La Chute de la maison Usher (La caduta della casa Usher, 1928)

Jean Epstein

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SINOSSI: Chiamato per lettera da Roderick Usher, inquieto per la salute della moglie, un suo vecchio amico si reca nella loro lugubre casa, dove trova il proprietario intento a dipingere il ritratto di Lady Madeleine. La donna sembra deperire giorno dopo giorno, man mano che il marito la ritrae. Finché, una volta terminato, la donna muore. Il corpo di Madeleine viene sistemato dentro una bara, ricoperto da un ampio velo bianco e poi trasportato in una cripta. In una notte di tempesta, Madeleine riemerge dalla sua cripta e si incammina verso la casa, proprio mentre un incendio va propagandosi per il maniero. Ricongiuntosi con la moglie tornata dalla morte, Roderick Usher fugge con lei e con il loro ospite, appena in tempo per veder crollare casa Usher sotto le fiamme.

Film disponibile in streaming
sul sito della Cineteca di Milano: LINK

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Il film è ispirato, come dice la didascalia iniziale, a “motivi di Edgar Allan Poe”. Il racconto cui fa riferimento il titolo del film, dunque, non è che uno di quelli a cui Epstein ha voluto ispirarsi, come cornice, principalmente per l’ambientazione nel vecchio maniero, per il nome dei due occupanti e per la visita del vecchio amico che, nel racconto è il narratore. Ma Roderick e Madeline non sono qui fratello e sorella, come nel racconto di Poe, bensì marito e moglie. Epstein opera anche un sostanziale cambiamento nel finale: se nel racconto era il solo visitatore a salvarsi, nel film si salvano tutti e tre. Il tema del marito che dipinge un ritratto di sua moglie, causandone la malattia e la morte, è invece ripreso da Il ritratto ovale (1842). Si ritrovano infine motivi da altri celebri racconti (fra cui Ligeia, del 1838, il cui nome compare su una targa), ma è fuori dubbio che ciò che interessa ad Epstein è ricreare, a livello puramente cinematografico, le atmosfere mortifere e deliranti, ma anche le aperture vitalistiche dell’opera dello scrittore di Boston.

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Sin dall’inizio, Epstein opera una dislocazione (spazio-temporale) e una frammentazione della realtà. Del visitatore vediamo inquadrate le gambe, poi le mani, poi viene ripreso di spalle mentre bussa alla taverna. Infine, l’uomo legge la lettera ricevuta dall’amico, Roderick Usher, con una lente di ingrandimento, ma ancora non vediamo il suo volto. Nel frattempo, gli astanti della taverna lo osservano in silenzio. Solo allora egli si volta e scorgiamo il volto di un uomo anziano. Non sarà possibile, lungo tutto il film, avere una chiara visione di insieme, distaccata e oggettiva. In qualche modo, potremmo dire, La Chute de la maison Usher è girato in “soggettiva”, inseguendo la percezione alterata di Roderick Usher e il suo particolare dono/maledizione nello scorgere “l’anima delle cose”. Anche Usher è introdotto dall’immagine delle sue mani, mani tormentate che, alzate, sembrano cercare qualcosa (cercare, per essere precisi, a livello “tattile”, sentire) e le cui dita infine s’intrecciano quando fa la comparsa sua moglie, Madeleine. L’apparizione di lei avviene invece in campo lungo, in un enorme salone che è uno dei due ambienti principali in cui si svolgerà tutto il film (l’altro è l’ambiente immediatamente esterno al maniero). Madeleine ha lo sguardo febbricitante e supplichevole di una vittima sacrificale, eppure silenziosa si presta alla inarrestabile compulsione del marito.

