Phantom (Fantasma, 1922)

Friedrich W. Murnau

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SINOSSI: Lorenz Lubota, funzionario presso il municipio, è molto stimato dal bibliotecario Starke e amato dalla figlia di lui, Marie. Ma il giovane, un aspirante poeta, ha tempo solo per i suoi libri. Egli vive in una casa modesta con l’anziana madre, la sorella Melanie, smaniosa di andarsene per fare la bella vita, e il fratello più giovane Hugo. Un giorno, Lorenz viene investito da una carrozza e rimane colpito dalla bellezza della conducente, Veronika Harlan, figlia di un ricco commerciante. Fattosi coraggio, si reca dagli Harlan per chiedere in moglie Veronika, ma il padre di lei gli dice di ripassare di lì a un anno. Depresso, il giovane trascura il lavoro. Una sera in un’osteria conosce Melitta, fisicamente identica a Veronika. I due diventano amanti, ma Melitta ambisce a un alto tenore di vita e, per via dei suoi capricci, Lorenz inizia a dilapidare il suo denaro. Chiede allora un prestito alla zia, la ricca usuraia Schwabe. Ma il losco Wigottschinski, amante della donna, approfitta dell’ingenuità del giovane per ottenere una parte del denaro, mentre Lorenz sperpera il resto accompagnando Melitta per negozi e ristoranti. Alla fine viene licenziato. Nel frattempo Melanie se n’è andata di casa per lavorare come entraîneuse in un locale ed è divenuta l’amante di Wigottschinski. La madre, disperata, si ammala, accudita dal solo Hugo e da Marie. La zia Schwabe minaccia Lorenz di denunciarlo alla polizia se non gli restituisce la somma che gli ha prestato. Wigottschinski allora coinvolge Lorenz in un furto in casa di Schwabe, ma i due vengono sorpresi dalla donna che viene uccisa da Wigottschinski. Lorenz viene arrestato come suo complice. Il giorno del suo rilascio, ad attenderlo ci sono Marie e suo padre, che lo conducono nella loro nuova casa fuori città.

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La seconda delle quattro sceneggiature di Thea von Harbou per Murnau adatta un romanzo di Gerhart Hauptmann, insignito del Nobel per la Letteratura nel 1912. Murnau vuole omaggiare il grande scrittore tedesco facendogli un cine-ritratto a inizio film: Hauptmann viene infatti ripreso in una strada di campagna, con un libro aperto in mano. Un omaggio che è anche, al tempo stesso, una “patente” di artisticità per il film stesso, che ambisce così esplicitamente ad essere oggetto d’arte e a venire considerato come tale. Ma i critici tedeschi, salvo poche eccezioni, riservarono a Phantom un’accoglienza piuttosto fredda; a pesare era probabilmente il confronto con l’opera “ingombrante” di colui che era considerato un monumento vivente e che mai si espresse sul film in questione.

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Dopo questo preambolo, il film, diviso in sei atti, si struttura come un lungo flashback racchiuso in una cornice temporale: Lorenz Lubota ci appare mentre scrive le sue memorie, su invito premuroso della moglie Marie, in un ambiente primaverile e sereno che verrà poi ripreso nel finale e che costituisce una forte antitesi al tono cupo che domina il resto della pellicola. La trama è lineare, ognuno dei personaggi ha una sua precisa funzione all’interno della storia, come si confà al tipico dramma borghese di quegli anni che ricade sotto il genere del Kammerspiel. All’interno di questa dimensione improntata al realismo, Murnau e la von Harbou inseriscono diversi motivi che sfociano nel fantastico e anzi nel fantasmatico, che sono poi i momenti in cui la narrazione si fa prepotentemente soggettiva, portando alla superficie le emozioni e i sentimenti che si agitano nel profondo di Lorenz.

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Da questo punto di vista, Phantom è un vero e proprio viaggio nella psiche di un uomo che non sa stare al mondo: Lorenz è un personaggio tipico del Romanticismo tedesco, intellettuale, poeta, ingenuo e con la testa tra le nuvole, o meglio tra i libri. Egli confida alla madre che il motivo per cui non fa altro che leggere è che «i libri regalano i sogni delle cose che uno non potrà mai vivere», come recita una didascalia. Ma nel momento in cui conosce l’amore, Lorenz ne viene completamente travolto: l’amore e la passione stravolgono la natura mite e sognatrice dell’uomo, rendendolo irriconoscibile a se stesso e agli altri, e i suoi progressivi fallimenti ne annullano sempre più la già esile forza di volontà. Egli finisce così per assomigliare, in qualche modo, all’uomo-automa o all’uomo marionetta tipico del teatro e del cinema espressionista. A proposito del “giovane” protagonista, una nota un po’ stonata è costituita dall’età dell’attore che lo interpreta: Alfred Abel aveva infatti già quarantadue anni all’epoca (e li dimostrava tutti), mentre il suo personaggio dovrebbe averne almeno venti di meno. Ma poco importa, in fondo, dato che, come nota egregiamente la Eisner: «Sotto la guida di Murnau, Alfred Abel riesce a rappresentare l’indole sonnambolica e trasognata di un essere sradicato»[1].

