Friedrich W. Murnau
SINOSSI: Il portiere del Grand Hotel Atlantic di Berlino, dapprima rispettato e riverito, ormai anziano e debole viene degradato dal direttore e confinato a servire ai bagni. Il vecchio, privato della sua divisa di cui andava tanto fiero, si sente crollare il mondo addosso, anche perché i vicini di casa e gli abitanti del suo quartiere, che prima tanto lo ammiravano, ora hanno preso a deriderlo. Anche la moglie e la figlia, che si è appena sposata, si vergognano di lui. Ma grazie a un’eredità da uno zio d’America, l’uomo può fare ritorno nell’albergo, e questa volta in veste di ricco cliente.
La regia del film era stata originariamente assegnata a Lupu Pick, come terzo capitolo della trilogia comprendente Scherben (Shattered, 1921) e Sylvester (New Year’s Eve, 1924), ma poi alcuni dissidi fra il regista e lo sceneggiatore Carl Mayer portarono la Ufa a scegliere l’altro abituale collaboratore di Mayer, ovvero Murnau. Il film in questione riveste un’importanza epocale per almeno tre ragioni: innanzitutto è quello che più di ogni altro in quegli anni afferma perentoriamente l’autonomia del linguaggio cinematografico, bandendo l’uso di cartelli o didascalie – e di conseguenza anche la tradizionale divisione in atti o capitoli, di chiara derivazione letteraria e teatrale – per spiegare o commentare le vicende del film. Der letzte Mann contiene infatti due soli cartelli: quello iniziale, che introduce il tema del film (ovvero l’incertezza che ci riserva il futuro, indipendentemente dalla posizione sociale che ricopriamo) e un altro subito prima della sequenza finale, sul quale mi soffermerò più avanti. Questo lo fa rientrare nel ristretto novero dei titelloser film (film privi di cartelli/didascalie), assieme ai due film citati di Pick e a pochi altri.
In secondo luogo (conseguente al primo), l’industria del cinema, da questo momento in poi, abbraccerà senza più riserve tutte le possibilità linguistiche offerte dai movimenti di macchina, che fino a quel momento veniva tolta dal suo treppiede sempre con molta reticenza o prudenza, soprattutto in Europa. Infine, il film si pone come spartiacque per la carriera di Murnau, dal momento che, grazie ad esso, il suo nome ottiene finalmente il prestigio internazionale.
Ecco una tragedia tedesca per eccellenza, che non è comprensibile se non in un paese dove l’uniforme è sovrana, è Dio. Uno spirito latino stenta a concepirne la portata tragica.[1].
La divisa o livrea del vecchio portiere d’albergo, è un oggetto di primaria importanza. Essa corrisponde a uno status e conferisce dei poteri a colui che la indossa: quelli di essere ammirato, riverito e considerato non solo dai colleghi e dal datore di lavoro, ma anche e soprattutto dai familiari, dai vicini di casa, dai dirimpettai. Pur lavorando in un prestigioso hotel, infatti, l’anziano protagonista vive in un edificio popolare nel cui squallore la sua livrea risalta ancora di più. Essa riveste la stessa importanza di una divisa militare, almeno per il portiere, ed è infatti un saluto militare quello che rivolge a tutti quelli che incontra. La divisa lo rende più alto, (grazie a piattaforme rialzate o inquadrature dal basso), più robusto, più forte, egli è l’eroe della povera gente e dei bambini vestiti di stracci che scorrazzano per il suo quartiere. Ma un giorno tutto questo finisce, nel momento in cui il vecchio cede sotto il peso di un pesante baule. E’ l’inizio del suo declino e della sua rovina. La scena in cui viene – è proprio il caso di dire – destituito dalla sua uniforme è fra le più drammatiche del film: gli viene quasi strappata a forza da un giovane impiegato dell’albergo, il che causa anche la perdita di un bottone. Viene appesa in un armadio, a vista, dove il portiere continua a fissarla con lo sguardo sgomento e instupidito: allora la mdp si avvicina alla livrea di cui vediamo scintillare le rifiniture dorate.
