Giovanni Pastrone
SINOSSI: Mario Alberti, un pittore sconosciuto, rimane folgorato dall’incontro con una duchessa, nonché illustre poetessa, tanto da non riuscire più a dipingere. Dopo un’iniziale ritrosia, la donna dapprima seduce il pittore, poi lo convince ad abbandonare la madre con cui vive e a rifugiarsi con lei nella sua attuale residenza, presso un castello, dove lo persuade a farle un ritratto. L’opera ottiene il plauso a un’esposizione d’arte. Ma dopo aver ricevuto la notizia che il marito sta per tornare, e avendo oramai ottenuto dal pittore l’opera autocelebrativa che desiderava, la poetessa si allontana dall’amante. Mario, dopo averla cercata ed essere stato da lei freddamente respinto, impazzisce dal dolore e finisce internato in un istituto.
Aveva venticinque anni e, alle spalle, una lunga carriera teatrale e una ventina di piccoli ruoli cinematografici alla Cines di Roma, Pina Menichelli, quando Pastrone la scelse per Il fuoco. Ma prima di questo grande lancio che fece di lei la terza grande diva del cinema italiano degli anni Dieci, dopo Lyda Borelli e Francesca Bertini, la Menichelli si era già messa in luce in alcuni film, e in particolare i tre diretti da Nino Oxilia nel 1915: Papà, Per amore di Jenny e Il sottomarino n. 27. Rispetto alla Borelli e alla Bertini, la Menichelli fu una diva più oscura, sensuale, ferina e vampiresca. E per altri nove anni seguitò a dare forma e nuove sfumature a questa immagine, fino al suo completo ritiro dalle scene nel 1924, a soli trentaquattro anni.
Il fuoco costituisce senza dubbio lo zenith del cinema mélo muto italiano, in quanto a essenzialità, intensità e simbolismi. La critica dell’epoca lo accolse piuttosto bene e ne riconobbe i meriti artistici. La sceneggiatura fu scritta dallo stesso Pastrone, il quale, per la prima volta, in qualità di regista, si firma col nome di Piero Fosco. Febo Mari rivendicò poi la sua collaborazione artistica all’opera, in termini di scrittura e regia, ma la maggior parte degli studiosi sono oggi propensi nel ritenere la cosa poco probabile. Così, se per ragioni di pura convenienza e “rispettabilità artistica”, Pastrone aveva attribuito la paternità di Cabiria (1914) a Gabriele D’Annunzio (autore in realtà solo delle didascalie e di alcuni dei nomi dei personaggi), qui si nasconde dietro tale pseudonimo. Nonostante il titolo del film rievochi quello dell’omonimo romanzo del Vate, uscito nel 1900, non vi si accomuna se non per certi temi e simbologie presenti diffusamente nella cultura di quegli anni.
Il film presenta una struttura tripartita: La Favilla, La Vampa, La Cenere, a scandire in maniera paradigmatica i tre stadi della passione dei due protagonisti, il pittore spiantato e ingenuo e la poetessa facoltosa, capricciosa e vanesia. Il tema del fuoco, annunciato dal titolo e articolato nei tre capitoli o atti, viene poi declinato in tutti gli aspetti del film, a partire dalle didascalie, dal linguaggio letterario e altisonante. E si riverbera anche nella tinta, che è rossa in quasi tutte le scene del film che vedono insieme i due amanti.
L’animale simbolo della duchessa è il gufo, come si evince sin dalla sua prima apparizione: in una stradina di campagna, un’automobile si ferma e ne scende la donna con il copricapo a forma del rapace. E come un uccello da preda, prima di scendere, guarda a destra e a sinistra muovendo la testa a scatti, proprio come vedremo fare al gufo appollaiato su uno dei muri del castello, al termine dei primi due atti del film. Poco dopo, mentre scrive i suoi versi sulla riva del fiume, la donna senza nome si mostra languorosa, capricciosa, con l’occhio vigile e sempre a caccia, una «donna affetta dalla sindrome di Don Giovanni»[1], tutta sensi e sensualità. Non c’è altro all’infuori del gioco della seduzione, dell’innesco della passione. La vita di questa predatrice si consuma tutta nell’attimo presente, il futuro non esiste, è solo un altro presente da consumare, altrove, con altre vittime. E’ una versione più carnale e ambigua delle donne della primavera dipinte da Alfons Mucha, in particolare quella seduta presso un lago o un fiume, la testa cinta da carnosi fiori rossi e i piedi nell’acqua, della quale incrociamo lo sguardo voluttuoso. E chissà se Pastrone conosceva la donna con in braccio il gufo ritratta in The Owl (1863), della pittrice preraffaelita Valentine Cameron Prinsep.