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La caratteristica forse più interessante di Phantom è che gli snodi tematici principali sono tutti risolti attraverso trovate visive immediate, e cioè pienamente funzionali sul piano narrativo e al contempo su quello simbolico: la carrozza di Veronika che travolge Lorenz, è al tempo stesso l’amore che, improvviso e inatteso, travolge la sua vita facendola deragliare (e questa immagine verrà replicata poi più volte nella sua mente); il suo inarrestabile declino, che raggiunge il culmine in seguito alla minaccia della zia usuraia di denunciarlo alla polizia, si traduce nell’immagine più celebre ed “espressionista” del film: quella dei palazzi che si inclinano verso di lui, come se il mondo gli stesse letteralmente crollando addosso; infine, tutta la sequenza che racconta il nuovo ruolo di Lorenz come cavalier servente di Melitta, il suo seguirla (e finanziarla!) per ristoranti e boutique, è illustrata efficacemente attraverso tutta una serie di effetti e stimoli visivi – che poi esaminerò in dettaglio – atti a suggerire l’idea di “girandola”, o meglio della spirale in cui si sta perdendo Lorenz. Si tratta, in tutti e tre i casi, di immagini che contrastano con l’impostazione realistica del racconto, andando a creare «a messa in scena di un desiderio che assume le forme di una soggettivizzazione radicale dell’esperienza»[2], da sempre presente e ora ancor più preponderante nel cinema di Murnau.

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Come già nel precedente Der Januskopf (t.l. La testa di Giano, 1920), considerato perduto, torna qui un tema tipico dell’immaginario tedesco attinente al fantastico, cioè quello del doppelgänger, ovvero il doppio, nelle due figure femminili dell’angelica e inafferrabile Veronika, e della sensuale e corrotta/corruttrice Melitta (il cui nome fa pensare al miele, nel quale Lorenz rimane invischiato). Anche se qui il tema del doppio non è utilizzato come simbolo del perturbante, nel senso freudiano, ma in quanto percezione e proiezione dualistica, da parte del personaggio protagonista, dell’amore ideale e di quello carnale. E tuttavia la cosa interessante, e che in un certo senso incrina questo dualismo di stampo platonico-cristiano, è che l’ossessione suscitata da Veronika, anziché a un’elevazione, conduce, per via della sua irraggiungibilità, alla frustrazione e alla degradazione morale che ne consegue. Infatti Veronika è colei che risveglia in Lorenz l’amore, fino a quel momento soltanto sognato sui libri e coltivato a livello intellettuale e artistico. Ma si tratta di un amore estatico, impossibile, che si può solo inseguire come fosse un fantasma. Il personaggio di Veronika compare infatti pochissime volte, sostituita spesso dal suo “fantasma”, ovvero dalla proiezione del desiderio di Lorenz, che diverse volte ricrea nella sua mente – e sullo schermo – la visione di Veronika alla guida della carrozza, oppure distesa nel suo letto, con lui inginocchiato presso di lei.

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D’altro canto, Melitta rappresenta il simulacro di Veronika, il suo doppio disponibile, a portata di mano, ed è ciò che alla fine Lorenz si trova a cogliere, torturato e consumato dal desiderio per l’altra: ma, in quanto simulacro, Melitta non può dargli quell’appagamento che Lorenz cerca e sarà proprio questa constatazione a portarlo sempre più in basso. Al contrario di Veronika, che può permettersi di cullare la sua virtù in un bel palazzo tra agi e ricchezze, in attesa di un matrimonio che sia degno della sua posizione sociale, Melitta è una ragazza del popolo, disinibita e disinvolta, disposta a tutto pur di realizzare i propri desideri assai concreti e immediati. Questo aspetto oltretutto la pone come doppio – non fisico, stavolta, ma mentale o comportamentale – di Melanie, la sorella ribelle e insofferente di Lorenz: anche lei sogna una vita diversa da quella modesta e senza prospettive vissuta nella casa materna. Forse anche il significato del nome Melanie (in greco: “nera”, “scura”) ha un senso, in quanto richiama etimologicamente il suo essere la pecora nera della famiglia e il suo seguire testardamente un destino già scolpito nel nome. Se Melitta e Melanie, si abbandonano dunque a una vita mondana e immorale per loro scelta, Lorenz vi precipita per disperazione, trascinato dagli eventi, affidandosi a persone senza scrupoli come Wigottschinski e la stessa Melitta.

