Victor Sjöström
SINOSSI: Firenze, XVI secolo: Ursula è costretta da suo padre a sposare uno scultore di mezza età, Mastro Anton, per il quale posa come modella per una scultura lignea della Vergine Maria. Ursula ama un giovane vicino di casa, Bertram, figlio del borgomastro. Un giorno un frate viandante giunge per vendere i suoi prodotti. Fra unguenti e decotti, Ursula scorge una boccetta di veleno e, in preda a pensieri di suicidio, decide di acquistarla. Ma il frate, avvertendo la disperazione della ragazza, scambia il veleno della boccetta con un liquido innocuo. Il giorno dopo, giunta al colmo dell’esasperazione, Ursula medita di avvelenare il marito. Quando Anton vede che sua moglie sta versando un liquido nel bicchiere d’acqua a lui destinato, viene colto da infarto e muore. Ursula viene accusata di omicidio, ma il frate la scagiona raccontando di aver sostituito il veleno. Tuttavia, quando il Cristo della cattedrale inizia a piangere lacrime di sangue, tutti lo accolgono come un segno della colpevolezza della donna. Così, per provare la sua innocenza, Ursula deve sottoporsi al giudizio di Dio, tramite la “prova per fuoco”: ovvero camminare sopra una pira di legno data alle fiamme fino a un crocefisso. Ursula è la prima a sentirsi in colpa per la morte del marito. Tuttavia giunge incolume al crocefisso dove, al posto dell’effigie di Gesù, vede l’immagine del defunto Anton che, sorridendo, la perdona.
Girato subito dopo Körkarlen (Il carretto fantasma, 1921), Vem dömer mostra in parte i segni evidenti del grande cambiamento che sta avvenendo nel cinema svedese, la cui “età dell’oro”, avviata un quinquennio prima proprio da un film di Victor Sjöström, Terje Vigen (C’era un uomo, 1917) è ora messa in crisi dalla concorrenza sempre più spietata del mercato americano e tedesco. I film svedesi, così imbevuti di elementi autoctoni che li avevano resi celebri in tutto il mondo, si piegano ora a un tentativo di internazionalizzazione che si rivelerà ben presto infecondo e che implica una radicale inversione di marcia a tutti i livelli. Il cambiamento più significativo è il passaggio dal naturalismo e dal simbolismo dei magnifici scenari svedesi alla magnificenza e alla sfarzosità di set storici o esotici, sulle orme, probabilmente, dei kolossal tedeschi di Ernst Lubitsch (da Madame DuBarry, 1919 a Das Weib des Pharao – Theonis, la donna del faraone, 1922). A questa scelta discutibile da parte dei produttori svedesi fa seguito poi la decisione, da parte di alcuni talenti della cinematografia nazionale, di accettare i tempestivi inviti degli Studios di Hollywood.
Tuttavia bisogna dire che Vem dömer, titolo spesso associato a questa deriva e messo sempre più in ombra, nel corso dei decenni, da Körkarlen, se fece fiasco in patria, ebbe invece successo negli Stati Uniti e contribuì a rinnovare il prestigio del cinema svedese e dello stesso Sjöström, già lanciato oltreoceano da Tösen från Stormyrtorpet (La ragazza della torbiera, 1917). Charlie Chaplin ne fu entusiasta e definì Sjöström «un grande artista», altri addirittura lo consideravano «il più grande regista cinematografico»[1]. E se Ingmar Bergman ha sempre dichiarato il suo debito nei confronti di Körkarlen, le immagini in silhouette degli uomini che trasportano la legna per il rogo in campo lungo contro un cielo cupo, alla fine del quarto atto di Vem dömer, sembrano aver ispirato direttamente la famosa sequenza delle figure danzanti con la morte in Det Sjunde inseglet (Il settimo sigillo, 1957). Dopo la sua presentazione alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, nel 2017, Vem dömer sembra finalmente godere di un rinnovato, e non di rado entusiasta, interesse critico[2].
