Frank Borzage
SINOSSI: A Parigi vive Chico, ateo, miscredente e orgoglioso che per lavoro pulisce le fogne. Il ragazzo non ha grandi ambizioni, vorrebbe solo lavorare per strada, alla luce del sole, e invidia il lavoro del suo vicino di casa, Gobin, che lava le strade. Una sera incontra Diane, una ragazza in fuga dalla sorella Nana, prostituta e alcolizzata che non fa che picchiarla e frustarla. Sorpresi da un poliziotto, i due si fingono coniugi, ma ora Chico deve prendere Diane a casa con sé per qualche giorno, almeno fino a un controllo di conferma da parte della polizia. In quei pochi giorni i due si innamorano e decidono di sposarsi per davvero, ma proprio allora scoppia la guerra e Chico e Gobin devono partire per il fronte. Chico e Diane si ripromettono allora di pensarsi a vicenda alle ore 11:00 di ogni giorno. Passano gli anni e un brutto giorno a Diane giunge la notizia della morte di Chico. E’ disperata e in procinto di cedere alla corte di un ufficiale, quando, all’improvviso, Chico torna da lei, cieco ma vivo.
Chico lavora “in basso”, letteralmente, nelle fogne, e sogna la superficie. Ma, allo stesso tempo, vive nella soffitta di un edificio parigino, all’ultimo piano: “in alto”, letteralmente e metaforicamente. Sì, perché questo ragazzo dalla vita umile ha un cuore pieno di entusiasmo e di vitalità e Diane si sente tornare la vita dentro anche solo standogli vicino. Dalla finestra della soffitta di Chico, non a caso, si gode di una bellissima vista sui tetti di Parigi, per non parlare della luna e delle stelle. Oltre a questo, un camminamento consente di passeggiare liberamente fra i tetti: il cuore grande di Chico lo mette in connessione con tutte le cose e tutte le cose sono connesse con lui. E’ povero, ma ha tutto, come un re, perché è pieno di speranza e di fiducia. Anche Diane ci appare per la prima volta “in basso”, letteralmente e metaforicamente: è accasciata in terra, mentre la sorella, Nana, la percuote con una frusta e le ordina poi di andarle a comprare dell’altro assenzio. E, successivamente, anche dopo che Chico l’ha salvata dalle percosse della sorella, la ragazza rimane a terra, priva di volontà, appoggiata alla ruota di un carro, lo sguardo fisso nel vuoto e pensieri di morte che le attraversano la fronte. Ad un certo punto infatti tenta di afferrare un coltello che è caduto a Chico per togliersi la vita, ma lui la ferma.
Poco prima di questo incontro che le salverà la vita in ogni modo possibile, Diane, ancora totalmente sottomessa a Nana e incapace di ribellarsi, stretta nel suo scialle, si affretta lungo una strada in cerca dell’assenzio per la sorella, ed è preceduta dalla macchina da presa che la inquadra, carrellando all’indietro mentre lei avanza. Questo piano sequenza sarà ripetuto qualche scena più avanti. Le ragazze sono orfane e i loro due ricchi zii sono tornati da un viaggio, ma vedendo il loro dubbio stile di vita, chiedono a Diane se stiano per vaso facendo qualcosa di male. E Diane, che è incapace di mentire, risponde di sì, pur senza accennare esplicitamente all’alcolismo e alla prostituzione di Nana. Gli zii, disgustati, se ne vanno rifiutandosi aiutarle. Nana, accecata dall’ira rincorre la sorella in strada. Ed ecco un secondo piano sequenza, molto simile al primo, in cui la macchina da presa precede le due donne, indietreggiando.
Ma è il terzo movimento di macchina ad essere straordinario nel suo virtuosismo ricercato, oltre che nella sua durata insolita. Si tratta della scena in cui Charles porta a casa per la prima volta Diane. Il suo appartamento si trova all’ultimo piano di un vecchio edificio. La macchina da presa inizia a seguirli non appena percorrono il corridoio che segue l’ingresso e poi, non appena i due iniziano a salire le scale, si alza lentamente, attraversando le sezioni dei vari piani e li segue su fino all’ultimo piano. Ebbene, questo piano sequenza dura, virtualmente, la bellezza di un minuto e trenta secondi. Virtualmente perché, in effetti, vi è uno stacco, a un certo punto della salita, ovvero quando Charles si ferma prima dell’ultima rampa per accendere un fiammifero. Lo stacco è dunque non intenzionale e necessario solo al fine di modificare l’illuminazione della scena. In un’altra sequenza, più avanti, quando Chico sta per partire soldato e i due decidono di sposarsi lì, nella soffitta, con due medagliette religiose da indossare al posto degli anelli, vengono inquadrati leggermente dall’alto, in diagonale, come se qualcuno li stesse spiando con benevolenza dal soffitto. E’ un’angolazione che esprime solennità: in piedi e vicini, nella loro intimità, i due esprimono il loro desiderio di far partecipe il Cielo del loro amore, di renderlo sacro e innalzarlo. L’operatore alla macchina è Ernest Palmer, che ha già collaborato diverse volte con Borzage, oltre ad aver lavorato spesso anche con John M. Stahl.
