El Dorado (Eldorado, 1921)

Marcel L’Herbier

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SINOSSI: A Granada, Sibilla lavora come ballerina in uno squallido cabaret chiamato El Dorado, lottando per guadagnare abbastanza per prendersi cura del figlio malato. Il padre del ragazzo, Estoria, un notabile della città, rifiuta entrambi sia il riconoscimento che l’aiuto economico, timoroso di compromettere la propria reputazione e quella di sua figlia Iliana con un nobile ricco. Iliana però fugge via dalla festa di fidanzamento per incontrare il pittore svedese Hedwick, di cui è innamorata. Sibilla, in preda alla disperazione, vede l’opportunità di ricattarlo bloccando gli amanti durante la notte nel loro luogo di incontro segreto, l’Alhambra. Quando Hedwick scopre la verità su suo padre, decide di rifugiarsi a casa di sua madre sulla Sierra Nevada, con Iliana. La giovane coppia propone a Sibilla di prendere suo figlio con loro. Sibilla accetta, ma non appena torna nella sua stanza vuota a El Dorado, la disperazione la assale e la donna si uccide.

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Marcel L’Herbier, che era rimasto incantato come tanti altri dalla visione di The Cheat (I prevaricatori, 1915), di Cecil B. DeMille, decide così di realizzare un melodramma, esplicitando questa scelta consapevole nel cartello iniziale: «El Dorado –  mélodrame de Marcel L’Herbier». Un melodramma concepito come tale non tanto per i suoi contenuti, ma per le immagini e le parole (le didascalie, mai secondarie per questo cineasta) da cui è costituito, insomma, per il modo stesso della sua realizzazione: «Secondo Peter Brook, il desiderio di esprimere tutto è una caratteristica essenziale del modo melodrammatico e rappresenta una “vittoria sulla repressione”. In una parola, “niente è sottinteso, tutto è sovra-esplicito”»[1].

Fra i primi, massimi esempi di “cinema impressionista” francese, El Dorado è in effetti un melodramma allo stato puro, un genere che suscitava l’interesse anche di altri cineasti francesi più all’avanguardia di quegli anni (Gance, Epstein, Delluc, Dulac) per la possibilità che dava di esplorare l’interiorità di un personaggio (generalmente femminile) e di trasfigurare la realtà, servendosi delle convenzioni e dei cliché anche più triti di quel genere e, per così dire, cortocircuitandoli con le sperimentazioni più ardite consentite dal mezzo cinematografico.

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Un tratto distintivo di El Dorado rispetto ai film che lo precedono è l’uso della distorsione (ad indicare, ad esempio, l’ebbrezza dovuta all’alcool) e della sfocatura parziale o totale delle immagini, oltre alle sovrimpressioni e alle dissolvenze incrociate: bellissima quella della fontana in primo piano, all’Alhambra – al cui interno L’Herbier ottenne il permesso di filmare – e di Sibilla che sale le scale verso la macchina da presa. Sperimentazioni che ritroveremo poi ne L’Inhumaine (Futurismo, 1924). In compenso, qui il regista gioca meno coi mascherini, facendone un uso più sobrio, eccezion fatta per le scene dei preparativi di matrimonio di Iliana. Un celebre aneddoto, narrato dallo stesso L’Herbier, vuole che, durante la proiezione privata di El Dorado, Léon Gaumont, il fondatore e proprietario della casa di produzione, abbia ripreso il proiezionista nella scena della canzone di Sibilla, credendo che, per una sbadataggine, l’immagine fosse andata fuori fuoco. Si trattava invece dell’ennesimo “trucco” di L’Herbier, un effetto flou col quale l’autore voleva sottolineare il profondo malessere della sua eroina. Ma Gaumont espresse le sue riserve su questo e altri espedienti linguistici che il regista amava adoperare, e si raccomandò che li evitasse per i film successivi. Furono questo tipo di incomprensioni e scontri che portarono all’allontanamento definitivo di L’Herbier dalla Gaumont per fondare la sua Cinégraphic.

