che un’arte non simbolica non sia arte»[3].

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Il realismo di per sé non lo interessava, almeno quanto non lo interessavano tutti gli altri “ismi” dell’epoca, etichette che si rifacevano peraltro sempre a movimenti artistici precedenti al cinema (come l’espressionismo) e che si riferivano ad aspetti puramente parziali, secondari, che secondo Epstein non avevano nulla a che vedere con la specificità del mezzo cinematografico. Da qui la sua severità nel giudicare negativamente un film come Das Cabinet Des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920), affidato per intero alla particolare stilizzazione delle scenografie[4]. Avverso a tutto ciò che è immobile, scenografico, teatrale, pittoresco, Epstein vuole per il cinema, semmai, la stessa sfida che l’Impressionismo lanciò alla pittura tradizionale: sentimento, movimento, vita. Ma anche in questo caso fu la Dulac, e non Epstein, ad usare il termine “impressionismo” applicato a quell’idea di cinema che lei stessa, assieme ai suoi colleghi, andava perseguendo.

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L’attenzione di Epstein è dunque rivolta interamente al cinema come linguaggio, con una predilezione per l’uso dei piani ravvicinati (primi e primissimi piani, dettagli) già abbondantemente adoperati nel film precedente e qui posti ancora più al centro della sintassi filmica: è la messa in pratica di alcuni celebri aforismi che emergono dai suoi scritti, come “il primo piano è l’anima del cinema” o “il primo piano è il dramma in presa diretta”[5].

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La prima sequenza introduce il personaggio di Marie e l’ambiente in cui vive partendo proprio dai piani ravvicinati: le mani di Marie che puliscono, che servono da bere, alternati ai primi piani del volto della ragazza. Ma se le mani sono in movimento continuo, il viso è immobile, come fosse disgiunto dal corpo, lo sguardo fisso: Marie è «un personaggio diviso, separato da ciò che vede e desidera»[6]. Solo in un secondo momento ci viene fatto vedere un totale dell’ambiente, la bettola al porto in cui Marie lavora:

Non appena cominciato: già lo stile di Epstein si rivela. Dettagli, frammenti, gesti, oggetti: mano, sottobicchiere, bicchiere, mozzicone, tavolo, viso, bottiglia. Un corpo tagliato a pezzi, ridotto a mani/viso, dei gesti semplici: togliere, gettare, asciugare, versare. La figura umana non è preminente rispetto agli oggetti.[7]

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Come aveva mostrato la psicanalisi, non si poteva più far appello a un io unitario, a un mondo unitario. E, di conseguenza, come stava avvenendo anche nella letteratura (ma anche nella pittura, pensiamo al Cubismo), le modalità della narrazione si andavano conformando lentamente a questa nuova visione di un mondo e del soggetto frammentati. Forse è anche per questo motivo che Epstein sceglie «la storia più semplice, brutale e melodrammatica possibile», perché è un buon modo per ripartire nel raccontare una storia attraverso i suoi sfrangiamenti e le sue derive. La tecnica del piano ravvicinato è dunque una modalità – forse l’unica rimasta – per raccontare, per mostrare:

Già nella sequenza di apertura di Coeur fidèle, il primo piano non è più un inserto che serve a rilevare, sottolineare, evidenziare un dettaglio di un’azione, di un corpo, di un paesaggio o di un oggetto. Il primo piano è il modo di accesso al mondo da parte da parte del cinema: mano, sottobicchiere, viso, bottiglia sono l’apertura verso un mondo frammentato, parcellizzato. Certamente il piano d’insieme, la visione d’insieme arriverà, ma solo in seguito.[8]

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In una scena successiva, ambientata sempre nella taverna, Jean viene minacciato da Petit Paul e da altri due uomini suoi amici. La sequenza è condotta in gran parte tramite primi piani e dettagli (pugni chiusi, una mano che afferra una bottiglia, una mano in tasca in cerca del coltello), in un montaggio rapido che va a segmentare la lenta rotazione della testa di Jean, che guarda negli occhi uno ad uno i suoi potenziali avversari. Più avanti ancora accade la stessa cosa durante lo scontro fra Jean e Petit Paul davanti all’hotel, a seguito del quale un poliziotto rimane ferito e Jean viene arrestato.