Siamo nel 1927 e, da qualche anno ormai, la macchina da presa si è liberata dalla sua fissità e operatori e registi vanno sperimentando le varie e diverse possibilità narrative e le modalità di riscrittura dello spazio che essa può offrire. Ad aprire la strada erano stati, in particolare, Friedrich W. Murnau e il suo operatore Karl Freund. Preceduto dalla sua grande fama, Murnau era giunto da poco a Hollywood, negli studi della Fox. Il suo Sunrise: a Song of Two Humans (Aurora, 1927), sempre con Janet Gaynor, fu portato a termine prima di 7th Heaven, anche se uscì qualche mese dopo, e Frank Borzage fu tra quei registi (un altro fu John Ford) che si recarono sul set per assistere alle riprese. E così il suo film «beneficiò degli esperimenti con la macchina da presa e le scenografie che la presenza di Murnau alla Fox ispirò»[1]. Borzage non era certo un novellino, all’epoca: attivo sin dai primi anni Dieci, aveva già firmato la regia di quasi sessanta film. Tuttavia, fino a quel momento, era ricorso di rado ai movimenti di macchina, preferendo concentrarsi sulla caratterizzazione dei personaggi e sul lavoro con gli attori. Ma dopo ciò a cui aveva aveva assistito sul set di Sunrise cambiò radicalmente rotta e la sua regia (come quella di altri suoi colleghi americani) si fece, in quei pochi anni rimasti prima dell’avvento del sonoro, molto più sperimentale e dinamica. L’influenza di Murnau si farà sentire ancora di più nel film successivo, Street Angel (L’angelo della strada, 1928).
Janet Gaynor è perfetta come damsel in distress: piccolina, rispetto all’imponente statura di lui, con due grandi occhi che all’inizio esprimono fragilità e smarrimento, privi di ogni speranza e volontà; mentre, più avanti, si riempiono di nuove lacrime, che sono lacrime di gioia: «Non sono abituata ad essere felice – dice a un certo punto, e poi aggiunge – Fa male!». La sua interpretazione è toccante, ma, al di là delle sue buone doti di interprete, la Gaynor ha in primo luogo uno di quei visi che la macchina da presa ama a prima vista e non lascia più. Non si contano i lunghi primi piani che Borzage le dedica e non stupisce affatto che, con questo film, ne abbia fatto una star. Janet e il suo personaggio sprigionano una dolcezza e una femminilità cui è impossibile resistere. E infatti lo stesso Chico, che inizialmente ostenta indifferenza alla presenza della ragazza nella sua casa, finirà poi per ritrovarsene innamorato. E mentre lei trae coraggio dal loro amore, lui acquisisce una maggiore sincerità con se stesso e con Diane, al di là della sua maschera da spaccone. Ed è commovente quando, sul punto di partire per il fronte, nasconde la testa nel seno di lei e le dice di avere paura. A seguire, un lungo bacio che i due si scambiano muovendosi per tutta la stanza: uno dei più belli e delicatamente erotici della storia del cinema.
Un casting indubbiamente ben riuscito, tanto è vero che la Fox, visto il grande successo del film – trainato anche dalla canzone Diane, di Erno Rapee – li riproporrà insieme nel film successivo di Borzage, Street Angel, ambientato a Napoli, con il personaggio della Gaynor nuovamente in bilico tra prostituzione e redenzione. La coppia Gaynor/Farrell fu così gradita dal pubblico che divenne inseparabile, perdurando per anni e sui set di ben dodici film. Merita una menzione anche la splendida interpretazione di Gladys Brockwell: la sua Nana è una commistione di perfidia, perversità e disperazione. Attrice di gran classe, ma sempre confinata in ruoli di secondo piano, la Brockwell aveva lavorato con Borzage sin dalla metà degli anni Dieci. La sua carriera fu troncata purtroppo da una prematura morte dovuta a un incidente d’auto.
