Greed (Rapacità, 1924)

Erich von Stroheim

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SINOSSI: San Francisco, inizio ‘900, un ex minatore divenuto dentista, Mc Teague, sposa una sua cliente, Trina, cugina dell’amico Marcus che, in segreto, la ama a sua volta. Trina vince una lotteria, e da quel momento si scatenano, da una parte, l’invidia e la gelosia di Marcus, che ora a maggior ragione rimpiange di non averla sposata lui, dall’altra, l’avidità estrema di Trina, che non finisce mai di contare le sue monete e che non vuole spendere un quattrino della sua ingente vincita; e infine la brutalità di McTeague, il cui amore per Trina rivela sempre più il suo carattere animalesco e brutale. Sarà la rovina per tutti.

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Ho avuto modo di rivedere questo film nella versione Reconstruction, effettuata nel 1999 dalla Turner Classic Movies (TCM). La durata, da 140 minuti, è portata a quasi quattro ore (mentre ben sette erano quelle previste originariamente dal suo  artefice), di cui però solo un 60% è costituito da scene del film. Il resto – andato perduto – viene riproposto attraverso numerose foto di scena che riescono bene o male a coprire tutti gli eventi descritti dalla sceneggiatura. Comprese le famose “mani ossute” che frugano in mezzo a piatti e vasellame d’oro, simbolo onirico e primario del tema del film, ovvero la rapacità, intesa come smodata avidità, come desiderio di possesso convulso e ossessivo, che per Stroheim era alla base non solo della società (sia europea che americana), ma della stessa natura umana.
Rapacità che porta l’essere umano a perdere il controllo di sé, e dunque alla rovina degli altri e di se stesso, come ben descritto nel film. Che è un vero e proprio kolossal. Impossibile immaginare, come giustamente è stato detto, il cinema di Stroheim al di fuori degli Studios e dei grandi budget. Un cinema che però è ferocemente e strenuamente anti-hollywoodiano, non solo per la sua proverbiale anticonvenzionalità, ma anche per la sua insofferenza a tutte le regole imposte e castranti: quelle morali, come quelle della logica di produzione dell’epoca, che imponeva una narrazione giocata sul prevalere della virtù sui vizi, della morale sul peccato, del bene sul male; nonché una durata generalmente inferiore o di poco superiore alle due ore (con poche eccezioni, tra cui i film di Griffith), durata che invece per Stroheim era fondamentale per seguire l’evoluzione della storia e dei personaggi. Senza contare che si tratta di uno dei primissimi film girati interamente in esterni, a San Francisco, avvalendosi della luce naturale, e che la parte finale fu girata nel set naturale della Valle della Morte, un deserto infuocato che mise a dura prova la resistenza della troupe.

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Un corpo estraneo, dunque, nel cinema dell’epoca, eccessivo e ingombrante, un ultracorpo che tentava di dissimularsi nelle vesti del grande spettacolo convenzionale e generalmente innocuo che Hollywood allora proponeva (e che ancora propone), dove ogni spinta eversiva viene riassorbita e ricondotta all’inoffensività, come una belva domata in un circo, o addomesticata e chiusa in gabbia allo zoo. Ma con una personalità enorme come quella di Stroheim non bastava: bisognava togliergli il controllo dell’opera, tagliare e bruciare decine di metri di pellicola, distruggerne il più possibile l’operato. Prima di Orson Welles, è stato Stroheim il bersaglio furente delle forbici della censura e della fame di controllo, della rapacità degli studios. Diversamente da Welles, che ha tentato fino in fondo di realizzare i propri progetti raccogliendo fondi in giro per il mondo, l’austriaco, finto nobile decaduto e presunto ufficiale di cavalleria, alla fine, ha ceduto la sua sciabola e si è contentato di fare l’attore, con risultati oltretutto strepitosi, da La grande illusion (La grande illusione, 1937), di Renoir, a Sunset Blvd. (Viale del tramonto, 1950) di Billy Wilder.

