Ma l’amor mio non muore! (1913)

Mario Caserini

Ma l'amor mio non muore! 1

SINOSSI: Nel Granducato di Wallenstein vive la bella Elsa Holbein, figlia del colonnello Julius Holbein. Costui si uccide perché accusato ingiustamente di tradimento, in quanto è stato derubato dei suoi piani strategici da Moise Stahr. Elsa viene esiliata e si rifugia in Riviera, dove calca le scene come cantante e attrice con lo pseudonimo di Diana Cadouleur, ottiene successo e trova nuovamente la serenità. Ma quando si innamora del Principe Massimiliano, decide di lasciare il teatro per lui. Durante una gita in battello sul lago di Locarno, Elsa rincontra Stahr che, riconosciuta la donna e venendo da essa respinto, per ripicca diffonde nel Granducato notizie false ed allarmanti sulla condotta del Principe Massimiliano. Il Granduca di Wallenstein fa richiamare in patria il principe, e i due giovani si separano. Massimiliano però torna in cerca di Elsa, la trova di nuovo in teatro ma lei, oramai rassegnata all’impossibilità del loro amore, beve una fiala di veleno.

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Il film di Mario Caserini costituisce l’esordio nel mondo del cinematografo della ventiseienne Lyda Borelli. L’attrice, nata a La Spezia, all’epoca era già una celebre e amatissima attrice di teatro. Divenuta prima attrice a soli 18 anni, aveva interpretato ruoli quali Splendore ne La figlia di Iorio, di D’Annunzio e Salomè dall’omonima opera di Oscar Wilde. Il suo lancio sul grande schermo venne fatto in pompa magna, con un grande battage pubblicitario. Fu lei, a tutti gli effetti, la prima vera diva del cinema italiano, anche se di lì a poco l’epiteto le verrà conteso da almeno altre due attrici, Francesca Bertini e Pina Menichelli. Tutti i fermenti culturali e i riferimenti iconografici del periodo sembrano confluire in lei, e così, oltre alla fama acquisita già a teatro e poi a partire da questo primo film, vanno ad intrecciarsi nella figura della diva le opere di Boldini, di Klimt, dei preraffaeliti di Mucha. Decadentismo e dannunzianesimo, simbolismo e liberty. Come una sacerdotessa di una religione pagana, la diva assomma in sé tutti i segni visibili di un’epoca, tutti i desideri e le proiezioni dell’immaginario, sia maschile che femminile. Le sue acconciature, il suo portamento, la sua gestualità verranno imitate non solo dalle altre attrici, ma anche dalle donne comuni, le spettatrici dei suoi film, le donne che la vedevano ritratta in magnifici abiti in innumerevoli foto e ritratti eseguiti dentro e fuori dai set: «E’ la Borelli forse che, per prima – più ancora della Nielsen – crea e diffonde il rito laico della comunione con il corpo e col sangue del divo a cui si sottoporranno dalla seconda metà degli anni Dieci, milioni di persone settimanalmente in tutto il mondo»[1].

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E’ dunque chiaro come la donna – o meglio, la sensualità e la femminilità della donna – sia l’oggetto principe del diva-film[2], di cui Ma l’amor mio non muore! segna la nascita: una donna idealizzata, una donna-archetipo (e, di lì a poco, la femmina peccaminosa, la donna-vampiro il cui amore conduce alla perdizione e alla morte, incarnata soprattutto dalla Menichelli) destinata da subito a sedurre e a convertire una vasta schiera di accoliti e di devoti. Perché le dive del cinema italiano degli anni Dieci non fecero solo la storia del cinema, ma anche dei costumi, incarnarono lo spirito stesso dell’Italia Liberty, dettando il gusto, i gesti e il comportamento di milioni di persone, trovando anche una vasta eco persino oltreoceano, quando Hollywood viveva ancora gli anni della sua infanzia. La stessa idolatria non si produsse invece per le controparti maschili, e ciò indipendentemente dal fascino o dal talento che potessero avere: essi rimasero sempre all’ombra delle prime attrici ed esistevano in funzione di esse. In questo film, la Borelli incarna nella fattispecie un’eroina borghese dall’anima pucciniana, destinata al dolore (dolore che non a caso il suo nome d’arte riecheggia: Cadoleur) a causa di un destino avverso, eppure dedita interamente all’amore: le sue ultime parole, che danno il titolo al film, sono anche le ultime di Manon Lescaut, nell’opera omonima di Puccini del 1893.