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C’è poi, in disparte, la dolce e remissiva Marie, l’unica che conosce bene Lorenz, che sa vedere la sua vera natura e ha fiducia in lui nonostante tutto. E così la ragazza si limita ad aspettare pazientemente che passi la tempesta e che Lorenz ritrovi se stesso e si accorga del sincero e profondo amore che nutre per lui. Al tempo stesso, Wigottschinski sembra dare corpo alla parte della personalità più oscura e degradata dello stesso Lorenz: il “cicisbeo” della zia è come un Virgilio che conduce Lorenz negli inferi della dissoluzione morale. Al contrario di Lorenz, egli è la perfetta incarnazione immorale dell’uomo di mondo, di colui che si sa muovere, che sa cogliere e sfruttare le occasioni, governato unicamente dal principio del piacere. In breve, egli rappresenta l’Es del protagonista.

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Tornando a Melanie, c’è da dire che Murnau, che tutto è fuorché un moralista, sembra avere per lei una grande comprensione ed empatia: nel ribellarsi alla madre e nell’abbracciare una vita i cui valori sono così lontani rispetto a quelli con i quali stata cresciuta, ella mostra tutta la sua titubanza, l’esitazione, non tanto per sé, ma per il fatto di procurare un grande dispiacere alla madre: le scene fra loro due, nei primi due atti del film, sono molto belle e toccanti, e costituiscono la riprova del grande talento di Murnau nel dirigere gli attori, dando vita a momenti di grande naturalezza e realismo psicologico: e questa è una delle poche cose lodate dai critici tedeschi dell’epoca. Più tardi, quando Lorenz capita nel club dove lavora Melanie, la ragazza si vergogna a tal punto da rivoltarsi contro il suo cliente del momento (il quale, indispettito, colpisce con un pugno il povero Lorenz, credendolo un rivale). E si vergogna ancora di più quando più tardi Lorenz la sorprende fra le braccia di Wigottschinski. Ma, in tutto questo, il fratello, alle prese ormai con la sua stessa disfatta morale, anziché giudicarla la abbraccia.

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Sul piano visivo, come avevo già accennato, il film offre trovate sensazionali ed efficaci per sottolineare i processi psichici del protagonista. Se le apparizioni della carrozza fantasma rimandano inevitabilmente a quella del carretto fantasma dell’omonimo film di Sjöström (uscito l’anno precedente), la scena alla fine del quarto atto con i palazzi che si inclinano è invece una trovata originale, realizzata anche questa mediante una sovrimpressione: all’inquadratura di Lorenz che cammina per strada si sovrappone quella delle facciate dei palazzi, sul lato sinistro del quadro, che si inclinano, trucco ottenuto semplicemente facendo ruotare in senso orario la macchina da presa. Per rendere il trucco ancora più efficace, a questo piano ne seguono altri due in cui un’inquadratura dall’alto mostra Lorenz che fugge, mentre le ombre aguzze dei tetti sembrano rincorrerlo come denti di un gigantesco predatore. Verso la fine del film, la severa geometria dell’entrata della prigione, espressa da una progressiva serie di varchi rettangolari che si perde in profondità di campo su un lontano edificio, genera un senso di angoscia e smarrimento. Tanto più grande allora è la sensazione di sollievo nel momento in cui, nella scena successiva – mediante un salto temporale di anni – finalmente Lorenz guadagna la libertà riattraversando, in senso contrario, quello stesso percorso.

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Nel quinto atto la compagine visiva sembra farsi preponderante su quella narrativa, sempre nei termini della soggettivizzazione. Ciò avviene principalmente nella lunga sequenza in cui Lorenz “scarrozza” Melitta per tutta la città, dapprima al ristorante, poi alla boutique, infine a un club. La modalità visiva e ritmica di questa sequenza suggerisce anche la ripetitività, nei giorni e nelle settimane, di quei singoli episodi proposti ed è introdotta, significativamente, dall’immagine di una spirale: ripresa dall’alto, in plongée, la coppia scende i grandini di una scala circolare; a seguire, una corsa in carrozza (ripetuta poi, poco dopo) con i due in primo piano e, sullo sfondo, due pannelli bidimensionali raffiguranti le facciate degli edifici – di nuovo una strada “animata” – che scorrono all’indietro fino a toccarsi, in una prospettiva fortemente stilizzata e artificiale: effetto nondimeno efficace nel restituire l’idea di un movimento centrifugo e convulso che sottolinea sul piano visivo la vita sfrenatamente mondana di Melitta alla quale Lorenz si adegua con fatica e rassegnazione.