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La pellicola è un adattamento del romanzo McTeague di Frank Norris. Una trama già di per sé possente, ma Stroheim non si accontenta dell’estremo realismo, che tenta di inseguire nei suoi minimi dettagli, e quindi ben al di fuori e al di là della finzione “da palcoscenico” di un cinema il più delle volte ancora vittima di un décor convenzionale e bidimensionale, ivi compresa la psicologia dei personaggi. Ciò che gli interessa maggiormente è penetrare l’animo, la psiche umana, utilizzando, in modo innovativo e spiazzante, tutti i mezzi a sua disposizione. Ecco dunque la preferenza accordata alla profondità di campo, anziché al montaggio alternato, reso già “classico” dai primi grandi capolavori di Griffith di qualche anno prima. Ecco l’insorgere di incubi raccapriccianti, deliri, visioni – scene quasi tutte tagliate e riproposte, nella versione Reconstruction, in forma di fotografie – nonché l’idea di Stroheim di isolare, facendoli colorare di giallo-oro, diversi oggetti nel corso del film, dalle monete, ai denti d’oro di Trina, fino alla scena finale nel deserto, interamente tinta di giallo, che è come annegare in questa avidità e nelle sue più estreme conseguenze, di cui il film fino a quel momento ha mostrato le premesse e indicato la drammatica e inquietante direzione.

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Ma c’è anche un altro particolare che, rivedendo il film oggi, mi ha sorpreso e colpito a fondo per la sua espressività: il fatto che Stroheim abbia infranto, come niente fosse – e come del resto aveva già fatto anche in Blind Husbands (Mariti ciechi, 1919), in Foolish Wives (Femmine folli, 1922) e farà poi in Queen Kelly (1929) – il divieto per eccellenza del cinema, ovvero quello dello sguardo in macchina da parte degli attori (lo spettatore doveva sentirsi un voyeur al sicuro, al di qua dello schermo, non certo osservato, tirato in ballo e consapevole di sé). Anziché il consueto campo/controcampo con i primi piani dei volti e relativi raccordi sui loro sguardi, Stroheim in diverse occasioni mette lo spettatore letteralmente al centro del gioco di sguardi dei personaggi, perno del loro dialogo, facendo guardare in macchina ora l’uno ora l’altro, in alternanza (procedimento usato spesso anche da Fritz Lang in Germania). In Queen Kelly addirittura, Regina, quando scaccia la povera orfanella (Gloria Swanson) con una frusta, sembra urlare e fustigare proprio lo spettatore, un vero shock visivo ed emotivo, che sarà poi ripreso 35 anni dopo da Samuel Fuller al principio di The Naked Kiss (Il bacio nudo, 1964).

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Qui, invece, siamo bersagliati e resi complici dagli sguardi inizialmente normali, comuni, e via via sempre sempre più folli e disperati dei tre protagonisti (McTeague, Trina e Marcus) e quindi attirati dentro ancor più in un film che già per trama, eventi, sforzo produttivo e artifici tecnici e stilistici, non fa nulla per passare inosservato. E nonostante le sue quattro ore e le sue parti monche, siamo ancora lì ad agonizzare nella Valle della Morte, insieme a McTeague e a Marcus, sotto un sole abbacinante e micidiale, immersi in una rapacità – tutta cinefila – al pensiero di poter vedere ancora qualche metro di pellicola in più.

Vittorio Renzi (15 dicembre 2014)

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Greed (Rapacità)

Usa, 1924

regia: Erich von Stroheim

soggetto: romanzo McTeague di Frank Norris

sceneggiatura: June Mathis, Erich von Stroheim

fotografia: Ben F. Reynolds, William H. Daniel [e Ernest B. Schoedsack]

montaggio: Frank Hull, Marguerite Faust, Erich von Stroheim [orig.]

/ Joseph W. Farnham [release 1924]

musica: Leo A. Kempinski

scenografia: Richard Day [e Erich von Stroheim]

costumi: [Erich von Stroheim]

produzione: Louis B. Mayer, per Metro-Goldwyn-Mayer Corporation

cast: Gibson Gowland (McTeague), Zasu Pitts (Trina), Jean Hersholt (Marcus), Chester Conklin (‘Popper’ Siepper), Sylvia Ashton (‘Mommer’ Sieppe), Tempe Pigott (madre di McTeague), Joan Standing (Selina), Cesare Gravina (Zwerkow), Dale Fuller (Maria)

lunghezza: 10 rulli, 10.212 piedi [release 1924]

durata:  140’ / 239’ [Reconstruction TCM 1999] 

première: New York, 4 dicembre 1924

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