L’Inhumaine (Futurismo, 1924)

Marcel L’Herbier

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SINOSSI: La celebre cantante Claire Lescot dà una festa nella sua grandiosa villa, cui partecipa un folto stuolo di ricchi pretendenti che le promettono immani fortune pur di conquistarla. Per ultimo, giunge un giovane ingegnere svedese, Einar Norsen, che però non può offrirle altro che il suo amore sincero. Ma la sdegnosa Claire, soprannominata da alcuni la “disumana” per via del suo gelido cuore, lo rifiuta senza troppe cerimonie. Il giovane allora simula il suicidio in un incidente d’auto. La donna è in preda ai sensi di colpa, ma si esibisce comunque in uno spettacolo, dove prima viene fischiata e ingiuriata dal pubblico, ma infine il suo grande talento trionfa sui pettegolezzi. Claire si reca poi a casa di Norsen e scoppia a piangere in presenza di quello che crede essere il suo cadavere. Ma ecco che il giovane compare svelando il suo inganno, grazie al quale egli ha fatto sì che la donna mostrasse i suoi veri sentimenti. Norsen le mostra allora il suo laboratorio, pieno di favolose invenzioni, fra cui la “televisione”, tramite cui Claire può far ascoltare la sua voce al mondo intero. Ma proprio quando Norsen è sul punto di conquistarla, il maharajah del Nopur, in un accesso di gelosia, provoca la morte della donna nascondendole nell’auto un serpente velenoso. Norsen riesce però a riportarla in vita grazie a un altro dei suoi macchinari.

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Ciò che è importante non è per me la sfilata degli avvenimenti, ma è ciò che è verticale: l’armonia plastica.[1]
(Marcel L’Herbier)

Nel 1923, l’anno in cui ebbe inizio il progetto di L’Inhumaine, Marcel L’Herbier, dopo aver rotto con la Gaumont con cui aveva realizzato tutti i suoi film precedenti, aveva appena fondato la sua casa di produzione, la Cinégraphic, inseguendo il sogno di un cinema al di fuori dei meccanismi puramente commerciali, un cinema che fosse allo stesso livello delle altre arti e di cui avere il controllo artistico totale. L’Herbier dunque lanciò la sua scommessa ed intraprese la sua lotta per un cinema d’autore con trent’anni di anticipo sulla Nouvelle Vague. Il cineasta supervisiona infatti ogni aspetto del film, sia tecnico e artistico, dopo averne affidato la realizzazione a persone di sua fiducia, come i due futuri registi Alberto Cavalcanti e Claude Autant-Lara: il primo incaricato delle scenografie, il secondo della realizzazione di uno dei set, il “Giardino d’inverno” artificiale della villa di Claire Lescot, che sembra ispirato alle opere di Rousseau il Doganiere. L’architetto e designer Robert Mallet-Stevens si occupò delle facciate esterne di Villa Lescot, simbolo del Modernismo, e della casa-laboratorio di Norsen, in stile De Stijl, la cui porta d’accesso sembra un’opera di Mondrian. Il laboratorio, «sorta di installazione ante litteram firmata Fernand Léger»[2], è un’affascinante opera futurista a tre dimensioni in cui avviene la sublimazione della scienza nell’arte. Fra gli altri artisti coinvolti, Pierre Chareau per i mobili, lo scultore Joseph Csaky, il creatore di moda Paul Poiret per i costumi e il compositore Darius Milhaud, il cui spartito è andato però perduto.

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L’intenzione di L’Herbier è dunque quella di creare l’incontro e la “sintesi di tutte le arti”, nel crogiolo del linguaggio e degli apparati cinematografici, come preconizzava anni prima Ricciotto Canudo – che L’Herbier conosceva bene. Il risultato, inseguito e voluto, è quindi quello di una sorta di Gesamtkunstwerk cinematografica, in cui però gli aspetti emotivi rimangono in buona parte soffocati in questa affascinante seppur maniacale ricerca di perfezione stilistica, formale e simbolica di ogni sua singola componente. E fu questa commistione di sperimentalismo linguistico e formale e struttura da melodramma che, all’uscita del film, spiazzò e divise sia il pubblico che la critica. Ma l’anno successivo, il 1925, a Parigi fu l’anno dell’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e Industriali Moderne, di cui L’Herbier fu uno dei membri della giuria. L’Inhumaine in tale occasione fu riproiettato nelle sale riscontrando stavolta un pieno consenso. Fu tra l’altro proprio durante questo importante evento che iniziò a circolare il termine Futurismo (anche se il movimento era attivo in Italia già da oltre un decennio), che divenne poi il titolo italiano del film.

