The Last Command (Crepuscolo di gloria, 1928)

Josef von Sternberg

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SINOSSI: A Hollywood, Leo Andreyev, regista russo immigrato, sfoglia una pila di foto di comparse ed è sorpreso di trovarvi un volto conosciuto. Si tratta di un suo connazionale: una triste figura che vive in un appartamento malandato e soffre di un tremore che gli fa scuotere costantemente la testa. Il regista vuole renderlo parte del suo film e lo fa chiamare. Russia, dieci anni prima. Al cospetto del granduca Sergius Alexander, generale delle truppe dello zar, di cui è anche il cugino, vengono condotti il direttore del Teatro imperiale di Kiev,  Leo Andreyev, e l’attrice Natalie Dabrova, sua assistente, sospettati di essere due bolscevichi. Quando Leo diventa insolente, Sergio lo frusta sul viso e lo fa incarcerare; tuttavia in seguito Leo riuscirà ad evadere. Colpito dalla bellezza di Natalie, decide di portarla nel suo palazzo come sua ospite e la corteggia con regali costosi. La donna aspetta il momento giusto per ucciderlo, ma si rende poi conto che Sergius è un uomo d’onore che ama la Russia tanto quanto lei. Quando i bolscevichi prendono possesso del treno su cui viaggiano, per salvarlo dal linciaggio, Natalie assume il controllo della folla fingendo di odiarlo e poi lo fa fuggire “distraendo” uno dei rivoluzionari. Poco dopo il treno precipita da un ponte.  Siamo di nuovo a Hollywood e Sergius è ora sul set. Vecchio e malandato, ma di nuovo nei panni di un generale russo in una scena di battaglia. Quando uno dei suoi “soldati”, un attore, tenta di incitare il reggimento alla ritirata, Sergius lo colpisce al viso e poi si lancia in un fervente discorso patriottico che coinvolge non solo gli attori ma anche la troupe e lo stesso regista. Al culmine dell’emozione, Sergius crolla a terra e muore tra le braccia di Leo, suo antico avversario, che ne riconosce la grandezza.

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* Articolo estrapolato e rimaneggiato a partire dallo speciale su Sternberg pubblicato su Lo Specchio scuro[1]

Verso la fine degli anni Venti, tutto ciò che veniva dalla Russia era di gran moda e a Hollywood si davano in pasto alla celluloide numerose trasposizioni dai grandi romanzi russi. Una decina d’anni prima era iniziato il grande esodo dei russi “bianchi” in Europa e in America in seguito alla Rivoluzione e a Los Angeles si erano oramai create intere colonie. Molti di questi immigrati o esuli si erano integrati nella società americana e nell’industria del cinema. Fra loro, le attrici Alla Nazimova (giunta in America durante una precedente ondata migratoria) e Ol’ga Baklanova che, dopo una lunga tournée con la compagnia sovietica del Teatro d’Arte di Mosca, nel 1926 giunse negli Stati Uniti e decise di rimanervi: due anni dopo sarà sul set di The Docks of New York (I dannati dell’oceano, 1928), per ricoprirvi uno dei ruoli principali. Naturalmente non tutti furono così fortunati. Come il personaggio impersonato da Jannings in The Last Command (Crepuscolo di gloria, 1928), Sergius Alexander, una delle migliaia di comparse che ogni giorno affollano i cancelli degli Studios in cerca di lavoro. Siamo nel 1928 e, un anno prima del crack finanziario e della Depressione che ne consegue, ci vengono mostrate delle lunghissime code di poveracci, maltrattati e guardati con disprezzo, in cerca di una comparsata per una manciata di dollari, equivalenti delle miserevoli “bread line” (le file per il pane). E tutto questo nel cuore della ricchissima Hollywood.

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Fino a quel momento, gli occasionali film auto-riflessivi sul pianeta-Hollywood non si erano ancora tradotti in atti di accusa, come avverrà invece, in modo particolare, dagli anni Cinquanta in poi. Per lo più erano concepiti bonariamente in chiave di commedia, come Hollywood (James Cruze, 1923) o, di lì a poco, Show People (Maschere di celluloide, King Vidor, 1928). Hollywood stava vivendo il suo momento di massimo fulgore, lo splendore dorato di un mondo fuori dal mondo, che, nonostante i numerosi scandali e le ricadute sul sistema della censura, non era ancora pronto per guardarsi allo specchio. Lo stesso Sternberg partecipò a uno di questi film, quando era ancora a Fort Lee, in New Jersey: A Girl’s Folly (1917, Maurice Tourneur), comparendo nelle vesti di un cameraman.