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Prodotto dallo stesso regista che, dopo aver lavorato prima alla Cines e poi all’Ambrosio, aveva fondato a Torino la Film Artistica Gloria, Ma l’amor mio non muore! è ricavato, anziché da un testo preesistente, da un soggetto piuttosto semplice, forse proprio allo scopo di mettere in risalto l’interpretazione della Borelli. Ed esce nei cinema nel periodo in cui il genere che andava per la maggiore era il kolossal storico, che di lì a poco sarà portato in trionfo prima da Quo Vadis, di Enrico Guazzoni e poi Cabiria (1914), di Giovanni Pastrone. Lo stesso Caserini (la cui filmografia è vastissima e tocca praticamente tutti i generi battuti dal cinema italiano muto) aveva in cantiere Nerone e Agrippina (1914), destinato ad essere un grande successo. Prima però decise di mettere in atto la sua scommessa: portare sul grande schermo quella che all’epoca era già, a soli ventisei anni, la più amata e apprezzata delle attrici di teatro, dopo il ritiro dalle scene della Duse. E creare il film su di lei e intorno a lei, così come nei kolossal si mettevano in rilievo le scenografie grandiose e monumentali:

Il ‘monumento’ intorno al quale tutto si compone stavolta è il corpo dell’attrice, costante centro mobile attorno a cui ruota una girandola di elementi spaziali e scenici che cambiano continuamente, disponendosi sempre in modo diverso su piani differenti del quadro”.[3]

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Questo lavoro sullo spazio e sul corpo della diva, non viene svolto però né dai movimenti di macchina (ancora in via di prudente sperimentazione), né dalla frammentazione dell’immagine data montaggio all’americana, che al momento destava ancora diffidenza nella concezione della fruizione estetica italiana ed europea, così legata alla pittura e al teatro, e dunque all’interezza della visione. Visione dalla quale però “direttori di scena” come Guazzoni, Pastrone e lo stesso Caserini per primi ricavarono il senso della prospettiva e della profondità e lo applicarono al cinema, facendogli muovere un decisivo passo in avanti verso la conquista di un suo linguaggio autonomo. Le inquadrature italiane, dunque, se tendono a risolvere al proprio interno le singole scene, non ripropongono però più un’immagine centrale e centrata, piatta, bensì si addentrano negli spazi e lasciano che i personaggi vi si muovano in maniera articolata.

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In Ma l’amor mio non muore! la profondità di campo delle riprese nel palazzo Hobein è davvero notevole. Il colonnello e sua figlia Elsa si trovano dapprima al centro di questo grande salone, ma poi si voltano e camminano lentamente verso una delle due sale ad angolo sullo sfondo, per la precisione quella sulla destra, un salotto più piccolo. L’uomo si siede su una sedia, mentre Elsa si siede sulla scrivania, davanti a lui. La sala da pranzo, a sinistra, per il momento è celata da una tenda. La presenza umana nell’inquadratura si fa dunque periferica, con questo grande spazio vuoto al centro che la rende una vera tranche de vie, come se fossimo lì, in quella dimora, a spiare quegli accadimenti. E’ un grosso passo in avanti verso il naturalismo al cinema, logicamente anch’esso desunto dalle sperimentazioni che già si compivano a teatro (come l’annullamento della quarta parete). Ecco poi che padre e figlia ritornano nel salone, mentre intanto, per tutta la scena, altri personaggi, ufficiali e colleghi del colonnello, entrano ed escono dallo spazio inquadrato. Finalmente la grande tenda in fondo a destra viene aperta e ci viene rivelata la sala da pranzo; successivamente, l’azione torna nel salone, dove poco dopo Lyda Borelli, in un raffinato abito bianco, fa il suo primo assolo davanti a una macchina da presa.