L’altro oggetto simbolo del film è la porta girevole dell’hotel, dinnanzi alla quale il portiere fieramente si pavoneggia e il cui movimento egli si illude di controllare, ma dal quale è alla fine lui stesso controllato, in quanto esso rappresenta probabilmente proprio il vorticare caotico e incontrollabile della metropoli e della vita stessa.
Si è parlato molto di realismo, per questo film, anche in relazione al genere di cui farebbe parte, ovvero il Kammerspiel, o teatro da camera. Eppure ciò contrasta in buona parte con l’aspetto visionario e grottesco della rappresentazione. Come mai? Diciamo che, da un lato, la qualità della scrittura di Mayer (l’autore di Kammerspiel per eccellenza) e l’occhio per la composizione ricca di dettagli di Murnau non potevano che esercitare una forte sensazione di realismo, sia rispetto al cinema più corrivo dell’epoca, così rigido nelle sue convenzioni riprese dal teatro borghese e dal melodramma, sia anche rispetto a certi caligarismi dai quali sia Mayer che Murnau avevano da tempo preso le distanze. Tuttavia il realismo di Der letzte Mann è da rintracciare semmai all’interno di un discorso di soggettivazione della realtà che è riscontrabile a tutti i livelli della realizzazione del film, la cui ottica si pone in maniera sostanzialmente aderente a quella del protagonista, condividendone il punto di vista, come mai prima era stato tentato.
Soggettivizzazione che assume spesso aspetti deformati e allucinatori propri dell’espressionismo, più che del Kammerspiel di un Lupu Pick o di un Pabst. Senza contare, in certi momenti, l’istrionismo (comunque contenuto, rispetto ad altri film) di Humphrey Jennings, o il fatto che i personaggi non abbiano un nome, o il fatto che tutti, escluso il portiere, rimangano opachi, bidimensionali, a volte persino burattineschi (i due fattorini che dormono con la testa appoggiata l’uno all’altro, le vicine pettegole, etc). E tuttavia nell’espressionismo (e soprattutto nella sua deriva caligarista), anche la psicologia del personaggio principale veniva per lo più annullata, mentre qui l’intero corpo del film si dispone in modo da rivelarne l’interiorità. Potremmo dunque parlare, al limite, di realismo psicologico: un effetto-realtà accuratamente progettato e pianificato in termini puramente cinematografici, tramite ardite sperimentazioni tecnico-linguistiche in procinto di rivoluzionare irreversibilmente, come si è detto, il cinema mondiale.
Lo scenografo Robert Herlth ha rivelato alla Eisner non solo tutti i trucchi della scenografia prospettica, dei modellini di grattacieli e di tram e automobili in movimento, minuscole silhouette di esseri umani ritagliate e dipinte (come faranno poi Lang e i suoi scenografi in Metropolis, tre anni dopo). Ma anche di come venne fuori l’idea di quella che poi fu chiamata entfesselte kamera (cinepresa scatenata). Si sarebbe trattato del risultato di un lavoro di équipe i cui protagonisti furono lui stesso, l’operatore Karl Freund e Murnau che stimolava, con le sue richieste, sempre nuove sfide sul piano tecnico. E così la macchina da presa fu montata su una bicicletta e fatta scendere in ascensore (il piano sequenza iniziale), su una scala semovente per salire una scala, fissata a un cestello appeso a un cavo e lanciata attraverso il cortile, per riprodurre l’illusione del suono di una tromba che raggiunge l’orecchio del portiere; o, ancora, usata con dolly rudimentali in un’epoca in cui ancora non c’erano le gru.
