John Ford
SINOSSI: Nel Dakota, il colonnello Carlton e sua figlia Lee partecipano a una delle “corse alla terra” per ottenere la proprietà di un terreno. Lungo la strada. Lee fa conoscenza con il giovane irlandese Dan O’Malley, ma poi i due si perdono di vista. Un giorno, la diligenza dei Carlton viene assalita dai banditi dello sceriffo corrotto Layne Hunter, che si sono stabiliti presso la cittadina di Custer. Carlton viene ucciso, mentre la ragazza viene salvata da tre fuorilegge – “Bull” Stanley, Mike Costigan e “Spade” Allen – che decidono di prendersi cura di lei. Giunti nei pressi di Custer, in mezzo a una folla di carri e famiglie in attesa del giorno della corsa, Lee reincontra Dan, proprio mentre i tre banditi hanno deciso di trovarle un brav’uomo da sposare. Il giorno della corsa, i tre si sacrificano combattendo contro Hunter e i suoi, per permettere a Lee e Dan di mettersi in salvo.
Nel 1877, quasi al termine del suo secondo mandato, il diciottesimo Presidente degli Stati Uniti, Ulysses S. Grant, repubblicano ed ex generale dell’Unione (sua fu una delle vittorie finali nordiste contro il Generale Lee, a Richmond), stabilì una corsa per l’assegnazione delle terre del Sud Dakota, da parte dei coloni bianchi. Pochi anni prima, proprio nella zona delle Black Hills, territorio sacro per i Sioux e facente parte della loro riserva, erano stati scoperti dei giacimenti auriferi e già diversi pionieri, senza l’autorizzazione governativa, vi si erano diretti causando nuove, sanguinose rivolte. Ma dopo tre secoli di lotte e massacri (e trattati traditi o ignorati da parte del governo statunitense), la grande stagione dei nativi americani giungeva definitivamente al termine. Le rivolte dei Sioux e di altre tribù limitrofe erano praticamente terminate l’anno prima, nonostante la grande sconfitta di Little Big Horn inflitta ai “visi pallidi” e, per l’ennesima volta, gli indiani americani venivano trasferiti in un’altra riserva, sempre più lontano dalle loro origini e dalla loro storia.
Di tutto questo ovviamente nel film di Ford non c’è traccia. Il cinema statunitense, ancora molto semplicistico nel tratteggiare eventi e personaggi, riflette una società statunitense ancora in piena fase celebrativa, pressoché unanime e acritica, dell’era del pionierismo, del mito della costruzione della Grande Nazione, del sogno americano. L’anno prima, Charlie Chaplin aveva raccontato di un’altra grande corsa, quella all’oro nelle terre del Klondike avvenuta nel 1895, nel suo capolavoro The Gold Rush (La febbre dell’oro, 1925), puntando il dito, pur nella comicità, sull’amara piaga dell’avidità e della follia di un’intera nazione. L’occhio di Ford è assai più benevolo e nostalgico nei confronti di questi uomini e donne, giunti a migliaia dall’Europa o dalle città dell’Est in cerca di speranza e di una vita migliore. Come poteva essere altrimenti? Era del resto simile la storia dei suoi genitori, immigrati irlandesi, giunti negli Stati Uniti pochi anni prima gli eventi narrati dal film.
Eppure 3 Bad Men si apre su un’inquadratura che, sfruttando la profondità di campo, evidenzia le figure mute e immobili di alcuni pellerossa di spalle, in primo piano, che osservano l’arrivo dei carri dei pionieri bianchi sullo sfondo. E’ un’immagine priva di ulteriore commento – e la presenza dei pellerossa nel resto del film è alquanto marginale – che conferisce però un’immediata e forse non voluta aura malinconica, quasi di rassegnazione, ad eventi raccontati a cavallo tra storia, rimozione e mito. Lo stesso atteggiamento che Ford aveva già tenuto due anni prima in The Iron Horse (Il cavallo d’acciaio, 1924) e che mostrerà negli anni successivi. Solo diversi decenni dopo, in seguito alla consuetudine di lavorare a contatto con molti attori e stuntman nativi americani e di filmare nei loro territori, Ford inizierà a conoscere di prima mano le loro storie e tradizioni. E il risultato saranno film che, seppure entro certi limiti, problematizzeranno maggiormente l’incontro/scontro tra bianchi e pellerossa, rendendo questi ultimi più visibili e significativi, in termini sia di presenza che di spessore.