Se i primi personaggi interpretati dalla Borelli o dalla Bertini appaiono, tutto sommato, come donne appassionate, se non addirittura passive, disposte a sacrificarsi in nome dell’amore, le protagoniste dei primi diva film dell’Itala (in particolare Il fuoco e Tigre reale, 1916) possiedono invece una personalità più aggressiva, meno coinvolta sul piano sentimentale e con «una sensualità più malefica», che le accomuna in certa misura alle prime vamp del cinema internazionale, in particolare Theda Bara[2].
A differenza della tipica eroina ottocentesca, la donna vittima per amore che ancora sopravvive nei primi ruoli delle dive del cinema, la protagonista de Il fuoco è a sua volta un’artista, dunque si pone già alla pari con la figura maschile, anzi, la sopravanza, dal momento che lei è ricca e lui uno spiantato, lei una “poetessa illustre”, come ci informa una delle prime didascalie, e lui un pittore sconosciuto. Questa “predatrice seriale” – come possiamo presupporre che sia – non si assume responsabilità, non si cura delle conseguenze e finisce poi sempre per tornare al riparo del suo vantaggioso e rispettabile matrimonio. Nel suo essere emancipata e spregiudicata si pone, si direbbe, quasi come emblema della donna moderna, di cui presenta diversi tratti («fuma e guida l’automobile, affamata di revanscismo sessuale»[3]), una donna liberata da tutti i ruoli costruiti per lei da una società maschilista e patriarcale. Se non fosse che, nella sua alterigia e inaccessibilità, nella sua lascivia e crudeltà, è di fatto una creatura fuori dal tempo (come dev’essere una diva, del resto), quasi la fantasia incarnata di un masochista. E’ lei dunque il fuoco: una fiamma che consuma tutto ciò che la fa ardere e che solo di quello può vivere. E’ l’incarnazione stessa della passione. E, come Salomè, ottiene sempre, per diletto e per capriccio, la testa (nonché il cuore) del suo Giovanni Battista. Sembra con ciò incarnare dunque “l’avidità del piacere”, declinata al femminile, dichiarata nel primo celebre romanzo di D’Annunzio: quell’edonismo che si accompagna all’imperativo che lo scrittore mette in bocca al padre di Sperelli: «bisogna fare la propria vita come un’opera d’arte». In questo caso, l’edonismo è lo stile di vita della duchessa, e la vita che si fa arte è quella della duchessa-poetessa che usa il suo amante per ottenere, attraverso l’arte di lui, la glorificazione della propria bellezza. E quando lui, dopo aver terminato l’opera, scorgendo un neo sotto la clavicola della donna, decide di aggiungerlo al dipinto, in nome della verità, lei si adombra, ma poi sorride e lo cancella: l’opera a lei ispirata non deve mostrare alcun difetto, dev’essere perfetta.
Il film stesso di Pastrone percorre, una volta di più, le coordinate dannunziane per elevare definitivamente la “produzione cinematografica” a vera opera d’arte, unanimemente riconosciuta: ed ecco perché lui, un produttore, un uomo di calcoli e di affari, si cela dietro il nome dell’artista Piero Fosco, con il quale firmerà d’ora in poi soltanto le opere che ritiene superiori, realmente artistiche. Strumento principe di questo farsi arte del film è la diva, con la sua peculiarità di eternarsi a partire da un singolo ruolo, di assumere cioè su di sé, anche fuori dal set, i connotati del suo personaggio. Personaggio che verrà riproposto poi, con poche variazioni, di film in film affascinando milioni di spettatori e spettatrici e influenzando in tal modo, col suo modello divistico fatto di sguardi, gesti e atteggiamenti (oltre che di acconciature e abiti), i costumi e i comportamenti di un’intera epoca. Un gesto tipico della Menichelli è quello di sbattere le palpebre dei suoi grandi occhi, la bocca semiaperta; oppure socchiuderli quando è in preda a languori o assapora la passione, raggiungendo una sorta di orgasmo stilizzato che, in diversi casi, la censura italiana andò a colpire. Quando invece è stizzita o fa la capricciosa, il suo volto si oscura e l’espressione diviene fredda o sprezzante, facendo gelare il sangue nelle vene al suo spasimante, ma, in tal modo, legandolo ancora di più a sé.