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Il film, una sorta di melodramma raggelato, proprio come il cuore della protagonista, ha un’andatura decisamente anomala, diviso com’è in tre blocchi principali che corrispondono poi ai tre ambienti principali in cui si svolge: la festa nella lussuosa villa di Claire, che occupa i primi tre quarti d’ora circa, lo spettacolo al Teatro degli Champs-Elysées – che include il balletto La Nuit de Saint-Jean (1920), dei Ballets Suédois di Jean Börlin e Rolf de Maré, che si esibiranno anche in Entr’Acte (1934), di René Clair – e la visita al laboratorio di Norsen. All’interno di questa sua struttura monumentale e imponente, che fa capo alle fantasiose realizzazioni dei suoi scenografi, L’Herbier mette in essere tutta una serie di sommovimenti, mediante variazioni e ripetizioni di inquadrature, cambiamenti d’asse, inquadrature frontali (con tanto di sguardi in macchina di Norsen/Catelain) e oblique, l’uso psicologico ed emotivo del colore, la recitazione “esteriorizzata” che a momenti rende gli attori simili a marionette (Catelain, in particolare).

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E poi ancora, le riprese aeree con panoramiche a schiaffo, dissolvenze incrociate velate da una sorta di nebbiolina luccicante (specie su Claire Lescot, quasi a rendere in modo palpabile, tattile, il suo fascino), sovrimpressioni e distorsioni delle immagini (la corsa in macchina di Norsen, la sequenza “futurista” per eccellenza, in cui i tronchi degli alberi sembrano piegarsi, la testa del giovane si sdoppia e il paesaggio che scorre all’indietro si scompone fino a divenire un’immagine puramente cinetica), un montaggio ora piano ora convulso e sincopato: la scena in cui Claire è assalita dai sensi di colpa di fronte al finto cadavere di Norsen; e, soprattutto, la sequenza finale. La scena della “rianimazione” di Claire è un vero e proprio atto di virtuosismo cinematografico, che sembra ricalcare le invenzioni di montaggio più audaci del capolavoro di Abel Gance dell’anno precedente, La Roue (La rosa sulle rotaie, 1923), e al culmine della quale L’Herbier arriva a montare singoli fotogrammi di colori diversi per innescare una vera e propria detonazione emotiva, in cui la luce e le immagini divengono ritmo e musica, un vero e proprio “baletto meccanico”, la cui ispirazione è la medesima dell’omonimo film sperimentale realizzato da Léger (Le Ballet mécanique, 1923) proprio durante le riprese de L’Inhumaine: l’eco di entrambi giungerà fino al Metropolis (1927) langhiano.

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Claire Lescot ha lo sguardo altezzoso e gelido di una Gorgone, che pietrifica i suoi corteggiatori distruggendo tutte le loro speranze. Il desiderio sui loro volti si tramuta presto in sgomento. Gli uomini per lei non sono che dei pupazzi, come sembrano attestare i suoi domestici che indossano tutti maschere da fantocci e il giocoliere che, durante la festa, si esibisce palleggiando con i piedi un barile, è la raffigurazione beffarda dell’identico modo in cui Claire “palleggia” i sentimenti dei suoi corteggiatori, e di come gode nel farlo. Così come il mangiatore di fuoco sembra alludere nuovamente alla pericolosità di un gioco amoroso condotto sulla linea del disprezzo (Claire che “mangia” e poi sputa via il cuore degli uomini). Il ruolo di Claire fu ricavato da un vecchio scenario intitolato La femme de glace (La donna di ghiaccio), riscritto da Pierre MacOrlan per adattarlo sulla cantante lirica Georgette Leblanc, che era poi anche la principale finanziatrice del progetto accanto alla Cinégraphic. C’è da dire che la Leblanc non aveva proprio il physique du role che il suo personaggio avrebbe richiesto, quello della donna bellissima e fatale, anche per via dell’età (55 anni all’epoca delle riprese), e questo costituì uno dei motivi delle dure critiche da parte dei recensori più severi. Ma d’altra parte, proprio la differenza d’età fra i due rafforza la concezione di un legame edipico e mostruoso che dà luogo ad un sottotesto non solo psicanalitico ma anche orrorifico: lei un vampiro, lui un novello Frankenstein che la riporta in vita…