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Ed è nel primo piano, in particolar modo, che si enuncia anche un «tempo psicologico»[9] o interiore, espresso tramite la sua stessa durata. La macchina da presa di Epstein, cioè, mira a restituire la percezione soggettiva, interiore, del tempo, una percezione che esula dal tempo dell’azione oggettivo, dettato cioè dai ritmi dell’intreccio, al quale il cinema tradizionale (soprattutto statunitense) si assoggetta. Ma questo non vuol dire che non vi sia movimento. Infatti, se sul piano teorico Epstein si era espresso negativamente riguardo all’uso dei primi piani statici, sostenendo che contraddicevano profondamente l’essenza della fotogenia (il movimento, appunto), qui pressoché tutti i primi piani sono, in apparenza, immobili, non vi sono cioè quei movimenti di macchina o quelle sfocature che Epstein aveva teorizzato e poi messo in pratica, in alcuni momenti, in L’Auberge rouge.

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Tuttavia egli trova un altro modo per animarli, quei volti, facendovi emergere un senso di attesa, di indugio, di rêverie (ancora il tempo psicologico, il «sentimento», come lo chiama spesso Epstein): il movimento nasce dalle dissolvenze incrociate, dalle sovrimpressioni dell’acqua sui volti, che vi imprimono un’idea supplementare: quella del movimento interiore, dei moti dell’anima. Sovrapposta ai volti, l’acqua, con la sua luminescenza e sfarfallio (con la sua fotogenia innata, già di per sé immagine-movimento), contribuisce a quello sfaldamento del soggetto e del racconto di cui si parlava prima.

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L’acqua avrà un’importanza cruciale anche nel film successivo di Epstein, La belle nivernaise, nei suoi film bretoni realizzati in un secondo tempo, e, più in generale, in buona parte del cinema francese degli anni Venti e Trenta. E l’elemento liquido, che apre al sogno, alla possibilità, all’interiorità, si contrappone non solo alle squallide scenografie che fanno da sfondo alla vicenda (la taverna, l’appartamento di Petit Paul dove Marie, suo malgrado, crescerà suo figlio), ma anche alle innumerevoli cornici diegetiche (porte, finestre, sbarre, rampe di scale riprese in plongée) che di volta in volta imprigionano i personaggi, nonché al movimento puramente meccanico della giostra:

Unione e disunione, accordo e disaccordo, costruzione e distruzione, il primo piano ha la stessa azione sul mondo della velocità e dell’acqua. In questo senso, il primo piano manifesta cinematograficamente le forze di frammentazione e di sintesi dei tempi e degli spazi che la giostra o il mare producono sui corpi e i paesaggi (…). Goccia d’immagine in un fiotto o particella in un flusso, il primo piano possiede i due versanti che il cinema francese ha portato al suo punto più alto: idraulico e meccanico. Esso è viaggio, marino o aereo, dei corpi e dei paesaggi.[10]

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Parallelamente, il cineasta prosegue la ricerca sull’uso del montaggio accelerato, desunto dal Gance di La Roue (La rosa sulle rotaie, 1922). La sequenza più famosa del film è infatti quella del luna park, in cui Epstein mette in pratica quell’aspirazione di cui andava scrivendo solo un anno prima:

Vorrei un dramma a bordo di una giostra con i cavalli di legno, o di una più moderna con gli aeroplani. La fiera, sotto e intorno a me, si confonderebbe un po’ alla volta. Il tragico così centrifugato decuplicherebbe la sua fotogenia, aggiungendoci quella della vertigine e della rotazione.[11]