75576612_2428257180725804_4075741024066994176_nSternberg nei panni di un cameraman in A Girl’s Folly (1917)

In un film “doppio” come The Last Command, l’ambientazione negli studi hollywoodiani costituisce la cornice in cui è racchiuso il “film russo” del lunghissimo flashback (che occupa tre quarti dell’intero film): ovvero, da una parte il realismo, con tocchi satirici, che ritrae l’ambiente hollywoodiano e il triste e misero mondo delle comparse e, dall’altra, il kolossal-mélo dalle grandi ambizioni. Sono già diversi anni che Sternberg lavora per una Major, ingabbiato in un sistema che sente non appartenergli. La sua visione del resto è la medesima dell’altro grande viennese di Hollywood, Stroheim: come per uno scrittore, un pittore o musicista, un regista dovrebbe avere il controllo totale sulla sua opera. Così se The Last Command rappresenta in primo luogo l’occasione di girare un film importante e artistico, “all’europea”, al tempo stesso egli può togliersi la soddisfazione di inocularvi una critica non proprio bonaria a Hollywood, che nella didascalia introduttiva è definita, non senza sarcasmo, «il magico impero del XX secolo! La Mecca del mondo!».

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La questione del soggetto è controversa: tutti concordano sul fatto che lo spunto provenga da un episodio raccontato da Lubitsch (pare allo stesso Jannings) su un ex comandante zarista ritrovatosi a Hollywood come comparsa e consulente sul set di un film con John Gilbert. Da qui in poi le versioni divergono: Sternberg afferma che fu lui a ideare il soggetto, poi accreditato a Lajos Biro per ragioni contrattuali[2]; Baxter sostiene invece, dopo aver consultato i documenti in questione, che il trattamento fu opera di Biro, mentre a scrivere sceneggiatura fu John S. Goodrich, come da credits[3]. Tuttavia, le modifiche che il cineasta apportò allo script sono tali che è come se lo avesse praticamente riscritto di sua mano, come aveva già fatto con Underworld (Le notti di Chicago, 1927).

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Nelle prime immagini in cui compare, Jannings sembra riprendere il personaggio che più di ogni altro lo aveva reso famoso in America: quello del portiere d’albergo di Der Letzte Mann (L’ultima risata, F.W. Murnau, 1924). L’aspetto invecchiato, l’aria dimessa e spaurita dopo la sua caduta in disgrazia, cui si aggiunge, qui, il tic nervoso dello scotimento della testa, in seguito a un trauma subìto che sarà rivelato solo verso la fine del film. Ad accomunare i due ruoli, c’è anche l’importanza centrale assunta dalla divisa: quella da generale in The Last Command (cui si aggiunge anche il cappotto), quella da portiere nel film di Murnau. In entrambi i casi, lo status e il destino dei due personaggi sono legati a filo doppio a ciò che un tempo indossavano con fierezza e cui oggi si aggrappano come per impedire alla loro personalità di sgretolarsi.

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Nel rappresentare la storia di questo vecchio ex generale russo alle prese con il mondo del precariato dei figuranti, Sternberg mostra, sin da subito come, in questa condizione di degrado sociale, gli esseri umani siano tutto fuorché solidali fra loro (così come non sembra esserci vera solidarietà neanche fra i rivoluzionari russi). Una carrellata laterale a tappe, chirurgica e impietosa, ce li mostra mentre si affollano e sgomitano e si spintonano durante la distribuzione dei costumi: Sergius Alexander si trova fra loro e lentamente si fa strada da uno sportello all’altro dove, di volta in volta, un impiegato diverso distribuisce un capo d’abbigliamento. La macchina da presa scorre all’interno dei vari uffici, alle spalle degli impiegati, i quali, annoiati e abbrutiti a loro volta, svolgono il loro monotono compito mentre, oltre le varie finestrelle, si accalca la folla scomposta e vociante dei figuranti.