Come nei melodrammi teatrali, il ruolo dalla musica è poi assolutamente centrale. L’Herbier, giovandosi della partitura del celebre compositore Marius-François Gaillard, per la prima volta prestato al cinema, gira, fotografa, e monta in totale simbiosi con la musica, «realizzando una sorta di sintesi tra l’elemento visivo e quello musicale»[2].

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Il film si apre in un locale malfamato simile a quello in cui si rifugiava il giovane Michel in L’Homme du Large (La giustizia del mare, 1920). Sala da ballo e casa di piacere, chiassoso, frequentato da alcolizzati e personaggi equivoci, l’aria satura di fumo di sigarette. Eppure, curiosamente, vi si trovano anche allegre famiglie e persino un paio di mamme con poppanti al seguito. Sibilla è una donna presente a se stessa – per via del suo intimo dolore – ma eccedente il ruolo che è chiamata a interpretare e il mondo in cui si trova a vivere, e cioè il locale in cui si esibisce. La gente non vede la vera Sibilla, ma soltanto una seducente, equivoca donna di spettacolo («Lei danza e sorride al desiderio degli uomini», recita una didascalia). La sua vita privata, i suoi problemi personali di madre e di donna delusa e tradita, che costituiscono il nucleo lacerato della sua identità reale, non interessano a nessuno e sono pertanto invisibili, fuori campo rispetto al palcoscenico e alla performer. Sotto questo punto di vista, allora, la sfocatura della sua figura assolve alla funzione di oggettivarne lo stato d’animo, lo stato esistenziale. Ma si tratta anche, avverte Deleuze, di «una contrazione estrema del campo-controcampo (…) in cui la donna distratta che vede sfocato è vista essa stessa sfocata»[3].

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A ragion veduta, nel corso del film L’Herbier continuerà ad utilizzare questo effetto non sempre secondo una chiave tematica ben definita, ma comunque poetica ed estetica (o estetizzante, per i numerosi detrattori del cineasta parigino). Come nel caso del flou sulle colonne del complesso dell’Alhambra o quello che coinvolge l’intera immagine durante la danza all’Eldorado, sulla quale Epstein scrisse:

Con una dissolvenza che prende risalto progressivamente, i ballerini  perdono a poco a poco le loro differenziazioni personali, cessano di essere riconoscibili come individui distinti per confondersi in un termine visivo comune: il ballerino, elemento ormai anonimo, impossibile da discernere tra venti o cinquanta elementi equivalenti, il cui insieme finisce col costituire un’altra generalità, un’altra astrazione: non questo o quel fandango, ma il fandango, cioè la struttura resa visibile dal ritmo musicale di tutti i fandango.[4]

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Altro elemento propulsore e moltiplicatore di movimento è l’acqua spruzzata dagli ugelli delle fontane, o il placido specchio contenuto nella piscina che riflette gli edifici e le colonne dell’Alhambra. Sotto forma di spruzzi, l’acqua è puro movimento, davanti e dietro ai personaggi, oppure, nella vasca, funge da specchio, assorbe e riflette i movimenti e moltiplica le traiettorie dello sguardo. Ma tutto questo sversarsi di liquidi fornisce anche un sottofondo atmosferico ed erotico agli amoreggiamenti dei due giovani amanti, in aggiunta ai giochi di luci e ombre generati dal patio, dalle colonne e dagli altri favolosi e vivaci elementi architettonici del complesso andaluso.

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Sibilla sembra invece esclusa da questo rapporto vitale con l’acqua, anzi, la sua pesantezza esistenziale emerge in contrasto con la vitalità degli spruzzi di una fontana al bordo della quale, a un certo punto, lei siede dandole le spalle, assorta. La sua parabola discendente è quella di un corpo sempre più schiacciato dallo spazio (la misera cameretta sul retro del palco dell’El Dorado, in cui giace suo figlio malato) e dai corpi solidi. Poco dopo essere stata cacciata dalla festa in casa di Estoria, la donna, vestita di scuro viene ripresa in campo lungo mentre avanza diagonalmente, costeggiando l’alto muro bianco dell’Alhambra, e sembra minuscola e sul punto di essere schiacciata da questo muro che s’innalza sempre di più, lungo il piano prospettico creato dalla posizione della macchina da presa. Una sequenza di cui L’Herbier andava giustamente fiero. Nei momenti emotivamente più forti del film, il montaggio si fa più serrato e si moltiplicano i punti di vista, come nella scena precedente, appena citata, in cui Sibilla viene buttata fuori dalla casa di Estoria, ma non prima di avergli gridato «lache!» («porco!») davanti a tutti i suoi ospiti.

