The Mark of Zorro (Il segno di Zorro, 1920)

Fred Niblo

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SINOSSI: Don Diego Vega è un damerino, figlio di don Alejandro, ricco ranchero nella vecchia California spagnola del 1800. I latifondisti tengono in condizione di semi schiavitù i peones e Diego, per cercare di difenderli, si traveste e, mascherato, si presenta come il vendicatore dei poveri nelle vesti di Zorro. Atletico e ironico, Zorro diventa il campione del popolo contro l’arroganza del governatore e del capitano Juan Ramon, distribuendo le sue “Zeta” a colpi di spada contro l’oppressore. Innamorato della bella Lolita Pulido, Diego deve fare i conti con un altro corteggiatore, il capitano Ramon, e anche con un rivale inusitato: lui stesso nelle vesti di Zorro.

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Creato con il romanzo La maledizione di Capistrano dell’americano Johnston McCulley, pubblicato a puntate a partire dal 1919, ed ambientato nella California degli inizi del XIX secolo, il personaggio di Zorro (“volpe”, in spagnolo) fu evidentemente ispirato da quello inglese di Robin Hood (di cui sempre Fairbanks vestirà di lì a poco i panni), oltre che da Primula rossa, ideato dalla baronessa Emma Orczy agli inizi del Novecento, e dal conte di Montecristo di Dumas. E’ significativo il fatto che, dopo il grande successo della versione cinematografica, il romanzo fu ristampato con lo stesso titolo del film.

Douglas Fairbanks all’epoca era già l’attore più popolare di Hollywood, assieme a Chaplin e a Mary Pickford, che aveva sposato otto mesi prima l’uscita del film, dopo i due reciproci divorzi. Il genere in cui si era distinto fino a quel momento era la commedia sentimentale (aveva iniziato alla Triangle, sotto la supervisione di Griffith), dove, occasionalmente, si esibiva in numeri acrobatici. Ma l’enorme successo di The Mark of Zorro (cui collaborò anche in veste di produttore e di cosceneggiatore, con lo pseudonimo di Elton Thomas) lo portò a dirottare la sua carriera, con tutto l’entusiasmo e la determinazione che lo contraddistinguevano, verso il genere avventuroso e gli eroi desunti dalla letteratura popolare, mantenendo però sempre un tocco leggero da commedia. Da quel momento la sua ricetta rimase pressoché immutata per tutto il periodo del muto: «abilità fisica combinata con il senso dell’umorismo»[1].

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Dopo questo film verranno infatti The Three Musketeers (1921), sempre di Niblo, Robin Hood (1922), di Allan Dwan, The Thief of Bagdad (Il ladro di Bagdad, 1924), di Raoul Walsh, seguiti da The Black Pirate (Il pirata nero, 1926), girato in Technicolor bicromatico, e The Gaucho (Il Gaucho, 1927). Fairbanks tornò poi a interpretare Zorro, nel sequel Don Q. the Son of Zorro (Don X figlio di Zorro, 1925) e D’Artagnan in The Iron Mask (La maschera di ferro, 1929), diretto nuovamente da Allan Dwan che, a quanto pare, era il suo regista preferito. Douglas e Mary recitarono insieme in un solo film, che però si rivelò un clamoroso insuccesso: l’adattamento dall’omonima commedia di  Shakespeare The Taming of the Shrew (La bisbetica domata, 1929), di Sam Taylor. Nel 1919, Fairbanks, Chaplin, Mary Pickford e Griffith avevano stretto un’alleanza professionale dando vita alla United Artists, raggiungendo in tal modo la piena libertà creativa. Da quel momento in poi Fairbanks, tramite la casa di produzione che portava il suo nome, poté rivolgersi ai progetti che maggiormente lo interessavano. Il film su Zorro fu proprio fra questi.

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Il doppio ruolo di Zorro e Don Diego gli consente infatti questa alternanza (ma forse è più corretto dire compresenza) fra avventura e commedia. Pur non essendo mai stato considerato un grande attore, nei momenti in cui interpreta Diego Vega, con quell’aria dimessa e comune, che contrasta efficacemente con la natura scatenata e scanzonata del suo alter ego, Fairbanks si dimostra molto naturale davanti alla macchina da presa. Ne è un esempio la scena in cui è per la prima volta a colloquio con Donna Doña Catalina Pulido (Claire McDowell). La caratteristica di Diego de Vega è quella di essere maldestro, stanco, debole. Il padre, che lo ha mandato a studiare in Spagna, ora lo considera un indolente e uno smidollato. La ragazza di cui è innamorato, la bella e nobile Lolita Pulido, non lo può soffrire per la sua scarsa mascolinità e il suo atteggiamento indeciso.

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Don Diego è, insomma, la “maschera” di Zorro, e non il contrario, è una strategia per dissimulare la sua vera identità, che è sempre e comunque Zorro, e non Diego. Proprio come avverrà in seguito per l’alter ego di Superman, ovvero Clark Kent. Mentre, per rimanere nel campo dei primi supereroi della DC, che tanto devono a Zorro, l’appartenenza alla classe ricca e aristocratica di Don Diego e l’entrata segreta nel suo palazzo, a mo’ di caverna, ispireranno il personaggio di Batman/Bruce Wayne. Il vero volto di Diego lo vediamo semmai in una scena bizzarra e quasi a sé stante, in cui  egli, seduto nella sua stanza, si diverte a fare dei giochi con le mani, proiettando ombre di animali sulla parete. La scena raggiunge il culmine all’arrivo del suo maggiordomo, di cui si vede però soltanto la grande ombra sulla parete. Ma è senza dubbio nei panni di Zorro che l’attore di Denver dà il meglio di sé. L’agilità di Fairbanks, che qui aveva già trentasette anni, è incredibile. Del resto, era famoso per fare da solo gli stunt nelle scene d’azione. Ma ciò che più lo contraddistingue è la grande eleganza con cui esegue quelle scene. E la simpatia, ovviamente: era stato proprio il suo sorriso aperto e accattivante, oltre alle doti atletiche, a fare di Douglas una star, e l’attore non dimenticava mai di regalare i suoi sorrisi alle sue innamorate sullo schermo (e a tutte le altre, sedute in poltrona nella sala buia).

