Die freudlose Gasse (La via senza gioia, 1925)

Georg W. Pabst

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SINOSSI: Maria Lechner, detta Mizzi, e Greta Rumfort vivono, con le loro rispettive famiglie, nella stessa strada nella Vienna dell’inizio degli anni Venti, entrambe in una situazione di grande difficoltà economica. Maria, costretta infine a prostituirsi per sopravvivere, innamorata di Egon Stirner, per vendicarsi del suo presunto tradimento, arriva a uccidere una donna e a far accusare lui di omicidio, salvo poi ripensarci e scagionarlo all’ultimo momento. Oltretutto Maria ha ucciso la donna sbagliata, dato che Egon in realtà è innamorato della ricca Regina Rosenow. Greta come segretaria in un ufficio, ma dopo il che il capo si prende delle libertà con lei, si licenzia. Si innamora del tenente Davis, ufficiale della Croce Rossa americana, che prende in affitto una stanza nella loro casa, ma un investimento sbagliato del padre di Greta porta la sua famiglia alla rovina e la ragazza si lascia convincere dalla losca signora Greifer a diventare un’entraîneuse nel suo locale. Ma sarà lo stesso tenente a portarla via da lì.

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Il terzo film del regista boemo, che fu anche quello che gli diede la fama, segna il passaggio di consegne tra la prima vera diva del cinema europeo degli anni Dieci e quella più iconica degli anni Venti. La grande attrice danese Asta Nielsen aveva già oltrepassato la soglia dei quarant’anni, mentre la svedese Greta Lovisa Gustafsson, in arte Greta Garbo, lanciata l’anno prima da Mauritz Stiller con Gösta Berlings saga (La leggenda di Gösta Berling, 1924), ne aveva appena diciannove. Subito dopo l’uscita del film di Pabst, la Garbo, su invito di Louis B. Mayer, veleggiò verso Hollywood insieme al suo mentore Stiller, per costruire la sua leggenda che durerà quindici anni e venticinque film, prima del ritiro dalle scene.

Di Die freudlose Gasse non è sopravvissuta nessuna delle copie originali. Perseguitato a più riprese dalla censura in Germania e più volte modificato e tagliato, il film, nonostante la ricostruzione operata a partire da diverse fonti, è privo ancora di circa 600 metri di pellicola (in origine erano 3738) e di quasi tutte le didascalie dell’epoca. Il motivo di questo accanimento lo spiega Kracauer:

Il film, che divenne rapidamente famoso in Germania e all’estero, ritraeva la Vienna del periodo dell’inflazione, ponendo specialmente l’accento sull’impoverimento della borghesia. L’inflessibile realismo di Pabst nel descrivere questa decadenza offese i contemporanei. L’Inghilterra proibì la proiezione del film e le versioni distribuite in Italia, Francia e Austria vennero notevolmente mutilate.[1]

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Ma rivisto oggi, il presunto realismo del film risulta in parte compromesso per via della presenza di elementi figurativi e stilistici eterogenei. Die freudlose Gasse sembra in effetti nascere al crocevia di molteplici influenze. Da una parte il realismo e lo sguardo sul sociale, con una loro innegabile dirompenza, che fanno capo a quel movimento artistico-culturale fiorito in Germania proprio in quegli anni denominato Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività); dall’altro la presenza, per quanto sporadica e non massiva, di stilemi e trovate espressionistiche, che sortiscono soprattutto un effetto-caricatura su alcuni personaggi, di cui Pabst si libererà definitivamente negli anni successivi  (laddove era ampiamente influenzato dall’espressionismo il suo film d’esordio, Der Schatz (Il tesoro, 1923). Ma sono soprattutto certi cliché e situazioni convenzionali tipiche del melodramma borghese a minarne almeno in parte il tono da denuncia sociale. D’altra parte, fu lo stesso Pabst a dichiarare, oltre due decenni dopo: “Il realismo è un metodo, non è un fine, è un mezzo”[2].

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Un altro aspetto che vi si riscontra, come in molti film tedeschi coevi, è quello della centralità che assume la strada: un luogo al tempo stesso concreto e simbolico, fatto di incontri, destini, occasioni, tentazioni, caos. Nelle strade si allungano i tentacoli del Dr. Mabuse dell’omonimo film di Lang; nella strada le vite s’incrociano e sbandano finendo in tragedia, come in Asfalto (Asphalt, 1929), di Joe May; nelle strade nebbiose di Londra, infine, si compie il destino di Lulù in Die Büchse der Pandora (Lulù – Il vaso di Pandora, 1928), dello stesso Pabst. In molti titoli di film, strade o vicoli iniziano a comparire esplicitamente, a partire da Die Straße (La strada, 1923), di Karl Grüne, così come nel film in questione.