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Fra le geniali figurazioni dinamiche del laboratorio ideato da Léger, c’è uno schermo, denominato proprio «televisione» in una didascalia, che in realtà è concepito da L’Herbier come una via di mezzo fra uno schermo cinematografico e un apparato radiofonico: Claire vi immette la propria voce tramite un microfono e, non si capisce per quale prodigio, lo schermo le restituisce le immagini di tutti coloro che la ascoltano in quel momento in tutto il globo! Tuttavia è oltremodo interessante questa concezione di «spazio abolito», come sottolinea un’altra didascalia, per mezzo di questa invenzione di cui già in quegli anni si iniziava a parlare, ma la cui presentazione al mondo avvenne solo verso la fine del decennio. Fra l’altro, L’Herbier sarà il primo cineasta francese a lavorare per la televisione, apportando anche una riflessione teorica sulle specificità e le possibilità offerte dal nuovo medium.

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Nella prima parte del film, una delle didascalie («Quelque chose») galleggia luminosa nell’aria intorno ai personaggi, proprio come accadeva in Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920) di Wiene. E, del resto, sia l’architetto Adolf Loos che Michelangelo Antonioni parlarono di “caligarismo” a proposito del film di L’Herbier, in riferimento soprattutto all’uso delle scenografie.

Marcelle Pradot qui ha un ruolo minore, quello della paesana che corre ad avvertire la cantante del suicidio di Norsen; la rivediamo più tardi in una delle immagini prodotte dalla televisione, mentre, malata di tubercolosi e oramai morente, siede ad un tavolo nella sua modesta dimora ascoltando la voce di Claire. La giovane attrice, che lavorò solo ed esclusivamente nei film di Marcel L’Herbier, convolò a nozze con il suo regista proprio durante l’anno della lavorazione di questo film. L’Inhumaine sparì dalla circolazione per decenni. Nel 2015, dopo il restauro ad opera della Lobster Films (che fra l’altro ha reintegrato la bellissima quanto complessa colorazione originale, basata su tecniche miste), è stato presentato a Parigi nel 2015, subito seguito dalla pubblicazione di un cofanetto contenente sia il Blu-ray che il DVD.

Vittorio Renzi (3 marzo 2016)


[1] Autour du cinématographe, intervista di Jean-André Fieschi a Marcel L’Herbier, in “Cahiers du Cinéma”, n. 202, giugno-luglio 1968, p, 34.
[2] Noël Burch, Quatre films de Marcel L’Herbier, in L. Véray (a cura di), Marcel L’Herbier, l’art du cinéma, Association Française de Recherche sur l’Histoire du Cinéma, Paris, 2007, p. 207 (traduzione mia)

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L’Inhumaine (Futurismo)

Francia, 1924

regia e produzione: Marcel L’Herbier

sceneggiatura: Marcel L’Herbier, Pierre MacOrlan [Pierre Dumarchais] 

e Georgette Leblanc

fotografia: Georges Specht e Roche

musica: Darius Malhaud

scenografia: Alberto Cavalcanti, Claude Autant-Lara

set design: Robert Mallet-Stevens, Fernand Léger,

Claude Autant-Lara, Michel Dufel  e Pierre Chareau

costumi: Claude Autant-Lara, Paul Poiret

produzione: Cinégraphic

cast: Georgette Leblanc (Claire Lescot), Jaque Catelain (Einar Norsen), Léonid Walter de Malte (Wladimir Kranine), Philippe Hériat (Djorah de Nopur), Fred Kellerman (Frank Mahler), Marcelle Pradot (la ragazza), Prince Tokio, Las Bonambellas, Rolf de Mare Ballets, Jean Börlin, Raymond Guérin-Catelain, Émile Saint-Ober

durata:  124’ 

première: 12 dicembre 1924

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