7th Heaven, rivisto oggi, fa un effetto strano, tanto è «old-fashioned»[2], un film di un altro tempo, come non se ne fanno più e come non se ne possono più fare, con quel finale che è tanto irreale quanto potente nella sua emotività e fieramente e romanticamente sprezzante di ogni realismo. Il riferimento che viene immediato alla mente è Frank Capra: come nei suoi film, infatti, anche qui l’amore è colorato dai toni della fiaba, dell’utopia, quasi di una fuga dalla realtà per inseguire un sogno. Tutta la storia è raccontata con questo sottofondo da romanzo d’appendice, eppure i sentimenti, come nei film di Capra, emergono prepotenti e veri nella loro assolutezza, trapassando la finzione e traboccando sui volti degli attori. Ed è questo il motivo del suo imperituro successo. Perché, anche se era di là da venire, il sogno di Borzage in 7th Heaven è già l’american dream per eccellenza, quello di Roosevelt e del New Deal.
Curiosamente, le scene ambientate al fronte, fra bombe e sparatorie, furono girate dal collega di Borzage presso la Fox, un tale John Ford… Borzage infatti non voleva saperne di filmarle, pare per la sua avversione alla guerra. C’è da dire che, dal punto di vista narrativo e figurativo, lo spostamento improvviso da quel microcosmo a sé stante della Parigi degli umili alla trincea rompe la coesione dell’insieme. Senza contare che, per diversi minuti, sia durante la partenza dei soldati al fronte che nelle prime immagini della guerra, perdiamo completamente il contatto visivo con Chico, ed è come se stessimo guardando del materiale di repertorio. Sono indubbiamente le scene meno sentite ed emotive di tutto il film, che risentono probabilmente dell’enorme successo del nuovo filone dei film di guerra iper-realistici come The Big Parade (La grande parata, 1925), di King Vidor, What Price Glory? (Gloria, 1926), di Raoul Walsh, o Wings (Ali, 1927), di William A. Wellman, che uscì solo un mese prima del film di Borzage. La scena di Chico che muore fra le braccia del prete è scorretta nei confronti dello spettatore, un “colpo basso” per estorcere ancora più commozione. D’altra parte, quella morte apparente, mostrata oltre che raccontata dal prete, dà più risalto alla lettura del finale in senso fideistico o miracolistico, con quel raggio di luce che illumina Diane e Chico abbracciati, nell’ultima inquadratura, col prete lì in piedi su un lato. Ma se nel dramma di Austin Strong, da cui il film è tratto, «i temi religiosi sono sviluppati in una maniera alquanto didattica»[3], qui sono piuttosto i sentimenti a costituire la fonte della salvezza. Nel finale, dunque, ciò che avviene è non tanto, o non solo, un miracolo di fede, quanto un miracolo d’amore, che è quello che sicuramente più interessava a Borzage.
Nella prima edizione degli Academy Awards, nel 1929, 7th Heaven ricevette ben tre Oscar: alla regia e alla sceneggiatura e a Janet Gaynor, che l’Academy premiò anche per le sue interpretazioni in Sunrise e in Street Angel. Il 10 settembre, qualche mese dopo la sua uscita nelle sale, la Fox lo fece rieditare con una colonna sonora Movietone e alcuni effetti sonori (ad esempio si sentono i personaggi bussare alla porta). Le didascalie, basate sul testo teatrale di Austin Strong, riportano numerose battute, soprattutto di Chico, alcune delle quali fungono da leitmotiv: «Io sono un tipo eccezionale!» («I’m a very remarkable fellow!») ripete ostentando quella grande fiducia in sé e ottimismo che lo caratterizzano; e quel «Chico… Diane… Heaven» che durante la loro separazione forzata i due si ripetono, ognuno nella sua solitudine, per farsi coraggio.
Nel 1936, la Fox affidò il remake del film al regista Henry King e alla coppia James Stewart/Simone Simon. Ma la magia non si ripeté.
Vittorio Renzi (29 gennaio 2016)
7th Heaven (Settimo cielo)
Usa, 1927
regia: Frank Borzage
soggetto: testo teatrale omonimo di Austin Strong
sceneggiatura: Benjamin Glazer
fotografia: Ernest Palmer
montaggio: Katherine Hilliker, H.H. Caldwell
musica: “Diane”, di Erno Rapee
scenografia: Harry Oliver
costumi: Kathleen Kay
produzione: William Fox, per Fox Film Corporation
cast: Janet Gaynor (Diane), Charles Farrell (Chico), Gladys Brockwell (Nana), David Butler (Gobin), Marie Mosquini (Mme Gobin), Albert Gran (Papa Boul), Emile Chautard (padre Chevillon), Ben Bard (col. Brissard), Brandon Hurst (zio George), Jessie Haslett (zia Valentine), Lillian West (Arlette), George E. Stone
lunghezza: 12 rulli
durata: 110’
première: Los Angeles, 6 maggio 1927
[1] Lea Jacobs, The Decline of Sentiment. American Film in the 1920s, University of California Press, 2008, p. 265.
[2] Ivi, p. 263.
[3] Ibidem.