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Se è soprattutto nella seconda parte della “cornice” che Sternberg si delizia nel mettere in scena un tipico set hollywoodiano con la sua gerarchia, i suoi servilismi, le sue meschinità (la scena ironica e amara dello scambio tra Sergius e l’arrogante aiuto regista, che pretende di sapere meglio di lui, un ex generale, come vada apposta la medaglia sulla divisa di scena), già nella scena iniziale ce ne dà un rapido assaggio: Lev Andreyev (William Powell), regista, nonché ex rivoluzionario bolscevico rifugiatosi in America, è seduto, circondato da un nugolo di assistenti in piedi dietro di lui, e sta esaminando delle fotografie alla ricerca della faccia giusta per un ruolo. Non appena l’uomo prende una sigaretta, diverse mani si allungano con l’accendino già acceso verso la sua faccia. E’ un’immagine ironica che Sternberg replicherà in The Shanghai Gesture (I misteri di Shanghai, 1941) tredici anni dopo.

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Abbiamo parlato prima di “film doppio” perché tutto qui appare doppio o duplicato, secondo diverse accezioni e significati: due tempi (passato e presente), due luoghi (Russia e Hollywood), due diverse realtà (la vita e il set), di cui uno è la ricostruzione dell’altra; situazioni analoghe che si ripetono in diversi contesti (l’ispezione delle truppe da parte del generale Alexander e poi l’ispezione delle comparse da parte del regista Andreyev: qui il doppio si fa anche rovescio, dato che i due personaggi si muovono in direzioni opposte fra loro); una doppia vita, infine, per tutti i principali personaggi: da generale a comparsa per Alexander, da rivoluzionaria a spia per Natalie, da rivoluzionario a regista per Andreyev.

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Un lunghissimo flashback, vero e proprio film nel film, ci riporta indietro nella Russia del 1917, nei giorni immediatamente antecedenti la Rivoluzione d’Ottobre. La sequenza che lo introduce è magistrale: dall’inquadratura di una donna seduta in terra, sulla neve, con in braccio un bambino, una carrellata all’indietro la allarga fino a mostrare una strada percorsa in lungo e in largo da soldati e civili che tagliano il piano da tutte le parti e in ogni direzione, fino a inghiottire e a far scomparire quella sorta di immagine sacra in versione popolare di una Maternità qualunque. Se pur rapida e all’apparenza innocua, è forse questa l’immagine più forte che sembra quasi mostrare un’adesione – subito dopo sconfessata – del cineasta verso le ragioni del popolo in procinto di sollevarsi. Poco dopo, con movimento opposto, un carrello a stringere passa dalla folla in movimento alla figura di un prete ortodosso che prega e sparge fumi d’incenso sui passanti. E finalmente si arriva a un Sergius ancora mediamente giovane e nel pieno delle sue forze.

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Sergius Alexander è il generale dell’armata dello zar e il futuro regista, Andrey, è un giovane rivoluzionario, nonché direttore del Teatro Imperiale di Kiev. Un intellettuale, dunque. Evelyn Brent interpreta Natalie (ma in molti testi viene ricordata come Natacha), presumibilmente la sua compagna, anche lei rivoluzionaria. Nonostante le apparenze, The Last Command non rappresenta per Sternberg un veicolo per costruire un grande affresco storico-sociale, anche perché all’industria hollywoodiana interessano esclusivamente il lato pittoresco ed esotico di tali vicende, nonché le “grandi passioni” che la sottendono, e questo lui lo sa bene. La questione ideologica è dunque traslata su un piano puramente umano[4]. Oltre a questo, il disinteresse personale del regista per le vicende storiche e per le loro ragioni diventa avversione nel momento in cui il film si cala nel vivo della rivoluzione, con le battaglie per le strade e l’assalto al treno.

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La folla per Sternberg è sempre feroce e disumana e le sue ragioni passano in secondo piano rispetto agli istinti egoistici dei singoli. Quando un rivoluzionario strappa di dosso il cappotto al generale, gli grida: “Siamo stati schiavi troppo a lungo! Ora siamo noi i padroni!”, e subito dopo: “Sarò il vostro servo ancora una volta: per mettervi il cappio intorno al collo!”. Nella rivoluzione Sternberg non vede la lotta di classe o l’affermarsi della giustizia, ma solo una vendetta sanguinaria e una brama di potere da parte degli oppressi identica a quella degli oppressori. Da una parte l’atteggiamento tirannico e intransigente di Alexander, che colpisce Leo al viso con la sua frusta e si concede battute ciniche (dopo aver sorpreso una delle guardie col suo cappotto indosso a fumare le sue sigarette, si rivolge a un sottoufficiale dicendo: «Se lo sorprendi di nuovo a farlo, leva il cappotto di dosso e spara al contenuto!»); dall’altra l’ira funesta e cieca del popolo, che tutto travolge.

