Josef von Sternberg
* Articolo estrapolato e rimaneggiato a partire dallo speciale su Sternberg pubblicato su Lo Specchio scuro [1]
Con The Docks of New York (I dannati dell’oceano, 1928) Sternberg si ritrova alle prese con un dramma romantico in un’ambientazione portuale che richiama quella di The Salvation Hunters (Sternberg, 1925). Un nuovo successo di critica, ma anche un nuovo tiepido riscontro al botteghino. Il motivo di questo risultato va ascritto in particolar modo all’avvento del sonoro The Jazz Singer (Il cantante di jazz, Alan Crosland, 1927) uscì nella stessa settimana: dall’oggi al domani, i film muti furono considerati superati e di nessun interesse, non solo da parte del pubblico, ma anche degli Studios. Difatti, molte pellicole andarono perdute. Tra queste, purtroppo, The Case of Lena Smith (Lena Smith o Romanzo d’amore, 1929). Si trattava di un melodramma ambientato al volgere del secolo nella sua Vienna (seppur ricostruita nei set della Paramount), un’opera nella quale Sternberg aveva infuso molti dei suoi ricordi di gioventù. Nel 2003 in Cina fu ritrovato un frammento della durata di quattro minuti, subito presentato XXII edizione delle Giornate del Cinema Muto.
All’incrocio fra Kammerspiel e melodramma, fra un naturalismo sordido e la sua sublimazione estetica, ci imbattiamo nell’ultimo dei film muti attualmente visibili di Sternberg. Contrariamente a The Last Command (Crepuscolo di gloria, 1928), che lo precede, qui abbiamo una struttura semplificata: pochi personaggi e una narrazione concentrata in pochi spazi e in un breve arco di tempo. Gli intertitoli sono più numerosi rispetto a quelli di Salvation Hunters, ma non fiaccano il ritmo del film e non lo appesantiscono. The Docks of New York, un titolo spoglio, una semplice indicazione di luogo, un aspetto anche questo comune ai kammerspielfilm tedeschi (fra l’altro Sternberg fu un fervente ammiratore, nonché amico, del grande regista teatrale Max Reinhardt[2]). Nonostante alcune affinità con il suo film d’esordio o gli evidenti debiti del soggetto con Anna Christie (il dramma di Eugene O’Neill del 1921, trasposto sullo schermo nel 1923 da John Griffith Wray, su produzione di Thomas H. Ince), ovvero l’ambientazione portuale, l’amore quasi violento tra un marinaio brutale e una ragazza compromessa dal suo passato, The Docks of New York è un film che non somiglia a nessun altro.
Se la trama appare esile e pretestuosa, fra tutti i film muti di Sternberg questo (insieme al perduto The Case of Lena Smith, 1929], con ogni probabilità) è il suo film più caldo e umano, in cui ci si sente vicini ai personaggi. Parte del merito è della regia di Sternberg: oltre alla solita prodigiosa fotografia di volti e ambienti, qui è anche la macchina da presa con i suoi movimenti a farsi carico del film, a farsi personaggio tra i personaggi. Già in passato Sternberg ha usato la mdp per conferire senso e spessore alle immagini, ma mai in una maniera così evidente. Si tratta di movimenti lenti, densi, sensuali, organici ai corpi, agli ambienti, come un liquido amniotico che li avvolge e li sposta, li sospinge o li trattiene. Movimenti che, uniti all’uso di dissolvenze incrociate particolarmente lunghe (portate alla perfezione artistica, negli anni precedenti fra gli altri, da Victor Sjöström) costituiscono la cifra stilistica più riconoscibile di questo film che vive di istanti:
L’enfasi è sul movimento stesso, piuttosto che sulla sua destinazione, o piuttosto sulla passione carnale espressa dalla lenta irrequietezza del movimento. Il linguaggio dei movimenti di macchina di Sternberg qui non è il linguaggio dei sogni, ma quello dell’immediatezza. Adesso. Adesso. Adesso.[3]
Il film è in movimento sin dalla sequenza d’apertura in cui la macchina da presa è posizionata presumibilmente su una nave che entra nel porto di New York e passa sotto il ponte di Brooklyn. La sequenza è intervallata da brevi didascalie che ci introducono all’ambiente portuale della città. Nella sala macchine dove lavora come fuochista Bill Roberts (George Bancroft), l’ambiente è fumoso, buio, stretto, e la macchina da presa è pressoché fissa, il che costituisce un ulteriore elemento claustrofobico. L’uomo sembra a suo agio, sporco e sudato com’è, ma sempre con quel ghigno sicuro e soddisfatto di sé, come lo era il gangster “Bull” Weed in Underworld (Le notti di Chicago, Sternberg, 1927). Bill è una creatura del fuoco, un discendente del dio Vulcano che lavora in un’oscurità rischiarata da un balenio di scintille, una sorta di caverna primigenia in cui le fiamme brillano e si riverberano sui volti, contro uno sfondo grigio-nero, denso di fumi di carbone.
