Fritz Lang
SINOSSI: O-Take-san, figlia del Daimyo Tokuyawa, rifiuta di diventare una monaca, come vorrebbe il bonzo del tempio buddista. Per vendicarsi, il bonzo fa accusare il padre della ragazza di alto tradimento, costringendolo a fare seppuku. Mentre si trova nella Foresta Sacra del tempio, O-Take-san fa la conoscenza di un ufficiale di marina danese, Olaf Jens Anderson, di cui s’innamora. Ma il Bonzo la rinchiude in una caverna. Un servitore del tempio, Karan, la libera ma solo per condurla in una casa da tè a Yoshiwara, il quartiere delle geishe, in modo da trarre profitto da lei. Ma proprio qui l’ufficiale di marina la ritrova e i due decidono di sposarsi con rito giapponese, secondo il quale il matrimonio è valido per 999 giorni, col diritto dell’uomo di divorziare dalla moglie in ogni momento. Dopo appena un anno, Anderson lascia il Giappone per tornare in patria, dove si sposa con un’altra donna. Nel frattempo, dalla relazione tra O-Take e Anderson nasce un bambino. Il principe Matahari si offre di sposarla, ma O-Take rifiuta, sicura che Anderson tornerà da lei. Quando l’uomo torna in Giappone anni dopo, assieme alla nuova moglie, Eva, O-Take-san rimane sgomenta dal fatto che lui non si rechi neanche a trovarla. Il matrimonio giapponese fra loro è ormai scaduto, lei dovrà tornare alla casa da tè e suo figlio sarà affidato alle cure dello Stato. Eva si offre di prendersi cura del bambino, ma O-Take-san afferma risoluta che lo darebbe solo a suo padre in persona. Proprio mentre Anderson, finalmente, si convince ad andare a trovarla, O-Take-san si suicida facendo seppuku con la stessa lama usata da suo padre.
Il film, più che al romanzo di grande successo di Pierre Loti, Madame Chrysanthème (1888), pubblicato in pieno Giapponismo, si ispira all’opera di Puccini, la cui prima, avvenuta alla Scala di Milano solo quindici anni prima, nel 1904, era stata in verità un fiasco colossale. Ripresentata successivamente con alcune progressive variazioni, fu accolta in trionfo e da allora ebbe vasta risonanza. Ma prima di giungere a Puccini, il racconto di Loti era passato attraverso diverse rielaborazioni. Nel 1894, di ritorno da un viaggio dal Giappone con l’amico Émile Guimet, il pittore e caricaturista Félix Régamey volle raccontare la vicenda, parzialmente autobiografica, narrata da Loti dal punto di vista di Chrysanthème. Nacque così Le Cahier Rose de Mme Chrysanthème, in forma di diario della stessa Chrysanthème, sedotta e abbandonata dall’uomo occidentale egoista (lo stesso Loti). Il romanzo di Loti ispirò anche il racconto di un avvocato e scrittore americano, John Luther Long, che è importante se non altro perché, per la prima volta, la protagonista femminile viene ribattezzata Butterfly. Madame Butterfly fu pubblicato nel 1898. Due anni dopo, Long, assieme all’impresario e regista teatrale David Belasco, trasformò il racconto nell’omonimo atto unico dal finale tragico. E fu sotto questa forma che Puccini conobbe l’opera che ispirò la sua rappresentazione, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. Al cinema, l’opera conobbe la sua prima trasposizione cinematografica già nel 1915, grazie alla newyorkese Famous Players Film Company: Madame Butterfly (1915), diretto da Sidney Olcott e interpretato nientemeno che da Mary Pickford e Marshall Neilan.