Se le didascalie del capolavoro precedente potevano vantare la celebre prosa arcaicizzante e ricca di simbolismi del Vate medesimo, qui Pastrone vi si sostituisce imitandone lo stile, con risultati che oggi possono apparire pomposi e datati. Ad esempio il primo biglietto che la duchessa fa trovare al pittore, dopo aver fatto la ritrosa, recita: «Giungerò nel mistero e nelle tenebre al tuo nido, aspettata od inattesa. Io tenderò l’artiglio adunco e l’ala per ghermirti e levarti fino al cielo. Tu tenterai di farmi prigioniera ed il più forte vincerà la prova». Viene qui dichiarata esplicitamente la natura ferale di questa donna, il suo identificarsi apertamente con l’uccello rapace e il suo vivere le relazioni, oltre che nella passione, in termini di potere e di sfida. Più tardi la vediamo spuntare presso la finestra del pittore, quando questi oramai ha perso le speranze di rivederla: con il copricapo piumato, un sorriso rapace e le dita arcuate a mo’ di artiglio che tamburellano sui vetri della finestra.
Quando poi lui le mostra la stanza dove sta dormendo la sua anziana madre, la duchessa, con aria improvvisamente corrucciata, o addirittura schifata, distoglie lo sguardo e con un gesto lento della mano richiude la porta per sottrarsi a quella deprimente visione. Forse perché, come mostrerà la Alba d’Oltrevita di Rapsodia Satanica (1917) di Nino Oxilia, la vecchiaia per la diva è peggiore della morte, è la sua nemesi: piuttosto, meglio la dannazione eterna.
Il tema del fuoco si esplicita grandiosamente nella scena chiave del film, nella quale, la donna «con un’onestà sorprendente per una femme fatale (…) spiega in anticipo alla sua preda le regole del gioco»[4]. Nello studio del pittore, infatti, la donna afferra una lampada e dice:«L’amore che tu sai è come questa lampada: essa dà poca luce ad uno spazio breve e dura tutta una notte. Ma se io la spezzo…», dice, infrangendola su un tavolo e dando fuoco a dei fogli di carta, «Vedi! Come la passione la sua fiamma si leva fino al cielo e abbaglia… ma dura un attimo. Scegli!». Una scena visivamente suggestiva, con lo sfondo divenuto buio, dopo che la lampada è stata rotta, le fiamme in primo piano che rischiarano i volti dal basso (una trovata attribuibile al genio dell’operatore spagnolo, Segundo de Chomón). Al che lui risponde: «Bruciami!» e i due si baciano avvampati da quella fiamma che danza fra noi e loro: «Bruciami, bruciami l’anima». Chiarite le regole, dunque, il gioco può cominciare. E Pastrone traccia così una strada nuova per la sua diva, rispetto a quella percorsa dalle altre fino a quel momento:
Evitando la consueta esibizione della sofferenza femminile, ma anche senza indulgere, come ci si potrebbe aspettare, in alcuna conseguente forma di commiserazione per il maschio, Il fuoco propone il piacevole spettacolo di una diva che ama unicamente se stessa. La poetessa si autocompiace del proprio piacere sensuale. Pienamente soddisfatta di sé malgrado il palese disprezzo per l’oggetto stesso del suo piacere, impersona la forma più pura di narcisismo.[5]
Una panoramica segue poi la fuga romantica dei due sulla decappottabile bianca di lei, lungo una stradina, per poi svoltare a destra e percorrere un ponte e, infine, un lunghissimo viale alberato che conduce alla residenza temporanea della duchessa, niente di meno il Castello dei Gufi (che sarebbe poi il castello Grazzano Visconti, costruito nel 1395, e che si trova in provincia di Piacenza). Qui vivranno la loro passione e il loro idillio, fra le logge e i terrazzi del castello, nonché nel vasto e ameno parco che lo circonda, giacendo sulle sponde di un placido laghetto, presso un grande salice piangente, fra la vegetazione nella quale spuntano qua e là delle statue.
