di Adolfo Padovan, Francesco Bertolini e Giuseppe De Liguoro
L’inferno è il primo film italiano di oltre 1.000 metri, in cinque rulli (all’epoca di rado se ne superavano due) con cui la Milano Films, fondata due anni prima e attiva fino al 1926, diede il suo fondamentale contributo alla corsa per la legittimazione culturale e la nobilitazione artistica del cinema, come stava accedendo già da qualche anno fra le varie case di produzione italiane e francesi. E lo fece in primo luogo ricorrendo a uno dei massimi capolavori della storia della letteratura, nazionale e mondiale. Legittimazione che mirava, fra l’altro, ad attirare in sala il pubblico borghese che preferiva andare a teatro, dato che sulla maggior parte dei film dell’epoca pesava fino a quel momento l’impossibilità di una narrazione articolata, anche per via della breve durata, e soprattutto per la mancanza della parola. Pertanto erano considerati privi di valore artistico, al livello degli spettacoli da fiera (dove erano stati proiettati fino a qualche anno prima, prima cioè della nascita delle sale cinematografiche), adatti a un pubblico proletario di poche pretese.
Con un budget intorno alle centomila lire, L’inferno fu il film più costoso mai prodotto in Italia fino a quel momento: la lavorazione cominciò già nel 1909, quando la Milano Films si chiamava ancora SAFFI-Comerio, e il lancio fu molto pubblicizzato, grazie soprattutto alle strategie del distributore e critico napoletano Gustavo Lombardo che, fra le altre iniziative, richiese, per la prima volta nel cinema italiano, l’iscrizione del film nel Registro pubblico generale delle opere protette. Tuttavia l’ottenimento del “copyright“ non impedì a un’altra casa di produzione, la Helios Film di Velletri (attiva dal 1908 al 1916) di battere sul tempo la concorrente producendo un film “gemello”, sullo stesso tema e dallo stesso titolo, ma molto più breve (circa 400 metri) e dunque relativamente più semplice da realizzare. E così un secondo Inferno, diretto da Giuseppe Berardi e Arturo Busnengo – che l’anno successivo realizzarono anche il Purgatorio[1] – vide la luce tre mesi prima del rivale, con soli 25 quadri e qualche concessione all’erotismo (la nudità dei dannati, il seno nudo di Francesca), riscuotendo anche un certo successo. Ma non quanto l’attesissimo kolossal della Milano Films, la cui uscita coincideva pressappoco con la data del cinquantenario dell’Unità d’Italia, che proprio nel 1911 fu istituita come festa nazionale. Senza contare che vi è anche qui un’inusitata generosità nel mostrare le nudità (perlopiù maschili), ma mai fini a se stesse e al riparo di quella che veniva promossa – e senz’altro lo era – come una grande operazione culturale nazionale.
Già da qualche anno il cinema italiano andava esplorando la possibilità di trasposizioni di singoli episodi danteschi: nel 1908 uscì Pia de’ Tolomei, realizzato dalla Società Italiana Cines di Roma per mano di Mario Caserini e riproposto due anni dopo dalla Film d’Arte Italiana; nel 1909 era stata la volta di Il Conte Ugolino, interpretato proprio da Giuseppe De Liguoro per la Itala Film, e forse da lui anche diretto (ma si pensa anche possa essere stato realizzato da Giovanni Pastrone); l’anno successivo, infine, Francesca da Rimini, prodotto dalla Film d’Arte Italiana e diretto da Ugo Falena (che puntava sull’astro nascente di Francesca Bertini), di cui era già stata realizzata una prima versione omonima dalla milanese Comerio nel 1908. Ora si trattava invece di portare a compimento l’arduo compito di trasporre sullo schermo l’intera prima cantica della Divina commedia.
Il risultato si tradusse in ben 54 quadri – alcuni suddivisi in più inquadrature – che comprendono tutti gli incontri fatti da Dante e Virgilio (interpretati rispettivamente da Salvatore Anzelmo Papa e Arturo Pirovano) con le creature e i personaggi più famosi, durante la loro discesa nei gironi e nelle bolge infernali: le tre fiere (interpretati da attori in costume, tranne la lupa, per la quale viene utilizzato un cane), Caronte, Minosse, Paolo e Francesca, Cerbero, Ciacco, Filippo Argenti, Farinata degli Uberti e Cavalcanti, Pier Delle Vigne, Maometto, il gigante Anteo, Ugolino e, infine, Lucifero. Le scene sono introdotte di volta in volta da una didascalia, o intertitolo, contenente un breve riassunto di ciò che sta per essere mostrato, seguito (o sostituito) da un passo della Commedia, a partire dal celeberrimo incipit.