3 Bad Men è l’ultimo western muto di John Ford. Dovranno passare ben tredici anni prima che egli possa tornare a dirigerne uno, e si tratterà di Stagecoach (Ombre rosse, 1939): un’attesa ben ripagata. E’ uno dei pochi progetti della Fox che Ford poté scegliere, curandone anche la sceneggiatura insieme a John Stone. Ma ci furono comunque forti ingerenze da parte dello studio, che voleva ampliare il ruolo dell’attrice Olive Borden, cosa alla quale il regista tentò di opporsi strenuamente[1]. Nonostante il film si sia rivelato un flop al botteghino, dopo aver subito oltretutto numerosi tagli imposti dalla Fox[2], molti critici (fra cui Mitry e Bogdanovich) lo ritengono il miglior film di muto di Ford (tenendo presente che la maggior parte è ad oggi irreperibile). Migliore di The Iron Horse, l’epico film sulla nascita della ferrovia negli Stati Uniti uscito due anni prima, che fu invece un grandissimo successo di pubblico e di critica. Come scrisse Bogdanovich:
Qui, in forma embrionale, si trovano diversi suoi tratti caratteristici: lo sceriffo azzimato, il giornalista ubriaco, i furfanti buoni (che alla fine si sacrificano), e, come sempre, le immagini fordiane di cavalieri all’orizzonte, straordinari campi lunghi di carri coperti e uomini, vivaci contrasti di luce e oscurità.[3]
E’ un western in cui prevalgono toni da commedia, per certi versi picaresca. Il tipico umorismo di Ford pervade quasi tutti i personaggi e le situazioni di questo film corale, e non è relegato alle sole “spalle comiche”, come sarà poi nei suoi grandi classici del sonoro. Uno dei protagonisti, l’irlandese Dan O’Malley, è rappresentato in modo romantico e pittoresco, in sella al suo cavallo, ma seduto di traverso e intento a suonare un allegro motivo con la sua armonica. E’ l’eroe buono, un ragazzone entusiasta, ottimista e ingenuo. Lee, la figlia del maggiore Carleton, della Virginia, come tante altre donne dei film di Ford, è molto femminile e romantica e, al tempo stesso, vivace, coraggiosa e sfrontata. Al momento del primo incontro con Dan, è una fanciulla graziosa che si sporca il naso di grasso mentre lui la sta aiutando a cambiare la ruota del carro. Dan continua a indicarle il punto in cui è sporca, avvicinandosi sempre di più, per poterla poi baciare. A quel punto, il padre di lei, chinatosi per controllare lo stato delle ruote, scorge i due abbracciati dall’altra parte del carro. Riesce a vederli solo dalla vita in giù e, al momento del bacio, è la gamba di Dan che si piega all’indietro (un cliché di solito riservato al gentil sesso). Successivamente, Lee riesce a tenere a bada con la dolcezza, ma anche con la forza del suo carattere i tre banditi che hanno promesso di proteggerla.
Si tratta di “Bull” Stanley, Mike Costigan e “Spike” Allen, che entrano in scena come ladri e assassini ed escono come martiri ed eroi e, nel mezzo, rivelano il loro cuore tenero prendendosi cura di una ragazza rimasta orfana. Il terzetto, riproposto poi quello stesso anno nel perduto Marked Men (1917), e che prefigura per certi versi quello di Three Godfathers (In nome di Dio – Il texano, 1948), è costruito efficacemente per contrasti: dei tre, solo Stanley ha la fisionomia del bandito vero e proprio, robusto e dall’aria intimidatoria; gli altri due invece, coi loro lazzi e battibecchi, costituiscono una tipica coppia comica. Quando Stanley proclama che devono assolutamente trovare un brav’uomo per Lee, uno dei due esclama: “Le troveremo un uomo da sposare… dovessimo sparargli!”. Esilarante la sequenza in cui i due, nella confusione di un saloon, ispezionano da cima a fondo un damerino dell’Est e poi lo pedinano passo passo con l’intenzione di obbligarlo a presentarsi come futuro marito di Lee (e invece quello alla fine scappa). I tre costituiscono, assieme ai personaggi ritratti da Harry Carey nei western precedenti (quasi tutti perduti), il prototipo fordiano (ma già delineato dai personaggi interpretati da William S. Hart) del good bad man, dell’eroe emarginato nell’ambito del rapido processo di civilizzazione dell’America:
Gli eroi occidentali di Ford, che siano fuorilegge (…) o uomini di legge (…), hanno tutti un timore reverenziale per la famiglia. Alcuni di loro cercano vendetta per l’omicidio di un membro della loro famiglia; altri sacrificano se stessi per gli orfani; i cavalieri agiscono per mantenere le pianure sicure per le proprietà dei pionieri. Tutti, in una certa misura, sono anche i solitari, gli emarginati dalla civiltà.[4]
Il vero cattivo, infatti, come spesso accade nell’orizzonte fordiano, è l’uomo di potere, qui nei panni di Layne Hunter, sceriffo di facciata, ma in realtà criminale senza scrupoli, a sua volta a capo di una feroce banda di tagliagole che depredano e uccidono di nascosto i pionieri ad ogni occasione. Un personaggio che prefigura quello dell’altrettanto spietato bandito di The Man Who Shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962). Nel tratteggiare Hunter, nel fare di lui un uomo di bell’aspetto, nella scelta dell’abbigliamento, vistoso e tutto in bianco, Ford rivela perciò un’originalità e un’insofferenza verso gli stereotipi che si rivela già modernissima. In una scena Hunter minaccia un damerino che aveva osato comprare un vestito simile al suo. Il suo è un camuffamento che testimonia l’insofferenza di Ford verso la tradizionale e marcata suddivisione tra buoni e cattivi.