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Tratto da un romanzo di Hugo Bettauer, adattato da Willy Haas, che aveva esordito come sceneggiatore per Murnau con Der Brennende acker (Il campo del diavolo, 1922), Die freudlose Gasse si articola in nove atti per una durata di oltre due ore e mezza (tre ore, considerando il metraggio perduto). La vicenda è corale: le storie delle due protagoniste procedono in parallelo, si sfiorano appena e non incidono l’una sull’altra. Due destini avversi e paradigmatici: tragico e a tinte fosche quello di Maria, drammatico ma con lieto fine quello di Greta, ma il tono di denuncia su cui è impostato il film rende presto evidente che gli snodi cruciali delle due vicende dipendono, più che da autonome scelte individuali prese in piena coscienza dalle due donne, dalla loro precaria condizione socio-economica (o dal caso, per quanto attiene ai momenti più da melodramma). E tuttavia l’interesse, come sempre in Pabst, non è rivolto tanto alle vicende in sé quanto ai personaggi, soprattutto femminili: ed è da questa “finestra” che rientrerà, seppure in un modo diverso, quella soggettività dello sguardo rivendicata dall’espressionismo.

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Il vicolo Melchior, la “strada senza gioia” messa in scena da Pabst nei bassifondi di Vienna (ricostruiti in studio), si pone dunque come microcosmo della nuova realtà mitteleuropea, con famiglie impoverite che vivono in scantinati, locali equivoci che sfruttano il bisogno di ragazze prive di mezzi, uomini che si rovinano giocando i propri risparmi in borsa, e così via. E’ su questo sfondo socio-economico che si svolgono le vicende del film, la cui aderenza alla realtà di quegli anni è in certi momenti molto calzante, in altri più apparente e convenzionale di quanto non fosse sembrata al pubblico e ai critici dell’epoca: «nelle scene di miseria di La via senza gioia dominano i cliché – tutto è troppo studiato, troppo programmato, troppo enfatico»[3], scrive Eisner, criticando anche una delle scene più famose del film (ripresa peraltro dal Griffith di Isn’t Life Wonderful?, 1924, che girò gli esterni in Germania): quella della lunga coda notturna delle donne davanti a una macelleria, in attesa di poter comprare un pezzo di carne. La forza di quella sola immagine, già potente ed eloquente di per sé, vera e propria fotografia-spaccato dell’epoca, viene indebolita dall’entrata in scena del macellaio cattivissimo, che, con tanto di alano al seguito, va’ a chiamare la polizia per far sgomberare la folla: nel suo aspetto come nei modi c’è una «brutalità eccessiva» (sempre la Eisner), che è solo uno degli esempi di come nel film spesso «il pittoresco trionfa sul tragico»[4]. La Eisner ha probabilmente ragione, anche se, considerando le opere di George Grosz, quelle sue caricature esagerate, irriverenti, ma fortemente iscritte nella realtà sociale di quegli anni, potremmo almeno in parte ricondurre a questo spirito lo sguardo del Pabst di Die freudlose Gasse.

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Ad ogni modo vi sono altrettante scene, specie quelle riguardanti personaggi in secondo piano, che risultano meno fiaccate da cliché ed esagerazioni. Ad esempio le conversazioni fra i banchieri nel ristorante di lusso, alcuni dei quali si vantano più o meno esplicitamente di essersi arricchiti tramite aggiotaggio, diffondendo false notizie se mandando così in rovina la povera gente, «privilegiati che che speculano cinicamente sulla sopravvivenza dell’altra faccia dell’umanità»[5]. Ma ancora di più, in quello stesso ristorante, l’incontro fra Egon e Regina, durante il quale, al corteggiamento del giovane (già impegnato con Maria), la ragazza di famiglia ricca, fintamente emancipata e sbarazzina, gli suggerisce, col cinismo derivato dal suo ambiente, di farsi strada senza troppi scrupoli, se necessario andando a letto con ricche signore, come la moglie del banchiere Leid (la donna che poi Maria ucciderà, credendola l’amante di Egon). O la bellissima scena in cui Greta appende il suo vecchio abito accanto alla pelliccia donatale dalla Greifer, a mo’ di prestito da saldare con ben altri interessi.