Al pari di Häxan (La stregoneria attraverso i secoli, 1922) di Benjamin Christensen, uscito in Svezia in quello stesso anno, il film di Sjöström è ambientato nel Cinquecento e, pur non soffermandosi sulla stregoneria, affronta il tema della superstizione connessa alla religione e al pregiudizio di cui erano vittime in particolar modo le donne, nonché del senso di colpa come viatico per la grazia e la salvezza. La sceneggiatura è opera del romanziere Hjalmar Bergman, alla sua terza collaborazione con Sjöström (che seguirà poi a Hollywood), e sembra ricalcare in parte Klostret i Sendomir (The Monastery of Sendomir, 1920), che il regista diresse due anni prima: anche quel film trattava di un matrimonio infelice e di un tradimento connessi a una questione religiosa e morale.
Dal punto di vista tematico, Vem dömer – che letteralmente significa “chi può giudicare?” – è un film che sarebbe rientrato nelle corde di Dreyer: non solo per il tema della donna obbligata a sacrificare il suo amore (e la sua sessualità) a causa delle imposizioni della sua famiglia, e la conseguente persecuzione nei confronti della donna, ma soprattutto per quel “processo alle intenzioni” per cui una donna viene giudicata (ma anche giudica se stessa) in base non all’atto ma al desiderio che suo marito perisca; per tacere dell’ambientazione soffocante, quasi tutta in interni, e del respiro lento del film. Tutto questo sarà trattato decenni dopo dal maestro danese con ben altro spessore, in quello che è uno dei suoi massimi capolavori, Vredens Dag (Dies irae, 1943).
Vem dömer si apre e si chiude sull’immagine di un Cristo sulla croce. Poi un’inquadratura in campo lungo, angolata dall’alto, mostra una donna che percorre la navata di una chiesa, sale alcuni gradini e s’inginocchia davanti a quel crocefisso. Un primo piano della donna, Ursula, prostrata dal dolore, il volto tra le mani: di lì a poco dovrà sposare un uomo che non ama. Ora di nuovo in campo lungo, di spalle, in quella stessa posizione. Il suo dolore è sottolineato dalla dissolvenza in nero che chiude questo bellissimo prologo. Sin dalle prime immagini, ci troviamo di fronte a un cinema pensato in grande, dallo stile imponente e ricercato, con un uso notevole della profondità di campo, dei movimenti di macchina, delle scene di massa, e in cui la figura stilistica che più ricorre è la dissolvenza incrociata su raccordo in asse, talmente caratteristica dei cineasti nordici che qualcuno ha proposto di ribattezzarla come «dissolvenza scandinava»[3].
E’ significativo che il marito di Ursula, mastro Anton, voglia darle le fattezze, nella sua scultura, della Vergine Maria: la moglie giovane e bella che viene idealizzata e “santificata”, senza che si cerchi invece di comprenderne i sentimenti più intimi, dato che non erano di alcun interesse nella società dell’epoca e nei matrimoni per contratto. E’ sopratutto per questo motivo che la donna cova in sé un odio crescente che contrasta ironicamente con l’effigie dal portamento sereno e pio che il marito va scolpendo. Abbandonando esausta lo studio di lui, Ursula si reca nella sua camera e si avvicina allo specchio, che ne rivela lo sguardo colmo di ira e disprezzo; mentre, poco prima si era passata furiosamente il braccio sulla fronte come a voler cancellare il bacio che le labbra del marito vi avevano posato. Il ruolo degli specchi è fondamentale, sia nel denunciare il conflitto fra io privato e io sociale della donna (come nella scena citata in precedenza), che per svelarlo, questo io privato e a fatica domato, agli occhi di altri: è il caso della scena cruciale in cui mastro Anton scorge il riflesso della moglie mentre, ignara d’essere spiata, versa una pozione che lei crede avvelenata nel bicchiere d’acqua a lui destinato. E’ come se solo tramite lo specchio – e cioè attraverso uno sguardo indiretto – l’uomo fosse in grado di accorgersi, per la prima volta, della vera natura, o quantomeno dei veri sentimenti, della donna che tanto aveva idealizzato, ed è questo, unitamente alla sua debolezza di cuore, a ucciderlo. E sarà poi proprio davanti a quello stesso specchio che Ursula, vedendo il riflesso del frate nell’atto di versarsi da bere, ricaverà il tassello mancante dell’evento luttuoso: il fatto cioè di essere stata lei stessa la causa dell’infarto di Anton.