Se la cinepresa è ancora perlopiù fissa, ad eccezione di alcune brevi panoramiche, e i quadri concepiti a mo’ di tableaux vivants, seppur ricchi di movimento interno (la fonte iconografica delle tavole di Gustave Doré è spesso ripresa quasi alla lettera), la frontalità del cinema dei primordi è abbandonata in favore di una visione più complessa, con un notevole lavoro sulla profondità di campo, dove figure in primo piano si oppongono a gruppi composti da numerose comparse sullo sfondo. E se i gesti sono solenni e plateali, come nella maggior parte dei film coevi, qui a maggior ragione ciò avviene per sottolineare l’impegno artistico verso un testo di tale importanza. Reverenza sottolineata, anche in chiave patriottica, dall’immagine finale del monumento a Dante di Trento (1896), opera del fiorentino Cesare Zocchi: su questa inquadratura intervenne però la censura nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, richiedendone il taglio.
Molte scene furono girate in esterni, il che era decisamente insolito per l’epoca, e precisamente sui monti della Grigna Meridionale (l’entrata dell’Inferno), a Mondello, sul lago di Como, a Carimate, presso il torrente Serenza (per il lago di pece della bolgia dei barattieri, la quinta) e nei dintorni di Genova, ad Arenzano. Tutta la prima parte della discesa, dalla Selva al Limbo, avviene fra montagne, scarpate, fiumi e boschi.
Man mano che i due poeti scendono nelle profondità dell’inferno, il paesaggio si fa più oscuro, minaccioso, fantastico, ma al tempo stesso sempre drammaticamente verosimile, anche grazie all’utilizzo di riprese in esterni. Nelle scene girate in studio all’interno di scenografie essenziali ma simbolicamente efficaci (ad esempio le mura della città di Dite, che sembrano uscire da una miniatura medievale), l’illuminazione è giocata su contrasti fortemente marcati, drammatici, come nei quadri della traversata della palude Stige, col traghettatore Flegias, in quello dei sepolcri infocati degli eretici o, ancora, nella scena finale in cui compare Lucifero. Altrove intervengono le tinte a enfatizzare l’orrore dell’inferno, come il rosso in cui è avvolto l’incontro di Dante con Farinata degli Uberti, il quale gli predice l’esilio tra miasmi e fumi soffocanti. Splendida poi l’uscita dall’inferno, con le due figure di Dante e Virgilio, all’interno di una cornice rocciosa, riprese a mo’ di silhouette contro un cielo caliginoso.
Tre quadri-flashback spezzano la narrazione, raccontando le storie di alcuni dei celebri dannati: Paolo e Francesca, Pier Delle Vigne e il Conte Ugolino. Gli ultimi due si ambientano in scene d’interni con i fondali dipinti (raffiguranti una prigione, in entrambi casi), com’era in uso nel cinema primitivo, il che stona un poco con il resto del film che, come abbiamo già detto, si avvale di scenari naturali o scenografie concepite comunque in modo tridimensionale. Tuttavia è interessante il fatto che il racconto del Conte Ugolino, certamente fra i più noti dell’intera Cantica, si articoli in ben tre inquadrature, di cui la seconda in esterni, presso un vero castello.
L’operatore Emilio Roncarolo ha ideato tutta una serie di effetti speciali (le sovrimpressioni e le esposizioni multiple, i cavi per i personaggi che volano e gli oramai collaudati trucchi di montaggio per le apparizioni o le metamorfosi) che hanno reso possibile la messa in scena convincente di episodi quali la bufera che trascina via Paolo e Francesca e le schiere dei lussuriosi, o Bertran De Born, il seminatore di discordia, che cammina tenendo in mano la propria testa; o, ancora, il volto irsuto in primo piano di Lucifero che si ciba di uno dei tre grandi traditori. Insomma «tutto il Meraviglioso dantesco figurato da Gustavo Doré (e non solo) e come rivisitato da un Georges Méliès crudele – oltre Méliès»[2].
In effetti, certe raffigurazioni, per nulla allusive ma anzi esplicite, si spingono già ai confini di un cinema horror (che concettualmente ancora non esiste), come ad esempio l’accecamento di Pier delle Vigne, il Cerchio dei mutilati o i lugubri pasti di Ugolino e Lucifero. Ma anche del fantasy, con la discesa nelle Malebolge sul dorso del mostro teriomorfo Gerione, che ricorda un drago.