Tali virtuosistici movimenti furono resi possibili da un nuovo ritrovato tecnologico: la Stachow, una macchina da presa del peso di soli otto chili, e quindi estremamente maneggevole, che in alcuni casi veniva indossata da Freund attraverso un’imbrigliatura (una lontana progenitrice della Steadycam di Garrett Brown!), come nella celebre scena, tutta in soggettiva, della stanza che “balla” durante la sbronza del portiere: proprio qui, forse per la prima volta, anziché puntare sulla fisicità della performance dell’ubriaco, vecchia come il cinema (Chaplin, Keaton e altri comici la recitavano già nelle pantomime dei vaudeville), si vogliono rendere visivamente gli effetti che l’alcool ha sulla mente, tramite movimenti ondivaghi della cinepresa, sfocature, impressioni multiple, tutto un delirio visivo ai limiti dell’astrattismo e dell’avanguardia, immagini costruite su pure variazioni di luce, di scale di grigio, di movimento: il cinema ridotto alla sua stessa radice (κίνησις).
Stando a quanto raccontava Karl Freund, le invenzioni tecniche erano state per gran parte ideate da Carl Mayer, il quale, sosteneva, era molto più interessato alle questioni tecniche rispetto a Murnau. Ma altri fidati collaboratori di Murnau, che parteciparono a questo o ad altri film, smentirono questa asserzione, sostenendo che Mayer si recava di rado sul set e che Murnau sovrintendeva invece a tutte le fasi della lavorazione del film, dalle luci, alle inquadrature. E’ la stessa conclusione a cui giunge la Eisner, anche esaminando gli altri film di Murnau nei quali Mayer non era coinvolto (Faust) o quelli in cui, pur essendone co-autore, non era presente nella fase delle riprese (Sunrise). Del resto, basta scorrere alcuni degli scritti di Murnau che ci sono pervenuti per verificare quanto egli fosse coinvolto direttamente e attivamente in queste innovazioni di regia. In una sua lettera egli elogia, fra tutte le specificità del cinema, proprio quella della mobilità della mdp: «Si può dare vita a tutto questo grazie a questo strumento meccanico completamente smaterializzato»[2]; e già alcuni anni prima di Der letzte Mann, aveva cominciato a parlare di «film architettonico» e di «cinepresa smaterializzata», in riferimento alle nuove e vaste possibilità di costruzione dello spazio filmico offerte da tecniche di ripresa all’avanguardia[3].
I movimenti di macchina ovviamente non sono più una novità nel 1924, specie negli Stati Uniti, ma oramai neanche in Europa. In Germania, già da qualche anno, lo stesso Carl Mayer, insieme al regista Lupu Pick, inizia a concepire un uso più insistito di long take e piani-sequenza, anche in assenza di personaggi, in particolar modo in Sylvester, allo scopo di costruire atmosfere e di rappresentare simbolicamente lo stato psichico dei personaggi, supplendo in tal modo alla riduzione o all’assenza delle didascalie: l’intero significato del film andava comunicato attraverso le immagini. In Der letzte Mann tuttavia questa costruzione del senso del film in termini eminentemente filmici raggiunge livelli inusitati, sia in termini di complessità che di risultati, lasciando a bocca aperta spettatori e critici di quegli anni, a partire dal piano sequenza iniziale con la celebre discesa nell’ascensore, dalle cui pareti di vetro di scorge l’atrio dell’hotel con il viavai degli ospiti, cui segue, dopo uno stacco d montaggio, l’avanzamento della mdp verso la porta girevole all’ingresso dell’hotel, davanti alla quale si ferma per contemplare la città oltre al vetro, e il gran da fare che si dà il portiere alle prese con i clienti dell’hotel.
Come spiega David Cairns nel suo documentario sul film[4], la cinepresa di Murnau e Freund si muove per tutta una serie di motivi: seguire i movimenti di uno o più personaggi; rappresentare il punto di vista di un personaggio in movimento; drammatizzare un momento in chiave psicologica; rivelare informazioni importanti per il prosieguo della storia; oppure, semplicemente, muoversi per la gioia di muoversi, per celebrare lo spazio e il movimento stesso e rivelarne le sue proprietà. Sarà poi forse partendo proprio da quest’ultimo aspetto che, di lì a poco, la macchina da presa, nelle mani di altri registi, soprattutto statunitensi, diventerà sempre più autonoma, a volte anche in maniera gratuita e slegata dalle esigenze del testo, in una gara al movimento di macchina più originale e virtuosistico: la “cinepresa scatenata”, cioè, viene a costituire la nuova “attrazione”, così come era accaduto nelle primi anni di vita del cinema e come ancora accadrà man mano che faranno la loro comparsa le varie innovazioni tecnologiche (il colore, il sonoro, il formato, il 3D, il digitale, etc.).