Un altro movimento di macchina c’è poco più tardi: un carrello all’indietro nel momento in cui lei, dopo avergli chiuso gli occhi, lo porta dinnanzi a una tela bianca. Mentre lui comincia a dipingere, lei comincia a spogliarsi, alle sue spalle. Quando lui si gira non la vede più. E poi: «Mario, guardami!». Ed eccola distesa su un sofà, coperta solo da un velo e provocatoriamente protesa verso la mdp, quindi verso lo spettatore: «E dai bagliori della vampa ch’ella accese, egli ebbe luce per la creazione», recita la didascalia. E’ il picco erotico del film: e ho idea che la censura si sia accanita in particolare su questa scena dato che, dopo quell’inquadratura eccitante della Menichelli, vediamo solo il pittore mentre la guarda e ne dipinge il ritratto, lo sguardo estasiato e ispirato. Siamo lì che bramiamo il prima possibile un controcampo per sbirciare ancora una volta le forme della Menichelli, e veniamo invece puniti con uno stacco di montaggio che ci mostra la madre di Mario che sospira alla finestra! Quando torniamo dal pittore e dalla sua modella, l’opera è ormai finita e la donna ha di nuovo i suoi vestiti indosso e tutto ciò che possiamo vedere è il suo licenzioso ritratto su tela: un nudo (ma sempre velato, come certi ritratti di odalische), vagamente ispirato, come è stato notato in più occasioni, al pittore accademico Alexandre Cabanel e alla sua Naissance de Vénus (1863).
Dopo l’esposizione a una mostra collettiva di nuovi talenti, sui giornali viene riportata la notizia che il dipinto è stato disputato da due stranieri e poi acquistato da uno di loro che ha però mantenuto l’anonimato. Mario è al culmine della gioia, ma ecco che lei gli dice: «Ricorda: la vampa dura un attimo e noi l’abbiamo vissuto». E da quel momento si rende inaccessibile all’amante, sorda e indifferente alle sue suppliche, pare anzi ridere di lui. Finge di concederglisi un’ultima sera, in cui pare davvero vestita da odalisca, con quella piuma sulla fronte. Ma mentre lui è preso a baciarle il collo, lei gli versa del sonnifero nel bicchiere. Nel momento in cui dà un ultimo bacio all’uomo addormentato, si avvertono in lei una certa tenerezza e malinconia. Un simile momento di esitazione lo ha nella penultima scena del film, quando viene sorpresa per puro caso da Mario mentre è insieme al marito in un foyer. Dapprima lei finge di non riconoscerlo, poi, quando lui dà in escandescenze, lo guarda mentre lo trascinano via a forza fuori dalla sala. Ecco allora che, di nuovo, un’ombra passa sul suo viso. Un primo piano sul volto, fino a poco prima ridente, denota ora un’incertezza, un’esitazione: è forse la coscienza che, per un attimo, le rimorde? Il senso di colpa per l’uomo che ha pubblicamente respinto e umiliato, fingendo di non conoscerlo? Ma ecco che la donnagetta la testa indietro in una risata: è già tutto dimenticato, e una lenta, magnifica dissolvenza suggella la sua completa e totale vittoria.