In generale si può dire che, dal punto di vista tecnico, L’Inferno sia un’antologia degli effetti speciali, dei trucchi più noti e sperimentati usciti da quello straordinario laboratorio che era stato lo studio di Georges Méliès (…). Ma qui in realtà siamo ben lontani dalle fantasie naïves carnevalesche e plebee del ‘mago di Montreuil’: qui il truquage non è al servizio di uno svagato gioco fantastico, o del grottesco, dato che si avverte invece costante lo sforzo di rendere questa evocazione dell’Inferno dantesco, in qualche modo, verosimile; e il trucco dovrebbe soprattutto servire ad accrescerne l’orrore.[3]
Dei tre nomi accreditati alla regia, o meglio alla “direzione artistica” – i termini “regia” e “regista” appariranno molto più tardi, tra la fine degli Anni Venti e l’inizio dei Trenta[4] – l’unico che avesse esperienza nell’ambito del cinema era il napoletano Giuseppe De Liguoro (1869-1944), che della Milano Films era il direttore artistico. Dopo essere stato attore e regista di teatro, De Liguoro passò al cinema dove diresse – e spesso scrisse e interpretò – un buon numero di film. Ne L’inferno veste i panni di ben tre fra i dannati più illustri: Farinata degli Uberti, Pier Delle Vigne e il Conte Ugolino, ruolo che aveva già interpretato nel film omonimo del 1909. Adolfo Padovan, lombardo, era principalmente un letterato e un filosofo e non fece del cinema la sua professione, tuttavia sembra si debbano a lui la cura e la precisione nella complessa trasposizione cinematografica della cantica, nonché la redazione delle didascalie, che riprendono i passi più noti del poema. Del veneto Francesco Bertolini, infine, si hanno poche notizie: era un ragioniere e aveva fatto parte del consiglio di amministrazione della Saffi-Comerio.
Alla prima proiezione, al teatro Mercadante di Napoli, erano presenti spettatori del calibro di Benedetto Croce e Matilde Serao la quale il giorno dopo scrisse questa entusiastica recensione:
Noi che spesso, abbiamo detestato il cinematografo, per la banalità e la scempiaggine dei suoi spettacoli, noi, ieri sera, abbiamo fatto ammenda onorevole: noi ci siamo interessati come al più imponente spettacolo e il nostro animo ne è stato scosso e contiamo di ritornarci. Per noi il film della Milano per l’Inferno di Dante ha riabilitato il cinematografo: per chiunque, tale spettacolo sarà un vero palpito di curiosità e di emozione. E se Gustavo Doré ha scritto, con la matita del disegnatore, il miglior commento grafico al Divino Poema, questa cinematografia ha fatto rivivere l’opera di Doré.[5]
L’obiettivo di fare del cinema una forma d’arte a tutti gli effetti era stato raggiunto in pieno. Lo stesso anno, i tre autori portarono nelle sale anche un adattamento de L’Odissea, stavolta in soli tre rulli e con minor successo. Nonostante la sua importanza storica e il successo mondiale che ottenne, dopo l’avvento del sonoro L’Inferno è stato dimenticato, fino alla sua riscoperta e al restauro nel 2002, occasione per la quale i Tangerine Dream hanno composto una nuova colonna sonora; un successivo restauro è stato effettuato nel 2011 dal laboratorio L’immagine Ritrovata di Bologna. Nonostante questi importanti interventi, alcuni segmenti riportano ancora segni di deterioramento della pellicola sui quali non è stato evidentemente possibile intervenire, come ad esempio la scena di Cerbero o quella dell’ottava bolgia (i consiglieri fraudolenti). Tuttavia la pulizia delle immagini e la restituzione delle tinte originali lo riporta quasi allo splendore originale.
Vittorio Renzi
L’inferno
Italia, 1911
regia: Adolfo Padovan, Francesco Bertolini e Giuseppe De Liguoro
soggetto: Cantica omonima di Dante Alighieri
fotografia: Emilio Roncarolo
musica: Raffaele Caravaglios (orig.) / Tangerine Dream [2002]
scenografia: Sandro Properzi, Francesco Bertolini
produzione: Milano Films, SAFFI
cast: Salvatore Papa (Dante), Arturo Pirovano (Virgilio), Giuseppe De Liguoro
(Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, conte Ugolino),
Attilio Motta [o A. Milla] (Lucifero), Emilise Beretta
lunghezza: 5 rulli, 1.400 metri
durata: 65′
première: 1 marzo 1911, Napoli
data di uscita: 22 marzo 1911
L’inquadratura finale, fatta rimuovere dalla censura nel 1914.
[1] Nel 1912 arrivò anche il Paradiso, ad opera della Psiche Films.
[2] Michele Canosa, Più bello di come lo si figura, in Inferno, Il cinema ritrovato, libretto contenuto nel DVD, Cineteca di Bologna, 2011, p. 6.
[3] Aldo Bernardini, “Bianco e Nero”, Roma, anno XLVI, n. 2, aprile-giugno, 1985, pp. 97-98.
[4] Riccardo Redi, Cinema muto italiano (1896-1930), Biblioteca di Bianco & Nero, 1999, p. 154.
[5] Matilde Serao, “Il Giorno”, Napoli, 2 marzo 1911.