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La regia di Caserini, che all’epoca aveva diretto già oltre quaranta film, si fa notare, dunque, oltre che per la grande eleganza della messa in scena e l’esplorazione (o anche emanazione, potremmo dire) dello spazio intorno alla diva, anche per certi tocchi di classe, come nella famosa scena nel camerino di Elsa, divenuta ora un’attrice di teatro. La donna siede davanti a uno specchio tripartito che moltiplica il suo sguardo, il suo volto e i suoi gesti trasformando la sua performance in una sinfonia dell’attrice e della donna. Un escamotage che viene usato in diverse occasioni durante il film che si rivela anche un esempio di montaggio interno all’inquadratura, che va a sostituire la frammentazione dei piani con l’unità frammentata di un unico piano. Altra trovata di grandissima efficacia è il momento prima dello spettacolo nel quale Elsa veste i seducenti panni di Salomè. La donna siede languida su una sedia, dando le spalle alle tende chiuse del sipario, mentre tutto intorno regista e troupe compiono gli ultimi preparativi. Improvvisamente il sipario si apre rivelando il pubblico che si anima ed applaude, mentre Elsa/Diana/Salomè si alza e, volgendo ora a noi le spalle, si mostra ai suoi spettatori.

Pur non ricorrendo quasi mai al primo piano (memorabile quello del finale, con tanto di mascherino ovale), Caserini lascia che la Borelli si esprima con tutto il corpo. Gesti spesso molto marcati, carichi di simbolismi e che più tardi diventeranno il birignao delle sue imitatrici e delle sue innumerevoli fan; di fatto però la Borelli fu tra le prime attrici cinematografiche a intuire il modo di supplire, al cinema, alla mancanza della voce e della parola, e di conseguenza a far parlare al proprio corpo un linguaggio non solo seducente ma anche universale, che fosse comprensibile a tutti. D’altra parte si rivela capace, in alcuni momenti, anche di una recitazione più raccolta e sfumata, come nella bellissima scena alla stazione in cui, seduta a un tavolo, scrive la sua lettera d’addio a Massimiliano.

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Il grande successo nazionale e mondiale del film, «opera che rappresenta la stella polare, il punto di aggregazione sullo schermo delle spinte provenienti dal teatro, dall’opera lirica, dalla narrativa popolare, dalla pittura, dalla poesia, dalla grafica pubblicitaria»[4], spinse Caserini, stavolta in veste esclusivamente di produttore, a mettere subito in cantiere un altro melodramma, La memoria dell’altro, ambientato a Venezia, affidando nuovamente i ruoli dei protagonisti a Lyda Borrelli e a Mario Bonnard.

In origine, la pellicola di Ma l’amor mio non muore! era stata colorizzata mediante imbibizione, come si vede nella copia lacunosa conservata presso la Cineteca Nazionale di Roma. Ma il restauro del 2013, in occasione del centenario del film, è stato effettuato in bianco e nero a partire dal negativo camera conservato alla Fondazione Cineteca italiana di Milano, con il vantaggio però di aver potuto reintegrare diverse scene fino ad allora mancanti. Ne risulta ora mancante soltanto una, mentre un’altra, relativa al corteggiamento di Elsa/Diana da parte di Massimiliano, sembra essere incompleta.

Vittorio Renzi (10 febbraio 2016)

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Ma l’amor mio non muore!

Italia, 1913

regia: Mario Caserini

soggetto: Emiliano Bonetti, Giovanni Monleone

sceneggiatura: Giovanni Monleone, Emiliano Bonetti

fotografia: Angelo Scalenghe

produzione: Gloria

cast: Lyda Borelli (Elsa Holbein), Mario Bonnard (principe Massimiliano di Wallenstein), Vittorio Rossi Pianelli (col. Julius Holbein), Gian Paolo Rosmino (Moise Sthar), Emilio Petacci (col. Theubner), Camillo De Riso (Schaudard), Dante Cappelli (granduca di Wallenstein), Maria Caserini (granduchessa di Wallenstein), Antonio Monti (generale)

lunghezza: 9 rulli, 1.600 metri

durata:  78′ (a 18fps)

data di uscita: ottobre 1913

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[1] Gian Piero Brunetta, Il cinema muto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 96.
[2] Stella Dagna, Ma l’amor mio non muore!, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p. 34.
[3] Ibidem.
[4] G.P. Brunetta, Cinema muto italiano, in Storia del cinema mondiale, Torino, Einaudi, 2000, vol. 3, tomo primo, p. 47.

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