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E’ esattamente quanto accade nella sequenza in questione, quella in cui Petit Paul conduce la riluttante Marie sulla giostra. Dapprima viene ripreso solo il movimento della giostra, da un punto di vista neutro, diciamo “oggettivo”. Poi la macchina da presa viene sistemata sulla giostra e ruota insieme ad essa, riprendendo Jean e Marie in mezzo ad altre persone che vi sono salite. Solo queste figure umane sono a fuoco, mentre tutto il resto, nel movimento rotatorio della giostra, inizia a scomporsi. Ma il passo successivo è quando lo sguardo della macchina da presa da oggettivo si fa soggettivo, puntandosi verso lo sfondo in movimento. Ed ecco che, improvvisamente, le persone che affollano la fiera, gli oggetti, gli alberi, tutto si deforma, si disintegra e si atomizza nel rapido movimento circolare. A questa vorticosa soggettiva dello sguardo (di Marie? Di Petit Paul? Di entrambi?), che procede verso l’astrazione, Epstein va a interpolare altre brevi inquadrature in un crescendo sempre più rapido: il viso cupo di Marie, quello allegro di Petit Paul, la partitura musicale della banda della fiera, e poi coriandoli e stelle filanti che replicano, graficamente, il turbinio di tutto quel movimento.

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Che si tratti dello sguardo di Marie o di Petit Paul, alla fine, è ininfluente: il risultato è comunque quello di un cupio dissolvi a cui riconducono in egual misura tanto la disperazione di Marie, quanto la feroce e (auto)distruttiva tracotanza di Paul. E’ una sequenza in cui Epstein si appropria degli esperimenti di artisti e cineasti coevi come Man Ray, Duchamp, Léger, ma anche Richter, Ruthmann, e li rielabora celebrando il cinema come puro movimento in un contesto però narrativo, così come aveva fatto colui che considerava il suo maestro, Abel Gance. Anche qui, come in certi momenti di La Roue, «tutto tende verso la simultaneità di movimento di colui che vede e del movimento visto, nella perdita vertiginosa dei punti fissi»[12].

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L’immagine astratta del movimento visto dalla giostra verrà replicata nel finale da quella di un caleidoscopio che gira. Ma, prima ancora, di questa sequenza vi è un’eco nella seconda parte del film, quando una prostituta informa Petit Paul del metodo usato da Jean e Marie per vedersi, con la complicità della vicina zoppa che segnala a Jean quando Paul è fuori casa, disegnando un cuore su un muro del porto. Lì nei pressi c’è di nuovo una banda che suona e Paul appare frastornato sia da quella confusione che dalla sua sbronza, e nella sua mente si affastellano i ricordi della giornata della giostra. Ad ogni modo, nei film successivi i movimenti di macchina di Epstein si faranno più distesi e il cineasta dichiarerà di non voler più effettuare simili tour de force visivi, che, a suo modo di vedere, stavano diventando troppo di moda per i suoi gusti, svuotandosi in tal modo di significato.

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La soggettiva emerge anche in altre occasioni: sotto forma di sguardo in macchina, quando Marie avvicina il suo volto alla culla, guardando amorevolmente il suo bambino. Qui è con gli occhi del bambino che guardiamo il viso di Marie e la lacrima che le si forma in un occhio. Oppure sotto forma di lente deformante, nel rendere conto dello stato alterato di Jean quando, ubriaco, guarda il viso di una donna con cui sta parlando in una taverna, il suo cui volto viene poi scalzato da quello di Marie (a un espediente simile ricorrerà Murnau l’anno successivo in una scena di Der Letzte Mann, L’ultima risata, 1924). O nella scena in cui Petit Paul, sbronzo, si reca barcollando nel caffè e  l’ambiente gli appare inghiottito dall’oscurità, in cui è illuminata solo una fila di bottiglie di liquore, esaltate da una carrellata in primo piano. Infine, nello sguardo di Marie, che sta per seguire Jean e abbandonare il bambino: ecco che la culla dove il piccolo giace si fa sempre più lontana, su uno sfondo nero, quasi a essere inghiottita dal buio. Nell’atto di questo allontanamento, che esprime l’angoscia e il senso di colpa della donna, la culla assume una dimensione quasi autonoma e sembra rimandare direttamente alla culla dondolata da Lillian Gish in Intolerance di Griffith. Di lì a poco anche Ejzenstein, in tutt’altro contesto, ne farà un elemento fondamentale, a livello drammaturgico ma anche ritmico e visivo, in Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potemkin, 1925).