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Il potere soggiogante di Melitta si esprime attraverso la sua preponderanza, in termini visivi, nel momento in cui l’immagine della donna, che sta provando dei vestiti in una boutique, si riflette in ben tre specchi, mentre Lorenz, pazientemente, aspetta seduto in disparte. Infine, ancora Melissa, come immersa in una nuvola di fiori, a suggerire il suo potere inebriante sull’ormai annichilito Lorenz. E ancora, l’incapacità di reagire di Lorenz a questa situazione e la sua discesa morale si traducono con l’immagine dello sprofondare del tavolino dove la coppia è seduta. Lì per lì sembra una contro-plongée, con la macchina da presa che si solleva da terra in verticale, invece il trucco è scenografico: è il tavolino a ritrarsi dentro al pavimento scorrendo lungo le guide di un pozzo circolare, come fosse un montacarichi: un’efficace metafora della lunga caduta di Lorenz. E per finire, l’immagine straordinaria di Lorenz e Melitta, ripresi frontalmente dall’alto, in diagonale, attraverso una struttura ovale a un circuito su cui corre in cerchio un ciclista. Se i movimenti di macchina sono ancora limitati all’essenziale, è il montaggio a scandire una narrazione che, soprattutto in quest’ultima parte, si fa incalzante e frastornante, e tuttavia le splendide panoramiche circolari, che esprimono la visione vertiginosa “in soggettiva” di Lorenz mentre danza con Melitta nel club, sono già la prova generale della entfesselte kamera (“cinepresa scatenata”) di Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924) che soltanto due anni dopo rivoluzionerà l’uso della macchina da presa nel cinema mondiale.

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Come nei film precedenti, nonostante l’ambientazione sia qui quasi esclusivamente cittadina, Murnau utilizza gli elementi naturali per evidenziare i sentimenti dei personaggi. Un esempio è quando Lorenz si porta, per la prima volta, nel cortile del palazzo degli Harlan, dove vive la sua amata Veronika, al centro del quale vi è una bella fontana, mentre un venticello allegro soffia smuovendo le fronde degli alberi: quel vento è come il primo soffio di vita vera per Lorenz, dopo le tante emozioni, sentimenti e vite “di seconda mano”, sognate fra le pagine dei suoi amati libri. E’ la scoperta della vita vera, di poter improvvisamente vivere i propri sogni e non solamente di leggere quelli di qualcun altro. Ma è senz’altro la strada, intesa «come spazio del perturbante, dell’ossessione, del desiderio»[3] a costituire l’ambiente principale del film, in linea con molti altri film tedeschi di quegli anni. Inoltre, più ancora che nei film precedenti, i colori usati per le singole scene hanno qui un valore maggiormente determinante e connotativo. Gli esterni e la biblioteca di Starke, all’inizio del film, sono tinti in un caldo ocra che ben accompagna la percezione di Lorenz della familiarità di quei luoghi e della tranquillità di una routine tutto sommato (ancora) appagante. Quasi tutte le scene che si svolgono in casa di Lorenz sono invece immerse in un azzurro freddo che dà il senso della povertà e dello squallore in cui vivono i Lubota; viceversa, quelle in casa di Melitta sono ravvivate dal rosso della passione fisica e della volgarità della ragazza. Ma a rimanere impresso è soprattutto il blu acceso delle ripetute visioni che Lorenz ha di Veronika, coadiuvato dal morbido flou che ne scontorna (e ne idealizza) il viso rendendolo appunto fantasmatico a intangibile.

Vittorio Renzi  (23 dicembre 2017)

Phantom 03

Phantom (Fantasma)

Germania, 1922

regia: Friedrich Wilhelm Murnau

soggetto: romanzo omonimo di Gerhart Hauptmann

sceneggiatura: Thea von Harbou

fotografia: Axel Graatkjär, Theophan Ouchakoff

musica: Robert Israel (2003)

scenografia: Hermann Warm

produzione: Erich Pommer, per Uco-Film GmbH Decla Bioscop

cast: Alfred Abel (Lorenz Lubota), Lya De Putti (Veronika Harlan/Melitta), Lil Dagover (Marie Starke), Frieda Richard (Frau Lubota), Grete Berger (Frau Schwabe), Anton Edthofer (Herr Wigottschinski), Aud Egede Nissen (Melanie Lubota), Karl Etlinger (Starke), Ilka Grüning (baronessa, madre di Melitta), Adolf Klein (Herr Harlan), Olga Engl (Frau Harlan), Hans Heinrich von Twardowski (Hugo Lubota)

lunghezza: 6 rulli, 2.905 metri

durata: 125’/144’

première: Düsseldorf, 11 ottobre 1922 (preview); Berlino, 13 novembre 1922


[1] Lotte H. Eisner, Murnau. Vita e opere di un genio del cinema tedesco, Padova, ALET, 2010, p. 101.
[2] Andrea Minuz, Friedrich Wilhelm Murnau. L’arte di evocare fantasmi, Fondazione Ente dello Spettacolo, 2010, p. 73.
[3] Ivi, p. 71.

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