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I volti dei rivoluzionari urlanti e ubriachi, pronti a spararsi l’un l’altro per una donna, costituiscono un bestiario non tanto diverso da quello già rappresentato durante la sequenza della festa dei gangster in Underworld: una scena che non viene in mente a caso, dal momento che, in The Last Command, proprio il momento dei festeggiamenti dei rivoluzionari sul treno (preceduti da quelli più morigerati dei soldati di Alexander, prima dell’assalto) costituisce il topos sternberghiano del carnevale: ovvero, qui, la Rivoluzione come Orgia. È il culmine dell’insensatezza della Storia, che si capovolge in parodia, in caos. E in questo caos solo i sentimenti possono essere messi a fuoco. Le idee e la loro dialettica non sono, per Sternberg (e per Hollywood), rappresentabili e neanche credibili. O forse, semplicemente, non sono interessanti. The Last Command appare, in questo senso (non che intenda esserlo) l’anti-Corazzata Potëmkin, così come l’approccio al mezzo cinema di Sternberg è all’antitesi di quello di Ejzenštejn. Un film né ideologico né rivoluzionario, bensì

un melodramma fiammeggiante in cui Evelyn Brent, brandendo lo stendardo della Rivoluzione, trascina con sé una folla latrante, tradisce per amore e, prima ancora di raggiungere il culmine del disonore, scompare in un’apocalisse di neve, fuoco e ghiaccio; in cui Emil Jannings, traballando in avanguardia, rivive il patetico calvario della sua decrepitezza prima di essere nuovamente conquistato dalla follia, dove i palazzi sontuosi nascondono complotti mortali e gli specchi splendenti riflettono gli abiti sensuali di ambigue eroine.[5]

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Soffermiamoci sul personaggio femminile. Natalie è una rivoluzionaria, ma non una plebea. È un’attrice del Teatro di Mosca. Ha un fascino elegante e apparentemente algido che si fa sempre più intrigante e ambiguo, quando si ritrova a comportarsi come una spia, vagamente antesignana di Marlene/X-27 in Dishonored (Disonorata, 1932): in entrambi i casi le due donne cadono nella loro stessa trappola, innamorandosi dell’uomo che dovevano sedurre e poi eliminare. Ciò che più le rende simili è l’implausibilità di questo improvviso mutamento nei loro pensieri e nel loro sentire. Le motivazioni non vanno ricercate nel realismo o nella coerenza narrativa, ma nella preponderanza della sfera dei sentimenti su quella dell’azione. Natalie, improvvisatasi spia si finge compiacente con il generale aspettando il momento di trovarsi da sola con lui e ucciderlo. Ma scopre poi che egli ha a cuore la vita dei suoi soldati, uomini del popolo, e si rifiuta categoricamente di mandarli a morire in un’operazione militare insensata. È a questo punto che le intenzioni giustizialiste di Natalie vacillano: l’uomo che ha dinnanzi non è più un despota senza cuore, ma un uomo di saldi principi, che ama il suo Paese almeno quanto lei.

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L’indicatore primo del mutamento graduale dell’animo di Natalie è negli abiti che di volta in volta indossa. Dapprima, nella scena dell’arresto, è vestita in modo comune. In seguito, invitata “a palazzo” dal generale, la vediamo abbigliata in maniera sempre più ricca e appariscente, fino alla cena con gli alti ufficiali in cui lei, unica donna, compare in un lungo ed elegante abito bianco, merlettato e decoratissimo (molto Art Déco), che le lascia spalle e braccia nude, e una lunga collana di perle regalatale dal generale. Nella sequenza del treno, infine, Natalie compare vestita di nero, agitando una bandiera, quando aizza la folla dei rivoluzionari gridando di impiccarlo a San Pietroburgo: lo fa solo per evitare il linciaggio sul posto del generale, ma la simulazione è talmente convincente che ci crede anche Alexander, impietrito al cospetto di questa sorta di divinità femminile oscura e furiosa e dagli occhi lampeggianti che grida, ride e infine gli sputa addosso.