Ma non appena si entra nel Sandbar, un localaccio dei bassifondi, ecco che parte un movimento di macchina in avanti che attraversa la sala facendosi spazio tra gli avventori fino a fermarsi nei presso di un timone, elemento decorativo caratteristico del locale assieme alle reti da pesca (componenti scenografiche, queste ultime, che diventeranno sempre più ricorrenti in Sternberg). La mdp inizia a virare a destra ma una dissolvenza incrociata ci riporta all’entrata, proprio mentre fa il suo ingresso il capo di Bill, Andy Bec-Salé, il Terzo Ingegnere: dunque la sequenza precedente è una soggettiva anonima, un movimento autonomo della mdp che forse “mima” lo sguardo di un avventore invisibile. Di nuovo una carrellata laterale verso sinistra taglia in due il locale, in corrispondenza della rapida occhiata che Andy dà in giro mentre sta chiedendo qualcosa col proprietario. In risposta, lui gli indica una donna sola seduta a un tavolo. Ma poi lo sguardo di Andy incrocia quello di Lou (Olga Baclanova), sua moglie, che a sua volta se la sta spassando con un altro uomo. A questo punto la mdp compie un movimento inverso rispetto a quello iniziale, indietreggiando verso l’entrata, lasciandoci giusto il tempo di vedere il principio di una rissa subito sedata in malo modo dal padrone del Sandbar.
Un altro movimento in avanti, stavolta verso la chiatta, ci mostra i marinai che scendono a terra, fra cui Bill. Ora una nebbia notturna ha sostituito il fumo della sala macchine. Ma in qualsiasi ambiente del film ci troviamo, il fumo, la nebbia o i fumi dell’alcool sembrano rendere difficile respirare o pensare lucidamente. I personaggi appaiono tutti in preda a una sorta di delirio, incapaci di controllarsi. Se Bill è una creatura del fuoco, Mae (Betty Compson) è invece una creatura dell’acqua: compare per la prima volta tramite il suo riflesso nelle acque del porto in cui ha deciso di annegarsi. È Bill a ripescarla e a portarla in salvo sul molo, dove altri si affollano per soccorrerla, mentre lui rimane in disparte. Poi ci ripensa, scansa tutti, prende in braccio la ragazza e la porta in casa del proprietario del Sandbar, che si trova al primo piano dello stesso edificio, e la adagia su un letto. E mentre la moglie dell’uomo protesta, Bill senza ascoltarla fissa il suo sguardo su Mae.
Il suo sguardo è attratto prima dalle sue gambe nude, mentre viene spogliata per esser asciugata. Quando il proprietario tenta di buttarlo fuori, il fuochista lo prende a calci nel sedere. Bancroft, nei panni del duro e rissaiolo, è più che credibile, non solo per la stazza, ma anche per quei due occhi di ghiaccio che ricordano quelli di Charles Bronson. Per tutto il film, Bill non fa che farsi largo tra altri uomini, distribuendo spintoni, calci, pugni (anche al suo stesso capo), sempre esibendo quel suo ghigno sornione: non comincia mai per primo una rissa, ma è sempre lui a finirla. Quando ha voglia di birra, non si accontenta di un boccale: tira su un’intera botte e se la rovescia addosso, per poi scagliarla, vuota, contro il primo che si azzarda a protestare. E se vuole sedersi a un tavolo, ne sceglie uno occupato cacciando via gli occupanti. Più tardi, dopo che Mae sarà scesa giù al bar, Bill la strappa via dalle mani di un marinaio molesto per portarla al suo tavolo e mostrarle i suoi numerosi tatuaggi corredati da nomi esotici di donna.