E poi c’è la donna del villain, la ragazza traviata da Hunter, Millie, che scopriremo essere la sorella di Stanley. Anche lei, come i tre banditi, riscatterà la sua “colpa” in un gesto di fatale eroismo. In una scena la vediamo costretta e a dividere il proprio spazio in una carrozza con delle prostitute: lo stesso sprezzante e riluttante comportamento che mostrerà Lucie Mallory nei confronti di Dallas in Stagecoach. Tuttavia il ruolo di Millie, interpretata da Priscilla Bonner, fu uno dei più colpiti dai tagli della Fox. Anni dopo, l’attrice raccontò: «Andai all’anteprima a Hollywood ed ero attonita: io dov’ero? (…) C’era una scena in cui Lou Tellegen mi colpiva con una grande frusta, una scena davvero brutale. Nel film non c’era»[5]. Infine, il buon pastore, il Reverendo Calvin Benson (Alec Francis), la cui vita è interamente dedita alla comunità nascente e che di quella comunità, tramite l’edificio che funge da chiesa, costituisce il fulcro.
Le ambientazioni sono in location reali, precisamente la vasta valle di Jackson Hole, in Wyoming, e i monti del Taton Range, in cui sia Ford che altri registi torneranno poi a girare. Il cineasta si avvalse della collaborazione, fra gli uomini della troupe, di alcuni che, da piccoli, avevano vissuto in prima persona quegli eventi, e che poterono perciò fornirgli diversi aneddoti di prima mano. Le riprese in movimento degli inseguimenti – come quella dei banditi di Hunter che assaltano il carro dei Carleton – sono realizzate in campo lungo o medio tramite panoramiche, spesso interrotte da didascalie o controcampi riservati ai tre banditi che osservano la scena. Una lunga, lenta panoramica, che nella diegesi è la soggettiva di un soldato col binocolo che scruta l’orizzonte, ci mostra la linea infinita dei carri pronti per la partenza della gara alla vigilia della data prefissata. Alle panoramiche, dopo la partenza dei carri, si aggiungono anche alcune rapide carrellate e brevi camera-car, che conferiscono maggiore dinamismo e frenesia all’azione.
Siamo già alle prove generali della celebre corsa della diligenza di tredici anni dopo, con tanto di cadute da cavallo, rovesciamenti di carri e altri prodigi degli stuntman, come la scena già citata del salvataggio in extremis del bambino: rimasto a terra dopo il rovesciamento di un carro, un bimbo siede in primo piano, di fronte alla cinepresa. Sullo sfondo, in rapido avvicinamento, un gran numero di cavalli e carri avanzano a tutta velocità. All’improvviso, una mano lo solleva e lo issa in sella, salvandolo. In questo, come in altri momenti del film, Ford mostra anche tutta la sua maestria nell’uso del montaggio per costruire la tensione, dettare il ritmo dell’azione e farvi precipitare al centro lo spettatore, secondo la lezione appresa da Griffith.