Considerato a lungo perduto, di Harakiri è stata ritrovata una copia nel 1986 presso il Nederlands Filmmuseum sotto il titolo Madame Butterfly – pensato probabilmente per l’esportazione in America – e prontamente restaurata dal Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung. Nonostante il restauro, i segni del deterioramento sono ancora vistosi e alcune scene risultano frammentate. Harakiri è la quarta regia di Fritz Lang, e tutti e quattro i film (i primi due sono andati perduti) sono stati girati nel 1919. Harakiri fu girato tra il primo e il secondo episodio di Die Spinnen (I ragni, 1919). Lang era stato appena promosso alla regia dal produttore della Decla, Erich Pommer, il quale gli andava affidando via via diversi progetti, tutti miranti a rendere il cinema tedesco forte e rappresentativo sul mercato, anche quello statunitense.
Lang si ritrova così a realizzare soggetti molto diversi fra loro: dai film d’avventura, i suoi preferiti, quelli in cui lascerà più forte il suo marchio, ai melodrammi, che erano meno nelle sue corde, ma nei quali in ogni caso riversa tutta l’attenzione e il perfezionismo che lo contraddistinguono. Come in questo caso dove, quantomeno, ritroviamo uno dei caratteri dominanti dell’universo langhiano, ovvero l’ambientazione esotica. Se è vero infatti che Harakiri ha un ritmo assai lento e solenne, rispetto a un qualsiasi altro film del regista viennese, è altresì vero che è il soggetto stesso a richiederlo. La sceneggiatura fu scritta da Max Jungk, sceneggiatore ricorrente di vari registi tedeschi oggi poco noti e, occasionalmente, di Ewald André Dupont. Quella con Lang fu la loro prima e ultima collaborazione, dal momento che ben presto, nella vita privata e artistica di Lang, sarebbe comparsa Thea Von Harbou.
Scenografie, costumi, acconciature, tutto il profilmico è messo in scena con grande accuratezza e sensibilità. Non vi è ombra di caricatura nel tratteggiare la cultura giapponese, che Lang conosceva di prima mano, essendosi recato nel Paese del Sol Levante durante il suo periodo giovanile di viaggi all’estero, si tratta al contario di «un’opera ricca di sensibilità per la complessità della cultura giapponese. I codici d’onore, di fedeltà e di dovere, tipici della società giapponese, vengono qui evidenziati perfino nelle figure secondarie»[1]. Girato nei Paesi Bassi, Harakiri è, secondo Ciment, «un esempio di film d’arte col suo senso pittorico ispirato dal giapponismo in voga, così come da Gustav Klimt e Kolo Moser e la sua ambizione a rivaleggiare col teatro e l’opera»[2].
Lotte Eisner, che nel 1978, all’epoca dell’uscita della sua monografia su Lang, non aveva avuto modo di vedere il film, considerato ancora perduto, riportò alcune recensioni tedesche al film piuttosto lusinghiere, che lodavano l’uso poetico degli interni e della natura, certi giochi di luce, la rappresentazione delle festività locali e l’utilizzo di comparse giapponesi che conferiscono un sapore di verosimiglianza al racconto. Inoltre, come nel caso di Die Spinnen, costumi e decorazioni furono forniti grazie alla consulenza di Umlauff, direttore del Museo Etnografico di Amburgo[3]. Ma, soprattutto, Lang e lo sceneggiatore Jungk, andando oltre il nucleo del melodramma amoroso, riescono a inserire la narrazione nell’affascinante cornice di un mondo lontano che, seppur ricreato in Olanda, appare credibile e tanto più affascinante quanto ancora largamente ignoto all’immaginario europeo e occidentale, se non per tramite dell’arte figurativa e dei resoconti di viaggio. Harakiri, insomma, grazie all’accuratezza con cui vengono rappresentate la vita e la cultura del Giappone, si poneva, con tutti i suoi limiti, come una finestra su quel paese, e questo decenni prima che sui nostri schermi apparissero i primi film giapponesi.