Sternberg osserva questa dismisura di mascolinità con la sottile ironia dell’europeo che non cede al fascino della forza bruta, ma anzi bonariamente la irride. Bill infatti non è un eroe venuto a salvare una fanciulla e a riparare i torti. Ma non è neppure un villain. Ha, invece, dei momenti di tenerezza e di umanità che non sono in linea con le sue brame immediate. Se è vero infatti che di lì a poco, dopo aver sedotto Mae, organizza un finto matrimonio in quella bettola con l’unico proposito di portarsela a letto, è altrettanto vero che ora, dopo averla salvata, va a prenderle un hot toddy (un drink a base di whisky, acqua calda e miele) per riscaldarla, e arriva a sfondare la porta di un negozio di vestiti nei pressi al solo scopo di portarle degli abiti asciutti. Mae intanto si è ripresa e, seduta sul letto, fuma e osserva, studiandolo, il suo salvatore. Gli è grata, ma ha anche l’aria cinica e sulla difensiva della donna abituata a trattare con gli uomini.
Mae è una prostituta, ma non c’è alcun pietismo da parte del regista nel ritrarre la sua condizione. Come per la Ragazza di Salvation Hunters, anche del passato di Mae non sappiamo nulla, né ci sarà nessuna confessione catartica alla Anna Christie: il passato a Sternberg non interessa se non come sembianza iscritta sul volto dei personaggi:
La donna ‘perduta’ non ispira a Sternberg né il lirismo intenerito di un Borzage per le sue Marie Maddalene, né l’empatia istintiva di un Walsh per le sue pariah e pezzenti. Per lui lo scambio carnale è privo di qualsiasi dimensione spirituale, eccetto quella romantica. È essenzialmente un rapporto di forze. Un urto tra desideri disarmonici. (…) Ogni alcova diventa un campo di battaglia dove amore e odio si confondono. Persino nel piacere vi è qualcosa di disperato.[4]
Mae è sul letto che fuma. La sua bellezza è messa in risalto dalla luce che illumina la sottoveste bianca e i suoi capelli biondi. Il resto della stanza, dalle pareti scrostate al mobilio fatiscente, è immerso in una tonalità grigiastra e asfittica. Anche Andy, il capo di Bill, è colpito dalla bellezza di Mae, e la guarda con insistenza persino in presenza di sua moglie. Più tardi, dopo il dialogo fra Mae e Bill, nel momento in cui lui sta per uscire dalla stanza, Sternberg elabora un altro di quei primi piani quasi stordenti nella loro fotogenia: il volto di Mae, i suoi capelli biondi, la sottoveste, la pelle, le volute metalliche della testiera del letto a forma di cuore che incorniciano/incoronano la sua testa, tutto risplende di una luce calda. Un bianco/nero che diventa bianco/grigio-perla, quasi bianco su bianco. Bill è appena riuscito a strapparle la promessa di dargli una chance. È dunque la possibilità improvvisa e imprevista dell’amore a illuminarla in quel modo, a renderla ancora più bella. Le consente di uscire per un attimo da quella patina di cinismo che la vita le ha appiccicato addosso, incolore come quelle mura, quei mobili, quell’aria di fumo (di carbone, di sigarette, di vite bruciate) o di nebbia che si respira ovunque.
La scena che precede il finto matrimonio è il culmine dell’atmosfera da baccanale che si respira nel film, con il moto perpetuo della macchina da presa che continua a registrare facce e gesti della folla di avventori sempre più ubriachi. La “cerimonia” – dinnanzi a un barile di birra al posto dell’altare e con una pianola meccanica che suona allegramente, in luogo di una solenne musica d’organo – si appresta ad essere celebrata da un pastore dei bassifondi, dall’atteggiamento e dal cipiglio comicamente austero, dato il contesto. Nella confusione, una donnaccia si erge su quel pulpito improvvisato e, dandosi un tono, si rivolge ai due futuri sposi e agli astanti con un linguaggio sboccato che provoca ulteriori scoppi di risa.
Una parodia aspra e dissacrante della più borghese delle cerimonie, eppure c’è una nota tragica in tutto questo: il pastore che si guarda intorno senza dire una parola, mentre tutti bevono e ridono, ci rende ancora più consapevoli del degrado generale in cui ci si fa beffe non solo della funzione di quest’uomo, un diseredato tra i diseredati, ma anche delle rinate speranze di una donna che fino a un attimo prima era talmente disillusa da volersi uccidere. Nel momento in cui il pastore chiede alla coppia dove sia la loro licenza di matrimonio, Lou scoppia a ridere. Ma la sua è una risata amara, è del suo stesso squallido matrimonio che Lou ride. Ed è lei, poi, a cedere a Mae la sua fede nuziale per celebrare le nozze.