Suggestiva, da un punto di vista luministico, è la sequenza più drammatica del film, quella che precede l’assalto dei banditi alla chiesa del pastore, durante la quale Millie muore per fare da scudo a quest’ultimo. Dopo aver fatto piombare giù da una collina dei carri incendiati per dare fuoco alla chiesa, vediamo i banditi in cima a quella stessa collina, in controluce contro il cielo ancora chiaro, immobili con le torce in mano; poi si precipitano verso il villaggio, inquadrati dall’interno buio di una casa in fiamme che fa da cornice all’immagine. E sempre le torce giocano un ruolo fondamentale nel creare un’atmosfera cupa e inquietante quando Stanley passa attraverso una folla di uomini con la sorella morta fra le braccia.
Nell’ultima parte, quella che precede il sacrificio dei tre bad men, si svolge tutto un siparietto di dialoghi e gesti semi-comici riguardanti l’amicizia virile, l’eroismo individuale (e la solitudine che comporta) e il dolore per il distacco, la paura della morte subito domata da un atteggiamento sbruffone ma anche coraggioso e senza compromessi per difendere un principio, una promessa fatta. Il film si conclude con l’immagine di un rigoglioso campo di grano, un Eden, in cui sorge la fattoria della giovane coppia sposata che ha già dato alla luce tre bambini, battezzati con i nomi dei tre banditi. E se Dan e Lee rappresentano il presente e il futuro della nazione, il sogno americano incarnato nei suoi due pilastri che sono la Famiglia e la Terra (promessa), i tre banditi rappresentano invece il passato, destinato a scomparire, a scolorire sempre più nel Mito. Si tratta qui di un passaggio di consegne più dolce che traumatico, di una visione tutto sommato ottimistica, per quanto malinconica, nella quale i tre possono cavalcare come fantasmi o spiriti verso l’orizzonte, consci e fieri di aver compiuto il loro dovere ed essersi pienamente riscattati dal loro passato da criminali, forse già assolti e risorti, nella mente del cattolico Ford, come i due ladroni sulla croce: «Si vedono le silhouette dei tre cavalcare e sparire all’orizzonte mentre protendono le braccia in una raffigurazione stilizzata della crocefissione»[6].
La visione si farà molto più amara, per non dire tragica, nel finale di quel capolavoro fordiano di oltre trent’anni dopo che è The Man Who Shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962): dopo il suo sacrificio in nome della civilizzazione e di una nuova era, di Tom Doniphon (John Wayne) non rimarrà che l’immagine spoglia di un cadavere in una bara, senza stivali e senza fucile, senza neanche l’onore al merito per aver eliminato il bandito del titolo e aver favorito l’ascesa dell’avvocato e futuro senatore Stoddard (James Stewart), l’uomo della civiltà e del futuro.
Vittorio Renzi
3 Bad Men (I tre furfanti)
Usa, 1926
regia: John Ford
soggetto: romanzo di Herman Whitaker Over the Border
sceneggiatura: John Stone, John Ford;
Ralph Spence, Malcolm Stuart Boylan (didascalie).
fotografia: George Schneiderman
musica: Dana Kaproff [2007]
costumi: Sam Benson
produzione: John Ford, per Fox
cast: George O’Brien (Dan O’Malley), Olive Borden (Lee Carlton), Tom Santschi (“Bull” Stanley), J. Farrell MacDonald (Mike Costigan), Frank Campeau (“Spade” Allen), Lou Tellegen (Layne Hunter), George Harris (Joe Minsk), Jay Hunt (Nat Lucas), Priscilla Bonner (Millie Stanley), Otis Harlan (Zach Little), Walter Perry (Pat Monahan), Phyllis Haver (Lily), Alec Francis (rev. Calvin Benson), George Irving (gen. Neville),
Grace Gordon, Bud Osborne
lunghezza: 9 rulli, 8.710 piedi / 2.655 metri
durata: 92’
data di uscita: 28 agosto 1926
[1] Tag Gallagher, John Ford. The Man and His Films, University of California Press, 1988, p. 48.
[2] All’anteprima per il pubblico andò male. Il film fu ritirato dalla Fox che impose molti tagli, per poi distribuirlo il 28 agosto 1926, ma anche in questa nuova forma il film fu accolto tiepidamente e subito dimenticato. Inascoltate le proteste di Ford, che voleva che il suo nome fosse tolto dai credits (Cfr. Joseph McBride, Searching for John Ford, Jackson, University Press of Mississippi, 2001, p. 157).
[3] Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Parma, Pratiche, 1990, p. 36.
[4] J. McBride, M. Wilmington, John Ford, New York, Da Capo Press, 1975, p. 151 (traduzione mia).
[5] J. McBride, (2001), op.cit., p. 157
[6] Franco Ferrini, John Ford, Milano, Il Castoro, 1975, p. 33.