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Se la performance attoriale di Jannings non può che apportare al film lo stile espressionista di certo cinema tedesco (appesantendolo, secondo alcuni critici), in questa scena la gestualità di Evelyn Brent è talmente caricata da ricordare da vicino quella marionettesca di Brigitte Helm di Metropolis (Fritz Lang, 1927), nei panni della falsche Maria. Numerosi sono i primi piani che Sternberg le dedica, sia come oggetto di desiderio, sia nei momenti in cui è lei ad osservare il generale, esprimendo di volta in volta disprezzo, dubbio, curiosità, seduzione. Ecco dunque, ancora una volta, emergere l’eterno femminino: una donna che, per sua natura, è unica ma mai univoca, sempre complessa, misteriosa, al tempo stesso preziosa e sfaccettata come un diamante, «enigmatica oltre le esigenze della trama. La sua natura perversa opera al di là del bene e del male, al di là delle convenienti categorie di vergine e di vamp»[6]. Ecco perché, ogni volta, quella donna è la donna, ovvero l’«unica donna dell’isola», come dice il narratore-Sternberg in The Saga of Anatahan (L’isola della donna contesa, 1953, Sternberg).

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C’è comunque almeno una logica (seppure in termini mélo) in questa alterazione dei sentimenti di Natalie, e forse possiamo coglierla anche nel comportamento apparentemente masochistico di Alexander, quando si ritrova da solo con lei per la prima volta. Egli infatti scorge la pistola di lei seminascosta sotto a un cuscino sul divano. Eppure, le volta le spalle per andarle a prenderle le sigarette su un mobile. Sembra quasi che stia sfidando la donna ad ucciderlo, ma in cuor suo sa (o spera) che non lo farà. Come fa a sapere che lei lo ama? Non importa, lo sa e basta. È la sua calma a dircelo, il modo profondo, quasi ipnotico, in cui la guarda con un leggero sorriso. Le prende la mano, le fa notare che le sta tremando. La prudenza e la ferrea disciplina del comandante, del soldato, dell’anti-bolscevico si fanno da parte in nome dell’amore, un amore per cui è disposto anche a morire. Anche se poi sarà proprio Natalie a morire su quel treno. Subito dopo aver permesso al generale di fuggire distraendo con le arti della seduzione un fuochista rivoluzionario, Natalie precipita insieme al treno giù da un ponte sotto gli occhi attoniti di Alexander. Il quale, a partire da quel momento, si ritroverà con quel tic dello scuotere la testa, come a dire «No… No… No…».

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Più controversa e irrisolta la dinamica del rapporto fra i due uomini. Poco dopo essere stato arrestato insieme alla sua compagna, Andreyev viene portato al cospetto di Alexander, nel suo ufficio. Dopo un breve scambio verbale, conclusosi con un’insolenza da parte del prigioniero, questi viene colpito al volto con un frustino dall’irato generale. Segue un alternarsi serrato di primi piani di Alexander e Andreyev, in cui si raggiunge il culmine della tensione e dell’avversione, l’epitome dell’opposizione tra due ideali diversi. Ma poi, dato che, come oramai sappiamo, a Sternberg non importano le ragioni ideologiche, quanto quelle emozionali, questa dinamica nel finale del film giunge a un superamento inatteso e improbabile. Il generale si trova a interpretare sul set una scena in cui, dopo aver colpito al volto un soldato ribelle che aveva tentato di creare una rivolta fra i commilitoni, guida i suoi uomini alla battaglia incitandoli in nome dell’amor patrio, gridando il suo comando, ovvero l’ultimo comando del titolo originale («Avanti, fino alla vittoria! Lunga vita alla Russia!»). La sua interpretazione si rivela nei termini di un’immedesimazione totale: all’improvviso Alexander non è più una comparsa su un set cinematografico, ma di nuovo un generale al cospetto dei suoi soldati.

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La sua “performance” è talmente vigorosa e viscerale da lasciare scioccati i membri della troupe, compreso il regista. Colpito da un attacco di cuore, Alexander si accascia a terra. Andreyev, commosso, lo rassicura («Abbiamo vinto?», gli chiede quello; «Sì, vostra altezza imperiale», gli risponde). Alexander muore. E quando l’aiuto regista dice: «Che peccato, quell’uomo era un grande attore», il regista replica: «Era più di un grande attore, era un grande uomo», ricoprendo Sergius con una bandiera della Russia zarista, mentre un carrello all’indietro ci riporta alla realtà del set cinematografico. È una frase che sembra non avere senso, dal momento che Andreyev, dopo essere fuggito dalla sua prigionia, non aveva più incontrato né il generale né Natalie. Ma nessuno spettatore all’epoca sembrò accorgersi di questa incoerenza. Del resto, l’interpretazione di Jannings qui è talmente potente da divenire credibile per lo spettatore almeno quanto quella di Alexander lo è per i membri della troupe e gli altri attori che sono sul set dentro il film. Una mise en abîme in cui inevitabilmente la finzione vince sulla logica inghiottendo le contraddizioni e respingendo, una volta di più (e più d’ogni altra volta), il preteso realismo ai margini dell’inquadratura, fuori dal campo visivo. Fuori dal cinema.