A livello figurativo il film mostra tutta l’abilità pittorica di Sjöström e del suo operatore, J. Jaenzon, dominata da un’illuminazione fortemente chiaroscurale alla Reimbrandt. Gli incontri col giovane Bertram, nel giardino della villa, sono gli unici momenti felici di Ursula, e anche fra le poche scene in cui la luce ha la meglio, dato che il film ed è girato perlopiù in interni semibui (la casa di Anton, la cattedrale), in cui ci si muove al lume tremolante delle candele, minacciati dalla propria stessa ombra proiettata sulla parete. Il fuoco è qui un elemento fondamentale, rimanda alla dannazione eterna, e quindi alla colpa, al peccato. La sua presenza si fa via via più massiccia e minacciosa: dalla piccola fiammella delle candele a quella più vibrante delle torce sino al rogo della pira, nel gran finale. Ed è richiamato anche dal montaggio, come in quella mirabile dissolvenza nel quinto e ultimo atto (un vero tripudio, a livello visivo) in cui la vaporosa stola di lana che il frate depone sulle mani di Ursula (un gesto amichevole e consolatorio) viene sostituita dalla fiamma di un tizzone tenuto in mano da un uomo incappucciato presso la pira (la certezza della dannazione che Ursula sente crescere dentro di sé).
Il film contiene poi diverse scene notturne, specialmente la parte finale, dove al nero della notte si oppone soltanto il fuoco, oramai onnipresente, proveniente dalle torce degli inquisitori e dei soldati e dal rogo e che culmina con lo stagliarsi della silhouette di Ursula contro le fiamme. Perciò, l’ambientazione sarà pure italiana, internazionale o “esotica”, come denunciato dai molti detrattori, ma i toni cupi e l’atmosfera grave sono in realtà pienamente scandinavi. E con ciò mi riferisco non soltanto alla caratterizzazione d’ambiente, quanto anche, e soprattutto, alla tensione morale: una morale tipicamente luterana e perciò nordica.
Accennavo prima alle consonanze tematiche fra questo film e Vredens Dag di Dreyer. Ma vi sono anche delle significative differenze. Al momento della morte del marito, Ursula, così come la Anne di Dreyer, non si sente colpevole: per entrambe sarà la delusione di vedere il loro amato dubitare della loro innocenza a condurle alla resa, all’ammissione di una colpa per una morte di cui non sono loro la causa, se non in modo indiretto. Da qui in poi però il comportamento e il destino delle due donne divergerà in modo sostanziale: nel film di Dreyer non c’è speranza né salvezza alcuna. Anne ritiene se stessa innocente fino alla fine e solo nel momento in cui si sente tradita e giudicata da Martin, l’uomo che ama, accetta la sua condanna, come chi sente, perduto l’amore, di non avere più niente da perdere. Il cammino di Ursula è ben diverso: in primo luogo, la donna inizia a sentire dentro di sé il peso di aver desiderato la morte del marito; in seconda istanza, come si è visto dalla scena dello specchio, comprende di essere stata la causa del suo infarto mortale. Perciò quando il giovane Bertram, ricredutosi sulla sua amata (al contrario del Martin di Dreyer), si offre di affrontare la prova del fuoco al suo posto, Ursula rifiuta e decide di sottoporsi al “giudizio di Dio”, ovvero a quella procedura inquisitoria che equivaleva, nella quasi totalità dei casi, a una condanna a morte.