Non è però il caso di Murnau. In questo, come nei film successivi, la macchina non si muove mai a caso: lo scopo è sempre quello di rappresentare l’incontro/scontro tra il mondo esteriore e il mondo interiore di uno o più personaggi. Ed è per questo che certi carrelli in “soggettiva” non sono poi quasi mai delle soggettive tout court, ma anche qualcos’altro:
la cinepresa scatenata ha operato dei “carrelli in circuito chiuso” (…), in cui non si accontenta più di seguire dei personaggi, ma si sposta fra di essi. In funzione di questi dati Mitry proponeva la nozione di immagine semi-soggettiva generalizzata per designare questo “essere-insieme” della macchina da presa: non si confonde con il personaggio, non è nemmeno più aldifuori, è con lui. (…) Oppure ciò che Dos Passos chiamava giustamente “occhio della cinepresa”, il punto di vista anonimo di qualcuno non identificato tra i personaggi.[5]
Un caso eclatante di semi-soggettiva è quello in cui il portiere segue a capo chino un’impiegata dell’hotel che lo conduce verso il suo nuovo luogo di lavoro, i bagni: inizialmente la mdp segue il portiere che a sua volta segue la donna; poi lo sopravanza trasformandosi nel suo sguardo; infine, lascia indietro anche la donna e svolta l’angolo di un corridoio prima che lo facciano i due personaggi, acquisendo così una sorta di autonomia, o fungendo da premonizione: si ferma infatti proprio davanti alla porta dell’armadio in cui sono riposti sia il semplice camice bianco che l’uomo dovrà ora indossare, al posto della sua amata livrea, sia gli asciugamani che vengono deposti uno dopo l’altro sul suo braccio dalla donna fino a coprire completamente il suo volto. Successivamente, sulla destra, ci viene mostrata una grande porta a vetri oltre la quale una rampa di scale scende inghiottita dall’oscurità. Laggiù in fondo si trovano i bagni. E su quei vetri scuri, per un istante, si riflette la fisionomia derelitta del vecchio ex portiere posto crudelmente dinnanzi al suo destino, in procinto di essere inghiottito una volta e per sempre da quell’ingresso infernale, esattamente come accade a Hutter nel momento in cui penetra nel castello di Orlok in Nosferatu (1922).
Nella drammatica scena immediatamente precedente, quella del colloquio col direttore, apparentemente più statica, la mdp si ferma fuori dalla porta a vetri dell’ufficio di questi, seduto alla sua scrivania a scrivere, mentre il portiere è in piedi alle sue spalle. Finito di scrivere, il direttore si alza e porge in silenzio la lettera di licenziamento al portiere. A quel punto la mdp inizia ad avanzare lentamente e, tramite una rapida dissolvenza incrociata, “attraversa” la porta a vetri (oggi si userebbe il digitale) e va a fermarsi sul primo piano del portiere. Ora stiamo leggendo la lettera con lui. Poi quel foglio, che il portiere tiene nella mano tremante, va ad occupare l’intera inquadratura. La notizia del nuovo impiego a lui riservato ci viene comunicata dall’apparire in sovrimpressione, nello spazio centrale del foglio: l’immagine dell’impiegata che gli porge degli asciugamani che lui a sua volta dovrà porgere ai clienti nei bagni. Subito dopo, il colpo finale, risolto con il dettaglio di un’unica frase: quella in cui c’è scritto che il motivo della rimozione dall’incarico di portiere risiede nella sua età ormai troppo avanzata. Per rendere l’’improvvisa fragilità del portiere che legge e rilegge più volte quella frase, la mdp si muove sulle righe del foglio oscillando da sinistra a destra, poi da destra a sinistra per poi ricominciare. Un esempio di uso del dettaglio, soggettive psicologiche e “strategia della tensione” di cui si ricorderà bene un grande ammiratore di Murnau: Alfred Hitchcock.