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Si può dire che Epstein trovi in Roderick Usher il veicolo perfetto per mettere in campo a 360 gradi quella concezione della fotogenia come essenza o specificità del cinema che, già da anni andava elaborando a livello teorico e pratico, ad esempio nei precedenti L’Auberge rouge (L’albergo rosso, 1923) o La Glace à trois faces (t.l.: Lo specchio a tre facce, 1927). La fotogenia, teorizzata per primo da Louis Delluc e rilanciata poi da Epstein, si esprime, secondo Epstein, attraverso l’arte cinematografica essenzialmente in due modi: cogliendo la motilità di tutte le cose e le quattro dimensioni (spazio e tempo) in cui si muovono. Senza fotogenia, egli ne è convinto, il cinema non esiste. E mai come in questo film questa specificità del cinema viene inseguita in ogni fotogramma, nei volti dei personaggi (anche quelli secondari, come nella scena iniziale alla taverna), nella pozza che, solcata dalle ruote della carrozza, fa scintillare e vibrare piccole creste d’acqua, e poi nell’acqua del lago presso il maniero, nel fumo delle candele poste sugli alti candelabri, nel vento che tormenta le tende di un lungo corridoio vuoto mentre la porta in fondo si socchiude e si riapre. Tutto si muove, continuamente, e tutto è vivo, intensamente vivo.

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I ralenti utilizzati da Epstein, ma anche le sovrimpressioni (come quella delle candele all’interno della casa e del corteo funebre che procede all’esterno), viaggiano nella stessa direzione e compiono la stessa ricerca di cui davamo cenno prima, nello specifico sul piano della quarta dimensione, il tempo. Le immagini rallentate possiedono un che di misterioso e primigenio ed Epstein ne era molto affascinato. Il loro valore in questo film, dunque, non è soltanto quello di ammantare di un letargico mistero la decadente dimora e i suoi abitanti e di restituire con ciò l’atmosfera delle pagine di Poe, ma anche e soprattutto di esplorare e penetrare la dimensione temporale fino a strapparla alla sua valenza puramente cronologica per raggiungere quella “durata” teorizzata da Bergson, in cui il tempo viene a coincidere con la coscienza soggettiva: un tempo che diviene inesteso, non più misurabile né divisibile. In questo senso, da un certo momento in poi, tutte le immagini che vediamo sono un tutt’uno con la coscienza di Roderick Usher (straordinariamente intensa l’interpretazione di Jean Debucourt). Non importa cosa egli stia guardando in quel preciso momento, se gli arredi del palazzo, le armature, le tende, le candele, il feretro da cui cade il velo bianco di Madeleine, il lago, gli alberi smorti o il ritratto stesso: quelle immagini sono comunque e sempre delle soggettive. E, al tempo stesso, questi oggetti vivono di vita propria, vivificati forse dallo stato sensorialmente alterato di Usher, o come sollecitati dalla sua mente che si espande sino a comprenderli e a farne sue estensioni. Roderick suona la chitarra e la visione si sposta fuori, sugli alberi nudi e spettrali, il lago, l’acqua… Viene meno la suddivisione tra interno ed esterno della casa, proprio come fra interiorità del personaggio e ambiente circostante.

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E che cos’è la febbrile ricerca di Usher se non la ricerca, appunto, dell’essenza vitale di tutte le cose? Nel racconto di Poe, egli ci è descritto come un uomo che vive perennemente in uno stato di «acuta tensione nervosa», e più avanti scrive: «egli soffriva di una morbosa ipersensibilità» («He suffered much from a morbid acuteness of the senses»). Consideriamo ora il modo in cui l’Usher di Epstein sembri connesso sensorialmente a ciò che lo circonda, a tutto ciò che accade, o che è accaduto nel passato, come un medium. Egli, continuamente, sente ed è tormentato ma anche vivificato da questo sentire. L’intensità lo tormenta e, al tempo stesso, lo tiene in vita. E il ritratto che dipinge è il tentativo di catturare la vita stessa. Epstein evita di mostrarcelo, come fosse un mistero, un oggetto sacro.