L’arrivo di Petit Paul interrompe la loro fuga e ne nasce una colluttazione. L’uccisione di Paul da parte della zoppa, con il sangue che cola giù dal cappello dell’uomo, introduce una nota forte di realismo (un altro paio di scene giudicate troppo “forti” furono soppresse dalla censura), tanto più che poi, scivolando a terra, il capo di Paul va ad appoggiarsi sulla culla dove giace suo figlio, insanguinandola.

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Cœur fidèle, ritenuto troppo sperimentale e spiazzante, rimane nelle sale per soli tre giorni e viene poi ritirato. Nel frattempo Epstein ha già realizzato un documentario sull’eruzione dell’Etna del 1923, La montagne infidèle (ritenuto ad oggi perduto) – che gli ispira anche lo scritto Il cinematografo visto dall’Etna (1926) – e ha quasi terminato la lavorazione di La Belle Nivernaise.

I due attori principali, Gina Manès e Léon Mathot, sono entrambi al loro secondo e ultimo film firmato da Epstein. Marie Epstein collaborò alla sceneggiatura di questo e di altri film di suo fratello Jean; inoltre riveste qui il ruolo della vicina di casa zoppa che aiuta Marie e Jean nei loro incontri clandestini. In seguito divenne regista a sua volta firmando diversi film a quattro mani con Jean Benoît-Lévy.

Curiosamente, all’epoca della sua uscita in Italia, Cœur fidèle fu distribuito col titolo Cuor d’oro e muscoli d’acciaio.

Vittorio Renzi

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Cœur fidèle (Cuore fedele)

[a.k.a. Cuor d’oro e muscoli d’acciaio / The Faithful Heart]

Francia, 1923

regia e sceneggiatura: Jean Epstein, Marie Epstein

fotografia: Paul Guichard

musica: Maxence Cyrin

produzione: Pathé Frères

cast: Léon Mathot (Jean), Gina Manès (Marie),
Edmond Van Daële (Petit Paul), Marie Epstein (la zoppa),
Claude Benedict (M. Hochon), Madame Maufroy (M.me Hochon),
Madeleine Erickson

durata: 85

data di uscita: 23 novembre 1923

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[1] Jean Epstein, Bonjour cinéma, Parigi, Editions de la Sirène, 1921, in Jean Epstein, L’essenza del cinema, Biblioteca di Bianco & Nero, 2002, p. 27.
[2] Richard Abel, Il cinema francese verso un mutamento paradigmatico, 1925-29, in Gian Piero Brunetta, Storia del cinema mondiale III. L’Europa. Le cinematografie nazionali, Torino, Einaudi, 2000, vol. 1, p. 309.
[3] J. Epstein, L’essenziale del cinema, testo di una conferenza, 1 dicembre 1923, in J. Epstein, op. cit., p. 41.
[4] J. Epstein, Il cinematografo visto dall’Etna, 1926, in J. Epstein, op. cit., pp. 58-60.
[5] J. Epstein, Bonjour cinéma, op. cit., pp. 30 e 32.
[6] Abel, op. cit., p. 310.
[7] Prosper Hillairet, Cœur fidèle de Jean Epstein, Crisnée, Yellow Now, 2008, p. 5 (traduzione mia).
[8] Ivi, p. 41.
[9] J. Epstein, Il tempo T, in “Le Feuilles libres”, aprile-maggio 1922, in J. Epstein, op. cit., p. 36-40.
[10] Hillairet, op. cit. pp. 44-45.
[11] J. Epstein, Bonjour cinéma, op. cit., p. 31.
[12] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 97.

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