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Veniamo ora alle due primedonne. Di Greta Garbo, qui, a essere onesti, colpiscono di più la sfolgorante bellezza (nonostante il massiccio trucco intorno agli occhi) e la malinconica intensità del suo sguardo, che non la sua interpretazione, ancora esitante e poco incisiva. Inoltre la vicenda di Greta è quella che soffre maggiormente di un intreccio e di uno scioglimento convenzionali, che del realismo hanno poco e nulla, ivi incluso il personaggio del tenente della Croce Rossa, pronto a tenderle le braccia e la salvezza. D’altro canto, la Maria di Asta Nielsen, pur nelle esasperazioni mélo della sua vicenda, offre una maggiore evoluzione psicologica. La trovata della sceneggiatura di tacere chi sia l’autore dell’omicidio, fa sì che il compito di rendere evidente la verità ricada tutta nelle mani di Asta Nielsen, che  poco a poco la lascia trapelare sotto la pelle tremante di Maria, dietro ai suoi sguardi impauriti o come raggelati, adombrandola di tinte sempre più cupe e livide. Ed è grazie alla sua indimenticabile performance, tra le migliori della sua carriera, che lo spettatore poco a poco giunge a capire che è lei l’assassina, senza che venga mai detto esplicitamente, almeno fino alla confessione finale in commissariato:  «molte scene in questo film che sono meri luoghi comuni dell’umana sofferenza, diventano vive tramite la sua presenza»[6].

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Altri personaggi risultano più caricaturali: si è già detto del macellaio Joseph Geiringer, interpretato da Werner Krauss, divenuto celebre nel ruolo del dottor Caligari dell’omonimo film di Wiene, oltre che protagonista del film debutto di Pabst. E soprattutto quello della ruffiana del quartiere, la signora Greifer, interpretata da Valeska Gert, ballerina e cabarettista legata al teatro espressionista, che tornerà in Tagebuch einer Verlorenen (Diario di una donna perduta, 1928): ed è in queste vesti che Pabst decide di utilizzarla, con le sue smorfie ambigue e inquietanti, con il suo balletto meccanico nel locale, o lo sguardo improvvisamente assente, come nella scena della cena a tre, assieme a Gerte e Geiringer, in cui lei reagisce all’atmosfera di imbarazzo che si è creata guardando in macchina con la testa reclinata, come una marionetta senza fili.

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La regia di Pabst tesse intorno ai personaggi un ambiente vivo e ricco di sfumature che rispecchia i loro stati d’animo. La sua non è soltanto semplice eleganza formale (che certo non gli manca), ma la capacità di legare i personaggi agli spazi secondo delle precise scelte stilistiche. Alla fine del quarto atto, c’è un dialogo fra Regina e Egon per strada, di sera, in cui lei, convinta che il ragazzo sia l’autore dell’omicidio, gli propone di fuggire insieme. Dopo il suo rifiuto, la ragazza si allontana, con un’espressione desolata sul viso, e cammina verso la mdp che arretra lentamente, mantenendola inquadrata in primo piano: un movimento di macchina che Pabst ripeterà in una scena per certi versi analoga di Abwege (Crisi, 1928), stavolta sul volto di Brigitte Helm: in entrambi i casi avvertiamo con estrema chiarezza i sentimenti che albergano nelle due donne.

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In altre scene, i volti e i corpi sono riflessi da uno o più specchi (usati spesso nei melodrammi italiani e danesi degli anni Dieci), che esprimono la solitudine al cospetto della propria colpa (Maria), o la rassegnazione davanti a quello che appare come un ineluttabile destino (Greta): una delle scene finali vede Greta, in un vestito che la lascia seminuda, seduta davanti a uno specchio tripartito, che riflette una tenda dietro di lei, oltre la quale c’è il locale in cui dovrà esibirsi. All’improvviso la tenda si apre, ed entra un uomo ubriaco (la cui immagine appare in tutti e tre gli specchi) che allunga una mano verso di lei.

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Le mani sono un altro elemento ricorrente nel film, e sembrano reinterpretare quel frammentarsi del corpo nello spazio, unito a un vago senso di minaccia, tipici del sentire espressionista. Nel quinto atto, Maria, mentre racconta al suo cliente, il ricco Don Alfonso Canez (Robert Garrison), di aver assistito a un omicidio in quello stesso hotel dove ora si trovano, gesticola verso di lui e Pabst sceglie un controcampo in cui davanti al volto stupito e disorientato dell’uomo si impongono in primo piano le mani gesticolanti di Maria:

Marie (sic!) giunge a mimare le fasi salienti del delitto sotto l’occhio imperturbabile della camera, a stringere il proprio esile collo come se si trattasse del collo della vittima. In questo modo Marie dimostra implicitamente allo spettatore la reale verità emozionale che ha determinato nel suo inconscio l’insorgere della pulsione: è se stessa che ha inteso distruggere per l’interposta persona di una rivale di cui ha percepito solo il riflesso, l’immagine di uno status cui non potrà mai accedere (…)[7].