Non bisogna comunque pensare che i movimenti di macchina siano preponderanti rispetto ad altri aspetti: l’ideazione ingegnosa delle scenografie, l’uso dell’illuminazione, il montaggio, la recitazione: tutto concorre al risultato finale. Oltre alla già citata visione in prospettiva dei palazzi e delle automobili fuori dall’hotel, si può ricordare la porta girevole gigantesca e distorta nel sogno da ubriaco e, più in generale, i vasti e semivuoti ambienti dell’hotel, le superfici lisce e rifrangenti la luce (i pannelli di vetro, le strade bagnate dalla pioggia che sembrano dar vita a una composizione quasi impressionistica[6]); e poi il “balletto” del fascio di luce proiettato dalla torcia del guardiano lungo i corridoi oscuri dell’hotel; in altre occasioni, Murnau si avvale di mezzi di cui aveva già fatto uso in precedenza, come nella scena in cui, dopo aver trafugato la livrea ed essere fuggito dall’hotel, il vecchio si appoggia a un muro, si volta e ha la sensazione che la facciata dell’hotel gli cada addosso: un trucco quasi identico a quello che aveva usato in una celebre sequenza di Phantom (Fantasma, 1922).
In diversi momenti la macchina si ferma e si concentra sulla performance attoriale, ad esempio nella scena in cui la figlia del portiere si sta preparando per le sue nozze e il padre la osserva felice muoversi da una parte all’altra della stanza, quando l’occhio gli cade sul vestito da sposa appeso all’appendiabiti. Allora il suo sguardo si fa malinconico, a capo chino osserva la figlia e scuote lentamente la testa in una triste resa all’inevitabile (la figlia che si sposerà e uscirà dalla casa paterna), e così lei corre ad abbracciarlo e a consolarlo. Tutto questo viene risolto con un utilizzo sopraffino del montaggio (la torta, l’abito da sposa, i primi piani sul portiere e sua figlia). In questa scena, scrittura, recitazione e regia dimostrano appieno come si possa fare a meno di didascalie esplicative. Qui Murnau si dimostra fra l’altro un ottimo direttore d’attori, anche di attori già famosi e di grande personalità come Jannings (invecchiato dal trucco, dato che all’epoca aveva solo quarant’anni), che persuase a non “strafare” e a recitare il meno possibile nei momenti più drammatici. In certi casi Jannings era recalcitrante rispetto a tali limiti, ma quando poi vedeva l’effetto finale nelle proiezioni dei giornalieri si trovava quasi sempre d’accordo col suo regista. Era la prima volta che condividevano un set, ma i due lavoreranno insieme anche nei due film successivi, Herr Tartüff (Tartufo, 1926) e Faust (1926).
Der letzte Mann, come accennavo prima, ha il sapore un dramma che sconfina con la farsa. Un po’ come sarà anche per il successivo Herr Tartüff, sotto l’egida del testo di Molière. Il registro dominante anche qui è quello del grottesco che a tratti fa pensare alle caricature di George Grosz: i ghigni e gli atteggiamenti delle vicine pettegole nel momento in cui si prendono gioco del portiere “detronizzato”, i cui volti in primo piano vengono a sovrimporsi nell’inquadratura, come accadrà con quelli bramosi degli spettatori dello show della falsa Maria in Metropolis.