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Dopo la sua ultima danza sul palco dell’El Dorado, Sibilla sorride (o meglio, la sua maschera sorride, un sorriso amaro e atroce) e indietreggia, fino a scomparire dietro le quinte. Ora è nel suo camerino, separato dal telone del fondale sul quale vediamo proiettate, come ombre cinesi, le figure degli spettatori e degli altri artisti in teatro. Sibilla, le spalle al telone, si siede a un tavolo per scrivere la sua ultima lettera, ormai non può più andare avanti dopo essersi separata dall’unica cosa che amava, suo figlio. Il cliché da melodramma, oltre che dalle “ombre cinesi” è presto ravvivato dal sangue che fuoriesce copioso dalla sua ferita mortale e che sembra vero, giungendo a macchiare persino il telone del fondale. Ed è questo un momento assai forte in cui il cinema di L’Herbier, sempre in bilico sul crinale delle accuse di eccessivo formalismo, recupera tutta la sua umanità, si fa finalmente carne e sanguina.

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Le immagini in stile reportage durante la processione per le strade di Granada furono ricavate, come raccontò più tardi lo stesso regista, da una processione ripresa dal vero, che Sibilla si trova ad attraversare controcorrente, come tutte le altre vicende della sua triste vita. Ève Francis, volto ricorrente nelle pellicole di Louis Delluc e Germaine Dulac, era stata anche la protagonista di Prométhée… banquier (t.l.: Prometeo… banchiere, 1921) di L’Herbier, che successivamente l’avrebbe richiamata sul set di alcuni suoi film sonori, fra cui Le Bonheur (Il più bel sogno, 1935). Curiosamente, anche qui, come nel futuro L’Inhumaine, il biondissimo Jaque Catelain interpreta la parte di uno svedese, mentre la bella Marcelle Pradot, che avrebbe sposato il regista due anni dopo, interpreta qui il suo solito ruolo di ragazza pura ed ingenua. I costumi sono di Alberto Cavalcanti, collaboratore abituale di L’Herbier e futuro regista.

Vittorio Renzi(18 marzo 2016)

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El Dorado (Eldorado)

Francia, 1921

regia e sceneggiatura: Marcel L’Herbier

fotografia: Georges Lucas, Georges Specht

musica: Marius-François Gaillard

scenografia: Louis Le Bertre, Robert-Jules Garnier

costumi: Alberto Cavalcanti

produzione: Gaumont Série Pax

cast: Ève Francis (Sibilla), Jaque-Catelain (Hedwick), Marcelle Pradot (Iliana), Philippe Hériat (Joao, il buffone), Claire Prélia (la contessa svedese), Georges Paulais (Esteri), Édith Réal (Conception), Max Dhartigny (proprietario dell’El Dorado), Émile Saint-Ober (il cieco), Jeanne Bérangère (Flore)

durata:  100′

première: 28 ottobre 1921

El Dorado poster


[1] Muriel Andrin, De El Dorado au Bonheur: contributions de Marcel L’Herbier au mode mélodramatique, in L. Véray (a cura di), Marcel L’Herbier, l’art du cinéma, Association Française de Recherche sur l’Histoire du Cinéma, Paris, 2007, p. 192 (traduzione mia)
[2] Richard Abel, Il cinema francese verso un mutamento paradigmatico, 1915-29, in G.P. Brunetta, Storia del cinema mondiale III. L’Europa. Le cinematografie nazionali, Torino, Einaudi, 2000, tomo primo, p. 307.
[3] Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 92.
[4] Jean Epstein, Ecrits sur le cinéma, in Deleuze, op.cit., p. 57.

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