Alcune grandi differenze rispetto all’opera pucciniana: innanzitutto i nomi, che cambiano da Cio-Cio San e Pinkerton a O-Take-san e Olaf Jens Anderson, il quale non è più un marinaio degli Stati Uniti, ma della flotta danese; il principe Yamadori, ubriacone e plurimaritato, diventa Matahari (!), un uomo dolce e gentile che sembra avere sinceramente a cuore O-Take-San; infine, la cameriera Suzuki diventa Hanake. Del tutto trascurabile, infine, il personaggio del console amico di Anderson, che nell’opera è invece molto presente; viceversa, nel film si fanno pressanti le due figure odiose del bonzo e del suo servitore. Dal punto di vista della struttura, la differenza più rilevante è il fatto che il film procede in ordine cronologico, laddove l’opera inizia in medias res, con i preparativi del matrimonio fra i due protagonisti, per far poi emergere, a poco a poco, alcuni eventi passati, come la morte del padre di Butterfly/O-Take-San o, solo nell’ultimo atto, il fatto che Pinkerton/Anderson si sia risposato. Se dunque l’andamento del film, così lineare, appare meno efficace e suggestiva dal punto di vista drammaturgico, è però interessante come questa scelta influisca sulla recitazione, che è tutt’altro che enfatica, come ci si aspetterebbe, ma anzi composta e trattenuta. La celebre aria Un bel di’ vedremo lascia il posto, nel film di Lang, ad una ripresa, poi ripetuta, in cui O-Take-San, in riva al mare, fissa malinconica l’orizzonte, nella speranzosa attesa dell’arrivo della nave del suo amato. In secondo luogo, la narrazione cronologica mette in risalto come prologo ed epilogo siano simmetricamente segnati da un suicidio, mediante seppuku (termine afferente alla forma scritta, così come harakiri, che dà il titolo al film, deriva dalla forma parlata).
Per una bizzarra e oscura coincidenza, soltanto un anno dopo la prima moglie di Lang, Lisa Rosenthal, si suicidò con una rivoltella dopo aver scoperto la relazione esistente fra suo marito e Thea Von Harbou. I due si sposarono l’anno successivo. Alcuni studiosi ritengono che l’angoscia per l’accaduto, protrattasi durante le indagini della polizia, abbiano segnato inevitabilmente l’animo di Lang, facendo emergere due nodi tematici presenti in tutto il suo lavoro successivo: la colpa e la morte, sempre in stretta correlazione con la polizia e la legge.
La storia di Madame Butterfly ispirò successivamente diverse trasposizioni cinematografiche. Fra le più rilevanti, The Toll of the Sea (1922), di Chester Franklin, con Anna May Wong e Kenneth Harlan; quella omonima del 1932, di Marion Gering, con Sylvia Sidney e Cary Grant; una versione italo-giapponese di Carmine Gallone, con Kaoru Yachigusa e Nicola Filacuridi, fino alla meravigliosa versione queer riletta da Cronenberg, M. Butterfly (1993).
Il film fu distribuito in Italia col titolo Karakiri.
Vittorio Renzi (6 marzo 2016)
Harakiri
[a.k.a. Madame Butterfly]
Germania, 1919
regia: Fritz Lang
soggetto: libretto Madame Butterfly di David Belasco e John Luther Long
sceneggiatura: Max Jungk
fotografia: Max Fassbender
scenografia: Heinrich Umlauff
produzione: Erich Pommer, per Decla-Film
cast: Lil Dagover (O-Take), Niels Prien (Olaf J. Anderson), Paul Biensfeldt (Daimyo Tokuyawa), Rudolf Lettinger (Karan), Meinhart Maur (principe Matahari), Erner Huebsch (Kin-Be-Araki ), Käte Küster (Hanake), Herta Heden (Eva), Georg John (monaco buddista), Loni Nest (bambina)
durata: 87′
première: Berlino, 18 dicembre 1919
[1] Peter Delpeut, Chysanthème e Butterfly. La genealogia di un’eroina impossibile, in “Cinegrafie”, n. 7, Bologna, 1994, p. 17.
[2] Michel Ciment, Fritz Lang, le meurtre et la loi, Gallimard, 2003, p. 24
[3] Lotte H. Eisner, Fritz Lang, New York, Da Capo Paperback, 1976, pp. 25-28.