Nino Oxilia
SINOSSI: Un’anziana dama dell’alta società, Alba d’Oltrevita stipula un patto con Mefisto, per riacquistare la giovinezza in cambio della quale, però, ha il divieto di innamorarsi. Alba, ora giovane e bellissima, è corteggiata da due giovani fratelli, Tristano e Sergio. Quest’ultimo minaccia di uccidersi se lei non lo amerà: lei tuttavia non s’interessa a Sergio, il quale si uccide, e, innamorata, si prepara a sposare Tristano. A questo punto però Mefisto torna per riprendersi la giovinezza che aveva concesso, restituendo la vecchiaia ad Alba che ha infranto il patto.
Le riprese del film avvennero nei primi mesi del 1915 e fu presentato in marzo ad un’anteprima cui parteciparono solo pochi invitati, fra cui alcuni giornalisti che si espressero con grande entusiasmo. Tuttavia, per motivi mai chiariti, il film venne distribuito soltanto più di due anni dopo, «quasi di sfuggita e ridotto a un metraggio di gran lunga inferiore a quello previsto originariamente, anche se il nulla osta della censura non fa rifermimento a ‘condizioni’ o a ‘soppressioni’»[1].
Rapsodia satanica rappresenta l’opposto cinematografico del rivoluzionario realismo di un film come Assunta Spina (1915): in questa sorta di Faust al femminile, tratto da un poema di Fausto Maria Martini del 1915, non si mira al ritmo reale delle cose, al loro scorrere attraverso istanti che parlano di quotidianità; al contrario, ogni fotogramma sembra voler scolpire l’attimo ideale, o l’idea stessa di Bellezza, di Perfezione (ma anche dell’Amore, del Pentimento e del Male, rappresentato da un giullaresco Mefisto), ma certamente più per estetismo che per idealismo. Pare quasi di assistere ad una serie di pose tendenti all’assoluto. In questo senso (e non solo per il decadentismo insito nel soggetto ed esplicito nella messa in scena), si può dire che Rapsodia satanica è un film dannunziano, come e più di molti altri film italiani di quel periodo. Eppure, questo modo di fare e di concepire il cinema, questa presunta “teatralità”, era invece un tentativo di disfarsi proprio dei retaggi del teatro, di supplire all’assenza della parola, al fine di rendere il cinema un’arte, avvalendosi in primo luogo della presenza di una Diva. E la diva per eccellenza del cinema muto italiano fu proprio la Borelli, che sugli schermi dell’anteguerra riportava tutta una serie di suggestioni e fermenti della cultura e dell’immaginario europei:
In Rapsodia satanica, quando le sue braccia si allargano quasi a liberare il corpo dai veli e a imitare i gesti della farfalla, si può dire che raggiunga un grado di stilizzazione imprevisto – che richiama Loïe Fuller e Isadora Duncan – fino a quel momento soprattutto espresso dalla grafica, dalle arti applicate e dalla poesia e dalla danza. La Borelli è la Diva che meglio riesce a condurre gli spettatori nei labirinti e nelle zone oscure dei sentimenti e del desiderio, rispondendo alle voci interiori, giocandosi sempre tutto, anche la vita, per un attimo d’amore. Nella maggior parte le sue eroine sono (…) così affette da bulimia vitale, pur nei languori e crisi esistenziali, da non temere faustianamente (…) di stringere un patto col diavolo per riconquistare l’eterna giovinezza.[2]
Su di lei scrisse persino Antonio Gramsci, in uno dei suoi rari rimandi al mondo del cinema:
Questa donna è un pezzo di umanità preistorica primordiale. Si dice di ammirarla per la sua arte. Non è vero. Nessuno sa spiegare l’arte della Borelli perché essa non esiste. La Borelli non sa interpretare nessuna creatura diversa da se stessa… La Borelli è l’artista per eccellenza della film in cui la lingua è il corpo umano nella sua plasticità sempre rinnovantesi.[3]
Nata a La Spezia nel 1884, all’epoca in cui il film fu girato Lyda Borelli era all’apice della sua carriera. Aveva debuttato nel 1913, sotto la direzione di Mario Caserini, con Ma l’amor mio non muore!. Il successo era stato immediato, così come immediata fu la sua consacrazione a diva del cinema italiano, assieme alla collega Francesca Bertini. Rapsodia Satanica fu girato nel 1914, ma uscì soltanto tre anni dopo, nel 1917, che fu poi anche l’anno della morte del regista ventottenne Nino Oxilia, ucciso dallo scoppio di una granata austriaca alle pendici del Monte Tomba. Fu inoltre il primo film italiano ad avvalersi di una partitura integrale scritta da un celebre compositore, Pietro Mascagni, messo sotto contratto per cinque anni dalla casa di produzione romana Cines. Di recente, nel 2014, il gruppo post rock emiliano Giardini di Mirò ha eseguito una nuova versione della colonna sonora, portandola in tour e proiettando, contemporaneamente, una versione colorata del film.
Vittorio Renzi (13 aprile 2015)
Rapsodia satanica
[Satanic Rhapsody]
Italia, 1914-1917
regia: Nino Oxilia
soggetto: poema di Fausto Maria Martini
sceneggiatura: Alberto Fassini
fotografia: Giorgio Ricci
musica: Pietro Mascagni
produzione: Società Italiana Cines
cast: Lyda Borelli (contessa Alba d’Oltrevita), Andrea Habay (Tristano),
Ugo Bazzini (Mefisto), Giovanni Cini (Sergio), Alberto Nepoti
lunghezza: 4 (?) rulli, 905 metri
durata: 55′
data di uscita: 5 luglio 1917
[1] Vittorio Martinelli, Il cinema muto italiano 1917, “Bianco e Nero”, numero speciale, Roma, Nuova ERI, Edizioni RAI, 1991, p. 246.
[2] Gian Piero Brunetta, Cinema muto italiano, in Storia del cinema mondiale, vol. 3, tomo I, Torino, Einaudi, 2000, p. 50-51.
[3] Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 336-337, riportato in G.P. Brunetta, Il cinema muto italiano, Bar-Roma, Laterza, 2008, p. 94.