Carmen (1915)

Cecil B. DeMille

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Quello di Carmen è uno dei personaggi femminili più archetipici della cultura occidentale, nonché il prototipo della diva cinematografica: amata da tutti, posseduta da nessuno, in quanto inafferrabile, a maggior ragione in quanto fantasma di ombra e luce. E se il suo esotismo la accomuna a un’altra celebre icona femminile di fine Ottocento, Madame Butterfly, le somiglianze si fermano qui: la concubina giapponese è la vittima sacrificale sull’altare dell’egoismo maschile e ama di un amore vero; Carmen ne è l’antitesi: libera e capricciosa, non si fa dominare dagli uomini, ma è lei a dominarli, a manipolarli. In lei non c’è amore, ma solo una sfrenata vitalità e sensualità. Una femme fatale ante litteram. E infatti, come la sua diretta discendente, la Lulù di Frank Wedekind, finisce ammazzata, poiché irriducibile ai desideri e alla volontà del maschio. Il personaggio divenne popolare attraverso l’opera di Georges Bizet, ispirata al romanzo breve di Prosper Merimée del 1845 e messa in scena per la prima volta all’Opéra-Comique di Parigi esattamente trent’anni dopo: fu un insuccesso, ma Bizet, che morì di lì a pochi mesi, si sarebbe stupito nel vedere come invece, nel giro di pochi anni, l’opera sarebbe divenuta una delle più rappresentate al mondo. Ed è per lo più in questa forma che il testo fu poi trasposto, innumerevoli volte, al cinema.

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Una delle prime versioni uscì dallo studio Pathé già nel 1908, con Régina Badet nei panni di Carmen. Le fecero seguito, fra le altre, la Film d’Arte Italiana nel 1909, con Vittoria Lepanto, le case americane Monopol e Tanhouser, nel 1913, rispettivamente con Marion Leonard e Marguerite Snow, e di nuovo una casa italiana, la Cines, che si avvalse, per il ruolo da protagonista, della mezzosoprano belga Marguerite Sylva: può sembrare incomprensibile e anche un po’ buffo il fatto che una cantante lirica venisse scritturata per un film muto. E tuttavia, a pensarci bene, la ragione è piuttosto ovvia: il mondo del cinema, proprio in quegli anni, cercava di attirare il pubblico borghese e, al contempo, di ottenere una nobilitazione artistica appoggiandosi alle altre arti, fra cui l’opera. E questo non aveniva solo in Italia. Due anni dopo la Cines, la Jesse L. Lasky Feature Play Company di Los Angeles (la futura Paramount, fondata da Lasky, Cecil B. DeMille e Samuel Goldwyn nel 1913) decise di assegnare il ruolo di Carmen a una delle più celebri artiste dell’epoca, nota non soltanto per la sua voce, ma anche per le sue capacità interpretative. Geraldine Farrar, già sotto contratto con la Lasky, aveva esordito nel cinema proprio con DeMille in Maria Rosa, girato pochi mesi prima ma distribuito soltanto l’anno successivo; in seguito, DeMille la dirigerà in altri quattro film: Temptation (1915, considerato perduto), Joan the Woman (Giovanna d’Arco, 1916), The Woman God Forgot (L’ultima dei Montezuma, 1917) e The Devil-Stone (1917).

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La Farrar interpretò in tutto quindici film, sfruttando le pause tra uno spettacolo e l’altro come cantante, tanto è vero che, scrive Brownlow: “definire la leggendaria Farrar un’attrice cinematografica sarebbe come fare riferimento a Winston Churchill come a un pittore. Ella fu prima di tutto una grande cantante d’opera. Le sue esibizioni erano accolte invariabilmente con smodato entusiasmo”[1]. Durante le riprese di Carmen, la Farrar richiese che fosse eseguita dal vivo la musica di Bizet, nonché, nelle scene d’amore, la canzone The Lilac di Charles Gardner, facente parte di uno spettacolo di Broadway dal titolo Fatherland (1892)[2].

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Contemporaneamente, anche William Fox aveva messo in cantiere una trasposizione della Carmen, assegnando la regia a Raoul Walsh e il ruolo da protagonista a Theda Bara, la prima grande vamp americana, divenuta celebre proprio in quello stesso anno grazie a A Fool There Was (Frank Powell, 1915). Se però la versione di Walsh si atteneva maggiormente al romanzo di Merimée, quella di DeMille punta soprattutto sull’opera di Bizet, mantenendo solo alcuni degli elementi del testo originario. E’ un peccato non poter oggi confrontare le due versioni rivali, dal momento che il film Fox, come la maggior parte di quelli interpretati da Theda Bara, risulta irreperibile. Sappiamo però da alcune testimonianze che la versione diretta da Walsh, e da lui anche scritta e montata, era ricca di azione, anche a discapito dello sviluppo dei personaggi[3]. Alla fine del decennio successivo, Walsh avrebbe firmato poi una seconda trasposizione dalla Carmen con Dolores Del Rio: The Loves of Carmen (Gli amori di Carmen, 1927).

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La Carmen di Cecil B. DeMille (coadiuvato alla sceneggiatura dal fratello William) presenta tutti i tratti essenziali del personaggio: la capigliatura corvina, la rosa in bocca oppure il fermaglio tra i denti, il ventaglio, quel sorriso al tempo stesso seducente e canzonatorio, un sorriso sempre e comunque di sfida. Geraldine Farrar forse non è bellissima o magnetica come altre attrici che ricopriranno il ruolo di Carmen, ma risulta comunque molto convincente. La sua è una Carmen voluttuosa, selvaggia, animalesca: ne è un buon esempio la scena della lite tra le tabaccaie o quella successiva del duello fra José e un altro ufficiale, al quale non solo assiste ma partecipa, vistosamente eccitata, scagliandosi contro l’altro contendente, i capelli sciolti e scarmigliati. Josè è interpretato da Wallace Reid, astro nascente, da poco a libro paga presso la Lasky: nonostante fosse più giovane di lei di nove anni,  è una perfetta controparte per la Farrar, con quel suo bel volto pulito e romantico e l’aria ingenua.