Il diva film di Pastrone è forse il primo ad adoperare in maniera ricorrente il primo piano, permettendo in tal modo la comunione, in nome del culto di Eros, degli spettatori con il viso (oltre che il corpo) della diva, di cui può finalmente vedere da vicino le diverse espressioni:
Il cinema delle dive (…) ha modo, esplorando i primi piani e cercando il contatto ravvicinato, di intravvedere l’”oltre” di cui parla Serafino Gubbio, l’operatore del romanzo di Pirandello I quaderni di Serafino Gubbio operatore del 1916, di tentare di scandagliare i misteri dell’anima a cui da qualche tempo si dedica la scienza sua coetanea creata dal dottor Freud, ha il privilegio, unico tra le arti, di cogliere quelle caratteristiche di “fotogenia” messe in luce da Louis Delluc all’indomani della guerra mondiale proprio parlando delle dive italiane.[6]
Prima di rincontrare per caso il suo amore perduto, Mario era tornato piangente dalla madre, dopo la scomparsa della donna dal castello. Egli prova a dipingere in casa, ma senza alcuna ispirazione. All’improvviso, mentre sta dipingendo su una grande tela uno scorcio del castello all’interno del quale ha vissuto la sua felicità, sul torrione appare l’immagine di un gufo. E’ il primo segno della follia. Dopo la scena al ricevimento e la dissolvenza sul volto ridente della crudele amante, ritroviamo il pittore chiuso in una stanza del manicomio, a ritagliare figure di carta con un sorriso stupido sulle labbra. Sulla parete, dietro di lui, ha disegnato un grande gufo, un’immagine-simbolo che continuerà a perseguitarlo probabilmente per sempre. Poi il suo sguardo si fa opaco e vuoto e l’uomo guarda in macchina. Un finale tragico che richiama vagamente, per consonanza, quello di La dama di picche di Puskin (e dei suoi vari adattamenti sullo schermo, fra cui il film omonimo di Protazanov), in cui il giovane ufficiale Hermann faceva quella stessa fine, anche se in quel caso l’ossessione non era amorosa.
Riguardo alla figura del pittore, che rischia facilmente di passare in secondo piano, data la preponderanza della diva e del suo personaggio, trovo particolarmente illuminante questo passaggio di Alovisio:
In pochi altri melodrammi del muto italiano, il maschio vive una crisi così profonda e drammatica. L’adultità di Mario è anche compromessa dalla persistenza di tratti infantili come la convivenza con la madre, le reazioni emotive incontrollate, il rifiuto di accettare la fine del gioco (amoroso). In un contesto segnato, come in molti altri diva film, dall’assenza del padre, il protagonista del Fuoco stenta a vivere relazioni che si pongano al di fuori della dipendenza affettiva e del maternage più o meno esplicito. Il maternage autoritario esercitato sul pittore da parte della protagonista può avere buon gioco perché Mario ha una personalità passiva. Durante l’ultima schermaglia erotica con la poetessa, prima che questa lo narcotizzi e lo abbandoni, il pittore prende la corda di una tenda, si avvicina alla donna e tenta di legarla. Non si tratta di un gesto sadico, ma dell’estremo tentativo da parte del protagonista di “legare” a sé la nuova Madre.[7]
Febo Mari e Pina Menichelli condivideranno di nuovo il set e gli ardori passionali nel lungo flashback contenuto nel successivo film di Pastrone, Tigre reale. Mari invece, in qualità di regista, non diresse mai la Menichelli in un suo film.
Donato dallo stesso Pastrone al Museo Nazionale del Cinema di Torino nel 1959, Il fuoco è stato poi restaurato nel 1991 presso il Laboratorio Favro di Torino, dedicato alla storica del cinema Maria Adriana Prolo, fondatrice del Museo. Fu proiettato lo stesso anno al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, e poi riproposto alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone nel 2010.
Il regista Davide Ferrario ha reso omaggio al film di Pastrone inserendone alcune inquadrature in Dopo mezzanotte (2003), ambientato proprio all’interno del Museo Nazionale del Cinema.
Vittorio Renzi (6 febbraio 2018)
Il fuoco
[La favilla. La vampa. La cenere]
Italia, 1916
regia: Giovanni Pastrone
soggetto e sceneggiatura: Giovanni Pastrone [e Febo Mari?]
fotografia: Segundo de Chomón
produzione: Giovanni Pastrone, per Itala Film (Torino)
cast: Pina Menichelli (la poetessa), Febo Mari (Mario Alberti)
lunghezza: orig.: 1.100m / restauro (1991): 1.038 m
durata: orig.: 52’ (a 18fps) / restauro (1991): 50′ (a 18 fps)
première: 29 aprile 1916
[1] Gian Piero Brunetta, Il cinema muto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 89.
[2] Silvio Alovisio, Giovanni Pastrone. I sogni della ragione, Roma, Fondazione Ente dello Spettacolo, 2015, p. 50.
[3] Ivi, p. 124.
[4] Linda Williams, Catalogo delle Giornate del cinema muto, Pordenone, 2010, p. 96.
[5] Ibidem.
[6] Brunetta, op. cit., p. 99.
[7] Alovisio, op. cit., p. 121.