Nel flashback in cui vediamo svolgersi finalmente l’omicidio commesso da Maria, Lia Leid è di spalle, seduta sul letto, seminuda, che si ravvia i capelli, mentre le mani di Maria si avvicinano lente al suo collo, come in una scena horror di certi film di Wiene o di Leni. Maria procrastina non solo la confessione del delitto, ma anche la sua stessa accettazione, poiché, fino a quel momento, sembrava aver rimosso la sua colpa, in un’anticipazione di quell’indagine psicanalitica che Pabst compirà più estesamente nel film successivo, Geheimnisse einer Seele (I misteri di un’anima, 1926).
E sono ancora delle mani che vagano nello spazio e si ingigantiscono (in sovrimpressione) quelle che terrorizzano Greta, angosciata dal fatto di non avere più soldi, a malapena per pagare l’uomo che le sta chiedendo il dovuto per un lavoretto che ha appena svolto in casa.

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Ma ad emergere è soprattutto quello che poi diventerà l’aspetto centrale del cinema di Pabst, e in particolare nelle sue ultime opere mute, ovvero quello dell’erotismo. Erotismo e depravazione sono, a un primo livello, gli indicatori sociali della crisi dei valori della società di volta in volta austriaca o weimariana. Ma sarebbe ingenuo pensare che sia solo questo aspetto a motivare l’interesse di Pabst. Piuttosto si tratta di un cardine estetico su cui il regista inizia a costruire quella poetica sul corpo femminile che troverà la sua apoteosi in Die Büchse der Pandora. Le attrici che di volta in volta si succedono davanti alla sua macchina da presa ne escono il più delle volte trasfigurate, come se Pabst fosse in grado di rivelarne il lato più erotico o addirittura far di loro l’incarnazione dell’eterno femminino, come nel caso di Lulù. Femminilità e sensualità esaltate dallo sguardo desiderante, voluttuoso, a volte sordido dei loro amanti o aspiranti tali. E sono proprio questi sguardi trasfiguranti e/o desideranti che vanno a influenzare determinate scelte di regia, di stile, quel “carattere fluido, quasi sensuale, della narrazione”[8], ricercato anche da altri registi tedeschi (May, Dupont o il Murnau di Sunrise), ma che trova nei capolavori di Pabst la sua più seducente applicazione.

Di questo film fu editata negli Stati Uniti una versione sonora nel 1937.

Vittorio Renzi  (17 dicembre 2017)

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Die freudlose Gasse (La via senza gioia)

a.k.a. La strada senza gioia / L’ammaliatrice
[Joyless Street / The Street of Sorrow]

Germania, 1925

regia: Georg Wilhelm Pabst

soggetto: romanzo omonimo di Hugo Bettauer

sceneggiatura: Willy Haas

fotografia: Guido Seeber, Robert Lach, Curt Oertel

montaggio: Anatole Litvak, Marc Sorkin

scenografia: Otto Erdmann, Hans Söhnle

produzione: Romain Pinès e Michael Salkind, per Hirschel-Sofar-Film-Verleih

cast: Greta Garbo (Greta Rumfort), Asta Nielsen (Maria Lechner), Ágnes Eszterházy, Werner Krauss (Melchior), Henry Stuart (Egon Stirner), Einar Hanson (ten. Davis), Valeska Gert (Frau Greifer), Grigori Chmara (Kellner), Karl Etlinger (Max Rosenow), Ilka Grüning (sua moglie), Jaro Fürth (Hofrat Rumfort), Tamara Geva (Lia Leid), Sylvia Torf (madre di Maria),
Robert Garrison (Don Alfonso Canez)

lunghezza: 5 rulli, 4.200 piedi

durata:  150’

première: Berlino, 18 maggio 1925


[1] Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001, p. 225.
[2] Lotte H. Eisner, L’écran démoniaque, Paris, Le Terrain vague, 1965 [già pubblicato da André Bonne, 1952], p. 115 (traduzione mia).
[3] Ivi, p. 173.
[4] Ibidem.
[5] Enrico Groppali, Georg W. Pabst, Firenze, La Nuova Italia, marzo-aprile 1983, p. 21.
[6] Eisner, op. cit., p. 177.
[7] Groppali, op. cit., p. 24-25.
[8] Leonardo Quaresima, Cinema tedesco: gli anni di Weimar, in G.P. Brunetta, Storia del cinema mondiale III. L’Europa. Le cinematografie nazionali, Torino, Einaudi, 2000, vol. 1, p. 105.

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