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Lo vediamo per lo più attraverso gli occhi allucinati di Usher che, mentre dipinge, è ripreso frontalmente in primo piano. E quando, di tanto in tanto il quadro ci viene rivelato, quello che vediamo non è un dipinto, ma è la stessa Madeleine, dentro a una cornice, come al di là di uno specchio. Viva, in carne e ossa, i suoi occhi si chiudono e si riaprono. Ma l’altra Madeleine, la donna che fa da modello, nel frattempo, sta morendo. La sua vita è risucchiata via e a un certo punto Epstein ci mostra questo evento ricorrendo alla sovrimpressione della testa di Madeleine in diverse posizioni, come se si scuotesse da una parte all’altra, perdendo pezzi di sé, pezzi di vita (o di anima). Con l’atto del dipingere, Roderick Usher sembra compiere un rituale magico e trasfigurante (ma non è forse questa l’arte, nella sua essenza?). Mentre ne Il ritratto di Dorian Gray (1890), di Oscar Wilde era Dorian ad eternarsi, assorbendo in qualche modo una proprietà dell’opera d’arte – quella appunto di essere eterna – qui è l’opera d’arte a vampirizzare il suo modello umano per divenire cosa viva. In questo, Usher somiglia a quei vecchi alchimisti che cercavano di ottenere l’oro mediante la trasmutazione di altri elementi.

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Certamente, a un livello più letterale, La Chute de la maison Usher si può definire anche un film dell’orrore e del mistero. L’immagine-refrain delle tende scosse dal vento, ad esempio, è un’immagine non solo inquietante, ma anche perturbante, rimanda all’inconscio, a paure o tensioni ancestrali. Potremmo vederci una correlazione con certe ossessioni di David Lynch, e in particolare la misteriosa e liminare Red Room di Twin Peaks (I segreti di Twin Peaks, 1990-91), con le lunghe tende rosse al posto delle pareti. Mentre dei piani sequenza “in trance” per il salone e i corridoi del maniero, potremmo ritrovare degli echi nei piani sequenza kubrickiani di The Shining (Shining, 1980) per i corridoi e le stanze dell’hotel che, a sua volta sembra acquisire vita propria e spiare i suoi occupanti.

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Ma al film di Epstein deve molto anche il cinema underground dei decenni immediatamente successivi, quello di Kenneth Anger, di Maya Deren, di Stan Brakhage e di tutti quei cineasti che hanno voluto far propria, a modo loro, s’intende, l’indagine sull’essenza dell’arte cinematografica come mezzo in primo luogo espressivo, al di fuori del cinema narrativo comunemente inteso, per nulla o quasi interessato alla fotogenia e ormai cristallizzatosi in una forma dominante, quella dell’industria-cinema. Ne troviamo echi persino nel Tarkovskij di Zerkalo (Lo specchio, 1974), in cui la casa-memoria si sgretola a rallentatore. E, naturalmente, gli fu debitore anche Luis Buñuel, che a questo film collaborò come aiuto regista e co-sceneggiatore e che, appena un anno dopo, avrebbe diretto il suo primo, celeberrimo film, Le Chien andalou (1929).

Epstein, fervente ammiratore di Abel Gance, utilizzò sua moglie per il ruolo di Madeleine. Fu la seconda e ultima apparizione di Marguerite Gance, che l’anno precedente aveva interpretato Charlotte Corday in Napoléon (1927).

Vittorio Renzi (14 dicembre 2015)

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La Chute de la maison Usher
(La caduta della casa Usher)

[The Fall of the House of Usher]

Francia, 1928

regia: Jean Epstein

soggetto: racconti di Edgar Allan Poe

sceneggiatura: Jean Epstein, Luis Buñuel

fotografia: Georges Lucas e Jean Lucas

scenografia: Pierre Kefler

costumi: Fernand Oglise

produzione: Jean Epstein, per Films Jean Epstein

cast: Jean Debuncourt (Roderick Usher), Marguerite Gance (Madeleine Usher), Charles Lamy (Allan), Fournez-Goffard (il dottore), Luc Dartagnan, Abel Gance, Pierre Hot, Pierre Kefer (clienti dell’osteria)

lunghezza: 1271 metri

durata:  63′

data di uscita: 5 ottobre 1928

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