Infine, il matrimonio viene celebrato, e la solennità e la dignità del pastore ammutoliscono tutti. Improvvisamente, da quello scherzo che era, diventa una cosa seria. Ci credono tutti. Forse per un momento ci crede lo stesso Bill che, mentre ascolta le parole del prete, butta via la sigaretta che stava fumando. Ci crede Lou, che guarda Mae con un’improvvisa, trattenuta tenerezza. Sono tutti emozionati, perfino commossi, e acclamano i due sposi con partecipazione sincera. Consideriamo il modo in cui Sternberg ha ritratto Mae durante tutta questa lunga sequenza: niente mani giunte al petto o occhi inumiditi, niente palpiti o sospiri. La donna non lascia quasi trasparire le sue emozioni che restano indecifrabili, sospese fra sospetto e incredulità, paura e voglia di credere e, infine, una felicità contenuta, vaga, timida. E la profonda commozione che ottiene in risposta dallo spettatore è tutta giocata su questa implicitazione dei sentimenti. Non c’è dubbio che, fra le attrici usate finora da Sternberg, Betty Compson, che era già una veterana dello schermo, sia quella che più somiglia a Marlene Dietrich, al tempo stesso carnale e malinconica, del tutto priva di sentimentalismi.
Quanto a Olga Baclanova, questa bravissima attrice russa (che sarà poi la perfida Cleopatra in Freaks, 1932, di Tod Browning), dà vita a un personaggio che serve a mettere in luce, per contrasto e simmetricamente, quello di Mae: numerose sono le inquadrature che le ritraggono insieme, spesso rivolte in direzione opposta, come fossero una il riflesso dell’altra. Se il cinismo di Mae è solo uno strato sotto al quale si avverte la sua sofferenza e la voglia ancora di amare e di essere amata, quello di Lou coincide ormai quasi interamente con il suo essere. Se Mae all’inizio del film vuole morire (non sappiamo di preciso il motivo), alla fine del film Lou preferisce uccidere, piuttosto che essere ancora umiliata da un marito che non la ama e forse non l’ha mai amata. In Mae Lou rivede sé stessa e le sue perdute speranze, come testimoniano le occhiate pensose che le lancia più di una volta.
La magnifica sequenza del matrimonio culmina e si conclude con il bacio in bocca che Lou dà a Mae. È un bacio molto diverso da quello sensuale e provocatorio che Marlene elargirà a una spettatrice durante un suo show in Morocco (Marocco, 1930, Sternberg). Quello di Lou è il bacio disperato di una donna che vede sé stessa riflessa in un’altra, una compagna di sventure che però forse, a differenza di lei, ha ancora una chance con l’amore. È una chiusura inattesa, un’esplosione emotiva che toglie il fiato proprio per la sua totale assenza di sentimentalismo: «Il sentimentalismo hollywoodiano non ha diritto di cittadinanza nei bassifondi. (…) Ironista impenitente, Sternberg trae un piacere maligno nel cercare l’amour fou là dove esso è degradato. Tra Shanghai e Gomorra»[5].
I due sposi escono sul pontile: fuori è notte fonda, c’è ancora nebbia e la luce di un lume si riflette nell’acqua. Lui si toglie la giacca e il berretto per coprire Mae. E’ un momento molto romantico perché questo omaccione in realtà è sincero nei suoi sentimenti verso Mae, e fin dall’inizio, solo che non lo sa ancora. Più che al matrimonio, è a questi gesti verso di lei che Mae crede (“Non sai cosa significhi questo per me, Bill. Sarò una brava moglie, Bill”). E poi arriva il mattino e tutto cambia, non ci sarà nessuna licenza matrimoniale e Bill partirà con la prima nave: «la Notte è il regno del desiderio, dell’illusione, della finzione. Il Giorno è il tempo del risveglio, della delusione, della resa dei conti, del dovere»[6].
Cambia anche il ritmo del film, che passa dalle scene di folla a una successione di confronti a due dei personaggi principali. Bill si alza mentre Mae ancora dorme: si riveste e le lascia dei soldi sul comodino, come si fa con una prostituta. Dei gabbiani si radunano sul cornicione della finestra. Al piano di sotto, Bill si siede a un tavolo con Andy, il quale, arrabbiato per il pugno ricevuto da lui (ma anche geloso) lo licenzia; poco dopo sale nella stanza di Mae per insidiarla. Lei lo respinge, allora l’uomo le rivela le vere intenzioni di Bill. Lou, che ha osservato tutta la scena, entra lentamente nella stanza e chiude la porta. Stacco. I gabbiani volano via all’improvviso mentre, al suo tavolo, Bill alza lo sguardo verso il soffitto: da queste due brevi inquadrature capiamo che c’è stato uno sparo. Ora una carrellata segue Bill mentre esce dal bar e fa per andarsene via, mentre intorno la gente corre in tutte le direzioni.