Ciononostante, se gli autori avessero potuto licenziare il film con il finale originario che avevano in mente, l’aspetto drammatico avrebbe alla fine prevalso e il film sarebbe risultato probabilmente troppo pesante da digerire per il poco sofisticato pubblico berlinese, della cui reazione la Ufa non poteva non tenere conto. Si sarebbe infatti concluso subito dopo la scena in cui vediamo il vecchio ex portiere abbandonato sulla seggiola nel bagno, con il guardiano notturno che lo ricopre col suo cappotto e gli accarezza il viso. Invece a quel punto compare l’unica didascalia (se si esclude quella introduttiva) con cui gli autori corrono (o fingono di correre) ai ripari e il cui testo vale la pena di riportare per intero:
«Qui, nel luogo della sua umiliazione, il vecchio uomo avrebbe buttato via miserabilmente il resto della sua vita, e qui la storia, strettamente parlando, sarebbe finita. Ma l’autore se l’è preso a cuore, così gli fa dono di un epilogo, raccontando una storia che, sfortunatamente, di solito non accade nella vita reale».
Non può sfuggire la pur sottile ironia di questo testo alla luce dell’ultima sequenza. Il registro del grottesco scorre sottopelle per tutto il film, è vero, ma ora improvvisamente tutto diviene così improbabile, così incredibile da risultare palesemente falso e valorizzare ancora di più, per contrasto, la scena precedente nei bagni. Un sabotaggio dall’interno, si potrebbe quasi pensare. Del resto, per Carl Mayer non era la prima volta: già in Caligari, lui, il co-autore Janowitz e il regista Wiene, erano stati costretti a modificare il finale inserendo il film in una cornice falsamente consolatoria, riuscendo a inserirvi delle note ambigue capaci di minare, almeno in parte, il lieto fine. In Der letzte Mann questo è ancora più evidente. Come sottolinea ancora Cairns, in quel finale c’è “troppo cibo, troppa felicità, troppa giustizia poetica, troppa ironia, troppa caricatura”[7].
Un troppo che stroppia e che, soprattutto, si autodenuncia in quanto finzione e farsa. Tuttavia, volendo, si potrebbe interpretare questo finale anche come l’ultimo sogno dell’ultimo uomo, ancora lì seduto sulla seggiola nella semioscurità del bagno di un hotel, da tutti deriso e poi da tutti dimenticato.
Il film è stato ricostruito e restaurato da Luciano Berriatúa e Camille Blot-Wellens tra il 2001 e il 2002, sulla base del negativo originale tedesco, incompleto, e da vari materiali, tra copie e stampe, sia americani che europei.
Vittorio Renzi (2 febbraio 2018)
Der leztze Mann (L’ultima risata)
[a.k.a. L’ultimo uomo / The Last Laugh]
Germania, 1924
regia: Friedrich Wilhelm Murnau
sceneggiatura: Carl Mayer
fotografia: Karl Freund [e Robert Baberske]
musica: Giuseppe Becce
scenografia: Robert Herlth; assistente: Walter Röhrig
trucco: Waldemar Jabs
aiuto regia ed effetti speciali: Edgar G. Ulmer
produzione: Erich Pommer, per Universum Film [UFA]
cast: Emil Jannings (portiere d’albergo), Maly Deschaft (sua nipote), Max Hiller (lo sposo di lei), Emilie Kurz (la zia dello sposo), Hans Unterkirchen (direttore dell’albergo), Olaf Storm (giovane ospite), Hermann Vallentin (ospite grasso), Emmy Wyda (vicina magra), Georg John (guardiano notturno)
lunghezza: 7 rulli, 2.036 mt
durata: 75’/90’
première: Berlino, 23 dicembre 1924
[1] Lotte H. Eisner, Lo schermo demoniaco, Roma, Editori Riuniti, 1991 [1952], p. 204.
[2] L.H. Eisner, Murnau. Vita e opere di un genio del cinema tedesco, Padova, ALET, 2010, p. 87.
[3] Andrea Minuz, Friedrich Wilhelm Murnau. L’arte di evocare fantasmi, Fondazione Ente dello Spettacolo, 2010, p. 80-81.
[4] Documentario reperibile nell’edizione inglese del dvd o Blu-ray targata Eureka.
[5] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 92.
[6] L. Eisner, Lo schermo demoniaco, op. cit., p. 210-211.
[7] Vedi nota 4.