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La regia di Niblo, in questo come in altri film, è stata spesso ritenuta banale e priva di mordente. A me sembra invece elegante, la composizione del quadro è sempre ricca e interessante, ci sono giochi di ombre, effetti notte e primi piani nei momenti di maggior interesse per le reazioni di un personaggio, oltre ai raccordi di montaggio che spesso segnalano anche suoni provenienti da fuori campo. Certo, non mancano momenti di stasi, una caratteristica questa che era comune a molti film d’azione dei primi anni Venti, soprattutto quelli un po’ più lunghi della norma. Ma si rivela poi perfettamente idonea in tutte le scene d’azione, dai duelli, ottimamente coreografati, alle cavalcate, agli inseguimenti. E soprattutto nell’intera parte finale, il ritmo scandito dalla regia e dal montaggio diventa perfetto come un orologio: è già grande cinema hollywoodiano classico. L’inseguimento finale al villaggio, in cui Zorro affronta uno per uno i soldati del governatore, con una tattica da guerriglia colpisci-e-fuggi, ha un ritmo travolgente, con grandiose trovate acrobatiche: Zorro al galoppo sul suo cavallo si aggrappa a una fune e, tornando indietro, sorvola i suoi inseguitori atterrando su un balcone; i salti in alto, in lungo, le capriole: Fairbanks sembra davvero eseguire qui una sorta di proto-parkour! Tuttavia, questo va detto, il linguaggio visivo sembra non raggiungere mai un’autonomia compiuta, lo si evince anche dalle numerose didascalie che interrompono spesso il corso dell’azione: è questo un aspetto che, oggi (ma probabilmente anche all’epoca), risulta un po’ frustrante.

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Seppur trattato alla leggera, e nell’esiguo spazio concesso a un film di cappa e spada, il tema della solidarietà di Zorro con la povera gente, e soprattutto con l’etnia dei nativi-americani non è da sottovalutare, dato che nei western coevi i pellerossa fanno ancora la parte dei cattivi, e sarà così ancora per molto tempo. Certo, i nativi americani qui sono tutte figure di contorno, nessun ruolo di spicco, né, ovviamente, vi è alcun approfondimento psicologico, ma tutto questo non era chiaramente nei propositi di un film di puro intrattenimento. A maggior ragione però spicca questa lotta per la giustizia sociale portata avanti dalla “volpe mascherata”.

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Il personaggio di Zorro divenne immediatamente popolare anche (e soprattutto grazie) al cinema. A rivestirne i panni, dopo Fairbanks, saranno numerosi attori. Tra gli anni Trenta e Quaranta la casa di produzione Republic realizzò ben cinque serial, ma sarà poi Tyrone Power a darne un’interpretazione memorabile, almeno quanto quella di Fairbanks, nell’omonimo The Mark of Zorro (Il segno di Zorro, 1940), di Rouben Mamoulian. Negli anni Sessanta uscirono solo un paio di titoli targati Disney con Guy Williams, poi il personaggio fu dirottato nelle serie TV e nei cartoni animati. Fu invece molto sfruttato sia in Messico che in Italia, durante la grande stagione del cinema di genere degli anni Sessanta e Settanta. Lo interpretarono fra gli altri Walter Chiari, nella parodia diretta da Mario Soldati, Il sogno di Zorro (1952) e poi a seguire, tra gli altri, Gordon Scott, Sean Flynn (il figlio di Errol), Pierre Brice, Spiros Focás, Fabio Testi e Alain Delon. Ancora due parodie con Franco Franchi, in Italia, e Guy Hamilton negli Stati Uniti, poi solo la televisione. Finché, alla fine degli anni Novanta, a Hollywood, si tentò di ridare lustro allo spadaccino mascherato modernizzandolo a suon di erotismo e arti marziali. Il ruolo fu affidato al sex symbol Antonio Banderas (anche se lo Zorro originale è interpretato da Anthony Hopkins), che lo ricoprì in un paio di film, il primo dei quali, The Mask of Zorro (La maschera di Zorro, 1998), di Martin Campbell, ebbe molto successo.

Vittorio Renzi (4 febbraio 2018)

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The Mark of Zorro (Il segno di Zorro)

Usa, 1924

regia: Fred Niblo

soggetto: romanzo di Johnston McCulley The Curse of Capistrano

sceneggiatura: Elton Thomas [D. Fairbanks], Eugene Miller.

fotografia: William McGann, Harry Thorpe

musica: William Axt; William P. Perry [1970]

montaggio: William Nolan

scenografia: Edward Langley

produzione: Douglas Fairbanks, per Douglas Fairbanks Pictures

cast: Douglas Fairbanks (Don Diego Vega/Zorro), Marguerite De La Motte (Lolita Puldo), Robert McKim cap. Juan Ramon), Noah Beery (serg. Pedro Gonzales), Charles Hill Mailes (Don Carlos Pulido), Claire McDowell (doña Catalina Pulido), George Periolat (gov. Alvarado), Walt Whitman (fra Felipe), Sidney De Gray (Don Alejandro)

lunghezza: 8 rulli

durata: 90’ / 107′

première: New York, 27 novembre 1920

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[1] William K. Everson, American Silent Film, New York, Da Capo Press, 1978, pp. 284.

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