Tuttavia la donna si salva in extremis grazie al “fantasma” del marito che le appare al posto del Cristo sul crocefisso situato alla fine della pira infuocata. Questo finale salvifico, fatto di miracolo, perdono e redenzione, evidenzia nettamente la differenza di vedute fra Sjöström (e il suo sceneggiatore, ovviamente) e Dreyer: in Dreyer non vi è possibilità di una risoluzione positiva nel conflitto fra amore e coscienza individuale, da una parte, e dettami sociali e morale imposta, dall’altra; la poetica di Sjöström appare invece, qui come altrove, improntata alla salvezza, alla redenzione, ovvero alla pacificazione di quei contrasti fino a poco prima tanto accesi e apparentemente irrisolvibili. Certo, vanno considerati i vent’anni che separano i due film, ma persino nel primo Dreyer, quello ad esempio di Præsidenten (Il presidente, 1918), suo film d’esordio, si riscontra – sia pure nell’ambito di una certa convenzionalità – un maggiore pessimismo rispetto a molti film di Sjöström.
Il tema dei fantasmi è presente in almeno altri due celebri film svedesi, entrambi tratti dai romanzi di Selma Lagerlöf, alla quale qui Hjalmar Bergman sembra pagare pegno: Herr Arnes pengar (Il tesoro di Arne, 1919), di Mauritz Stiller e lo stesso Körkarlen. Un tema che ha contribuito con forza al plauso verso il cinema svedese, soprattutto per via dell’uso superlativo delle sovrimpressioni. Non si tratta però degli spettri rancorosi o vendicativi di certi horror classici o contemporanei, ma di figure che ricercano un contatto coi loro cari ancora in vita per ammonirli, o proteggerli; oppure per perdonarli e salvarli, come nel caso di Vem dömer. Qui il fantasma appare soltanto alla fine, ma viene anticipato dai ricordi di Ursula, la quale, nella prima parte dell’ultimo atto, ricorda, s’interroga, rievoca nella sua mente il momento della morte del marito per trovare una risposta. Poco prima di accasciarsi in terra, l’uomo aveva spalancato le braccia a forma di croce: un gesto che, in seguito, la stessa Ursula ripete con Anton in sovrimpressione. Ed è proprio su una croce, al posto di Cristo, che Anton fa la sua effettiva apparizione: un curioso e singolare deus ex machina che fece storcere il naso a diversi commentatori all’epoca, a causa della sua presunta blasfemia, che oggi tutt’al più è lecito ritenere un escamotage drammaturgico po’ forzato. Sta di fatto che mai come in questo film un fantasma ha svolto una funzione così direttamente salvifica, ricollegandosi in modo diretto a quel crocefisso che apre e chiude il film, come una preghiera.
Vittorio Renzi
Vem dömer (La prova del fuoco)
[Love’s Crucible]
Svezia, 1922
regia: Victor Sjöström
sceneggiatura: Hjalmar Bergman, Victor Sjöström
fotografia: Julius Jaenzon
scenografia: Alexander Bako, Axel Esbensen
costumi: Axel Esbensen
trucco: Manne Lundh
effetti speciali: Nils Elffors
produzione: Svensk Filmindustri
cast: Jenny Hasselqvist (Ursula), Ivan Hedqvist (Anton),
Gösta Ekman (Bertram), Tore Svennberg (borgomastro),
Waldemar Wohlström (mendicante), Nils Asther (apprendista),
Knut Lindroth, Torsten Bergström
lunghezza: 1.787 metri
durata: 87’ a 18 fps
data di uscita: 1 gennaio 1922
[1] Vito Adriaensens, A Swedish Renaissance: Art and Passion in Victor Sjöström’s “Vem dömer” (1922), Kosmorama, 29 settembre 2017.
[2] Oltre al precedente link, segnalo: Marco Romagna, Love’s Crucible, Quinlan, 10 maggio 2017.
[3] Adriaensens, op. cit.