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All’epoca della lavorazione, DeMille, poco più che trentenne, come la Farrar, era stato promosso alla regia da un anno e aveva diretto già un buon numero di film. La sua abilità come regista era già indiscutibile. E se questo suo film, almeno nella prima parte, soffre di una certa staticità, è riscattato, in primo luogo, dalle ambizioni pittoriche e compositive e dall’uso della profondità di campo. Nella prima immagine, il gestore della taverna, Pastia, in attesa dei contrabbandieri con cui è in affari, è in piedi sugli scogli, di tre quarti e poi di spalle, e la sua figura si staglia in controluce contro un orizzonte di cielo e mare. In una delle ultime scene, quando Carmen, dagli spalti dell’arena getta un fiore al toreador Escamillo, la testa della donna, coperta da un velo bianco, è in primo piano, e quasi di spalle, rispetto alla figura dell’uomo ripresa in secondo piano, più in basso. E’ un’inquadratura insolita per quegli anni, direi ambiziosa, ma che più di ogni altra, nel film, esprime graficamente la superiorità di Carmen rispetto agli uomini, il loro guardarli dall’alto in basso.

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Inoltre è già più che evidente la padronanza del regista nella direzione delle scene di folla. Durante la rissa fra Carmen e le altre sigaraie, con Don José e i suoi uomini che intervengono per mettervi fine, è ammirabile il talento di DeMille nel dirigere le numerose comparse che affollano nel quadro, nel renderle plastiche e dinamiche al tempo stesso. In alcune scene, ad esempio quelle nella taverna, in cui Carmen si esibisce come danzatrice, ci sono poi dei bei giochi chiaroscurali e non mancano momenti – come quello della lettura delle carte di Carmen, in cui la tinta rossa sembra evocare già la coltellata e il sangue – che anticipano l’eccelsa fotografia di The Cheat (I prevaricatori, 1915), che uscirà due mesi dopo: diverrà nota come “illuminazione Lasky”, o “alla Rembrant”, con le figure umane che emergono dall’oscurità prevalente del quadro, come scolpite dalla luce.

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L’operatore è Alvin Wyckoff, presente sul set di quasi tutti i film di DeMille di quegli anni. Ma di The Cheat, oltre all’illuminazione, Carmen anticipa anche l’erotismo esplicito: se l’apice, nel film successivo, si raggiunge nella celebre e sadica scena della marchiatura, qui avviene nel momento in cui José, esasperato, tenta di far sua Carmen con la forza. Lei lo morde, lo graffia, lui la afferra, la rigira, la tiene stretta a sé afferrandole un seno. E tutto questo avviene all’aperto, nella natura, sotto la luce del sole. L’arena per la corrida finale fu invece ricostruita in studio e furono ingaggiati dei veri toreri. Il film ebbe un buon successo e fu distribuito nuovamente tre anni dopo, nel 1918.

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Chaplin si ispirò sia alla versione di DeMille che a quella di Wash per la sua parodia Charlie Chaplin’s Burlesque on Carmen (Carmen, 1915), con Edna Purviance, il cui controllo artistico gli fu poi sottratto in sede di montaggio dalla Essanay. Le successive Carmen del muto furono Pola Negri in Carmen (Sangue gitano, 1918), di Ernst Lubitsch, Raquel Miller nel film di Jacques Feyder (1926), Dolores Del Rio (1927), la giapponese Asama Shôko (1929), diretta da Takeuchi Shun’ichi. Anche l’animatrice tedesca Lotte Reiniger diede il suo contributo al personaggio con un cortometraggio del 1933. Nell’epoca del sonoro rivestirono i panni della bella gitana un gran numero di cantanti e attrici, fra cui Viviane Romance (Christian-Jaque, 1944), Rita Hayworth (Charles Vidor, 1948), Dorothy Dandridge (Otto Preminger, 1954), Sara Montiel (Tulio Demicheli, 1959), Sara Lezana (Julio Diamante, 1976), Laura Del Sol (Carlos Saura, 1983), Maruschka Detmers (Jean-Luc Godard, 1983), Julia Migenes (Francesco Rosi, 1984), Paz Vega (Vicente Aranda, 2003) e Pauline Malefane (Mark Dornford-May, 2005).

Vittorio Renzi

Carmen

Usa, 1915

regia: Cecil B. DeMille

soggetto: racconto omonimo di Prosper Merimée

sceneggiatura: William C. DeMille

fotografia: Alvin Wyckoff, Charles Rosher

montaggio: Anne Bauchens, C.B. DeMille

musica: Hugo Riesenfeld, dalla partitura di Georges Bizet

scenografia: Wilfred Buckland

produzione: Cecil B. DeMille, per Jesse L. Lasky Feature Play Company

cast: Geraldine Farrar (Carmen), Wallace Reid (Don José),
Pedro de Cordoba (Escamillo), Carpenter (Pastia),
William Elmer (Morales), Jeanie Macpherson (Frasquita),
Anita King (Mercedes), Milton Brown (Garcia)

lunghezza: 5 rulli

durata: 57′

première: Boston Symphony Hall, 1 ottobre 1915

data di uscita: 1 novembre 1915


[1] Kevin Brownlow, The Parade’s Gone by…, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1968, p. 366.
[2] Ivi, p. 339.
[3] Eve Golden, Vamp. The Rise and Fall of Theda Bara, Vestal Press, 1996, p. 68.

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