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Tuttavia va fatto notare che è anche a causa di questo finale problematico che l’intenzione critica iniziale al sistema Hollywood finisce in buona parte per rimanere soffocata:

Quello che Sternberg diresse fu un film “grande”, ambizioso, destinato chiaramente, nei piani dell’autore, ad imporsi come prodotto eccezionale, “artistico”, alla comunità cinematografica hollywoodiana. Hollywood veniva direttamente chiamata in causa, ma l’impertinenza apparente era neutralizzata da un “discorso profondo”, una “umanità sconvolgente”, un “conflitto di anime ferite”, un “dramma moderno”, e via di seguito, sempre virgolettando.[7]

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I temi importanti e lo stile prezioso mandarono in visibilio la critica, un po’ meno il pubblico, Jannings ci guadagnò un Oscar e il regista si vide ammantare del prestigio di aver realizzato il più importante film “artistico” della Paramount. Sternberg tuttavia si rifiutò di dirigere nuovamente l’ingombrante e capriccioso attore tedesco, e così l’altro film che aveva scritto per lui, The Street of Sin (La via del male, 1928), andato perduto, fu affidato alla regia di Mauritz Stiller. Solo in un secondo momento Sternberg accetterà l’invito di Jannings di recarsi in Germania per girare un film con lui ed Erich Pommer, Der blaue Engel (L’angelo azzurro, 1930), che segnerà il primo vero incontro di Sternberg col cinema europeo, nonché con Marlene Dietrich.

Vittorio Renzi

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The Last Command (Crepuscolo di gloria)

[a.k.a. Titolo inglese o alternativo]

Usa, 1928

regia: Josef von Sternberg

soggetto: Lajos Biró [e J. von Sternberg]

sceneggiatura: John S. Goodrich; Herman J. Mankiewicz  (didascalie)

fotografia: Bert Glennon

montaggio: William Shea

scenografia: Hans Dreier

costumi: Travis Banton

produzione: Jesse L. Lasky e Adolph Zukor, per Paramount Famous Lasky

distribuzione: Paramount

cast: Emil Jannings (Sergius Alexander), Evelyn Brent (Natalie Dabrova), William Powell (Lev Andreyev), Jack Raymond (assistente regista), Nicholas Soussanin (aiutante), Michael Visaroff (Serge, guardia del corpo), Fritz Feld (un rivoluzionario), Viacheslav Savitsky, Harry Semels, Alexander Ikonnikov, Nicholas Kobyliansky, Shep Houghton

lunghezza: 9 rulli, 8.154 piedi (2479 metri)

durata: 88′

première: 21 gennaio 1928

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[1] Vittorio Renzi, Prima di Marlene e del sonoro: Sternberg e il sistema-Hollywood, Lo Specchio scuro, 22 dic 2019.
[2] Josef von Sternberg, Fun in a Chinese Laundry, London, Secker & Warburg, 1966, p.126-127
[3] John Baxter, Von Sternberg, Lexington, The University Press of Kentucky, 2010, 79-80
[4] In merito a questo punto, Oms commenta: “Sul piano delle idee, è impossibile sostenere che Sternberg avrebbe potuto farne [di Crepuscolo di gloria, N.d.R.] un’opera politica: come tanti altri, egli cavalcò gli ostili luoghi comuni di Hollywood  circa gli eventi di Ottobre (come ad esempio l’anno prima Cecil B. De Mille con Il barcaiolo del Volga [The Volga Boatman, 1926]”. Marcel Oms, Josef von Sternberg, in “Antologie du Cinéma”, tome 6, Paris, L’Avant-scene, 1971, p.519 (traduzione mia).
[5] Oms, op. cit., p. 520 (traduzione mia).
[6] Andrew Sarris, The Films of Josef von Sternberg, New York, The Museum of Modern Art, 1966, p. 18.
[7] Giovanni Buttafava, Josef Von Sternberg, Firenze, La Nuova Italia – Il Castoro, 1976, p. 43.

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