Una ripresa in plongée dall’alto registra l’arrivo della macchina della polizia. Vedendo uscire sul parapetto Mae con i poliziotti, Bill si arrampica su una corda, si fa largo tra i curiosi e prende le difese della donna, presentandosi come suo marito. A quel punto Lou si costituisce e prima di salire sulla camionetta, guarda Mae e le dice: «Ti auguro di avere più fortuna di me… ma ne dubito». Infatti, Bill è deciso a ripartire. La donna lo attira a sé giusto il momento di ricucirgli un taschino della camicia che si è strappato. Ha capito ormai che tentare di trattenerlo è inutile. Ma è proprio nel momento in cui compie quel gesto da moglie premurosa che Mae cede al suo dolore. Nella soggettiva che segue, giustamente famosa, non solo il filo non riesce a entrare nella cruna dell’ago, ma l’immagine stessa è appannata, perché lo sguardo della donna è velato di lacrime. Ma al dolore sopraggiungono poi l’orgoglio e la rabbia: ora è lei a cacciarlo via. Infine, Bill se ne va. Mae, sul pontile, guarda l’acqua che per un attimo si sovrappone alla sua immagine: torna il pensiero del suicidio e la donna si volta bruscamente per scacciarlo.
Più tardi, Bill è di nuovo sulla sua nave, nuovamente alle prese con quel lavoro infernale. Durerà poco. Bill si tuffa in mare e nuota per tornare da Mae. Il fuoco e l’acqua s’incontrano di nuovo ed è come una rinascita, un’epifania. Il finale rischia di essere la parte più debole del film, con quell’ultimo ridicolo ostacolo da superare (Mae viene arrestata per via del furto dei vestiti e Bill che si prende la colpa e va in prigione, ma la donna lo aspetterà). Tuttavia, Sternberg lo gestisce con tocchi ironici da commedia (lo scambio tra Bill e il giudice è spassoso), tocchi che in realtà hanno attraversato il film (ma, diremmo, tutti i suoi film) sin dall’inizio, perfettamente integrati in quella stessa modulazione tonale dolceamara evocata dalle infinite variazioni dell’illuminazione, dai movimenti di macchina, dalle dissolvenze.
Concludo con le entusiastiche parole, che faccio mie, di Brownlow (ma potrei usare quelle di Everson o Buttafava, ugualmente entusiasti del film):
E’ il più grande film che Sternberg abbia mai realizzato. Vi ha conseguito un tale sentimento di calore e umanità, sembra tenere ai suoi personaggi, anziché usarli unicamente per dar forma a composizioni di luce e ombra come in alcuni dei suoi film sonori. Docks of New York sembra nascere da una collaborazione di gruppo fra i migliori registi, scenografi e operatori alla macchina europei e americani.[7]
Vittorio Renzi
The Docks of New York (I dannati dell’oceano)
Usa, 1928
regia: Josef von Sternberg
soggetto: racconto The Dock Walloper di John Monk Saunders
sceneggiatura: Jules Furthman; Julian Johnson (didascalie)
fotografia: Harold Rosson
montaggio: Helen Lewis
scenografia: Hans Dreier
costumi: Travis Banton
produzione: Josef von Sternberg, per Paramount Famous Lasky
distribuzione: Paramount
cast: George Bancroft (Bill Roberts), Betty Compson (Mae), Mitchell Lewis (Andy, il terzo ingegnere), Olga Baclanova (Lou), Clyde Cook (Sugar Steve), Gustav von Seyffertitz (‘Hymn-Book’ Harry); Lillian Worth (ragazza di Steve), Guy Oliver, May Foster
lunghezza: 8 rulli, 7202 piedi
durata: 76′
première: New York, 16 settembre 1928
data di uscita: 29 settembre 1928
[1] Vittorio Renzi, Prima di Marlene e del sonoro: Sternberg e il sistema-Hollywood, Lo Specchio scuro, 22 dic 2019.
[2] Josef von Sternberg, Fun in a Chinese Laundry, London, Secker & Warburg, 1966, pp. 46-48.
[3] Andrew Sarris, The Films of Josef von Sternberg, New York, The Museum of Modern Art, 1966, p. 21.
[4] Michael Henri, Josef von Sternberg, entre Shanghai et Gomorre, in “Positif”, 584, ott. 2009, p. 89.
[5] Ibidem.
[6] Giovanni Buttafava, Josef Von Sternberg, Firenze, La Nuova Italia – Il Castoro, 1976, p. 52.
[7] Kevin Brownlow, The Parade’s Gone by…, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1968, p. 199.