Sparrows (Passerotti, 1926)

William Beaudine

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SINOSSI: Il signor Grimes e sua moglie possiedono una piccola fattoria vicino a una palude infestata dagli alligatori. Per mandarla avanti, i due si servono di un gruppo di orfanelli che tengono lì di nascosto. Molly è una di loro ed essendo la più grande cerca di prendersi cura degli altri. Quando arriva un allevatore per comprare dei suini, Ambrose, il dispettoso figlio di Grimes, impedisce al piccolo e balbuziente “Splutters” di nascondersi. Il bambino viene venduto all’allevatore. Sempre Ambrose sorprende Molly con delle patate che ha rubato per sfamare i bambini e, per punizione, lei e gli altri vengono lasciati senza cena. Di notte, Molly ha una visione di Cristo che entra nel fienile dove dormono e prende con sé Amy, la bimba più piccola, ridotta in fin di vita per la fame. Al suo risveglio, Amy è morta. Un giorno due soci di Grimes portano lì una neonata, figlia del ricco Dennis Wayne, in attesa del pagamento del riscatto. Quando Grimes legge sul giornale che la notizia ha fatto clamore, decide che è più sicuro gettare la bambina nella palude. Quella stessa sera, Molly fugge nella palude con i bambini e la neonata; Grimes e i suoi soci si mettono alla loro ricerca. Mentre “Splutters”, ritrovato dalla polizia, indica ai poliziotti la posizione della fattoria, Molly e i bambini escono incolumi dalla palude e si nascondono a bordo di una barca. Grimes finisce nelle sabbie mobili, mentre i due criminali fuggono con la barca dove si sono nascosti i bambini. Inseguiti dalla polizia, vengono investiti da un’altra barca e finiscono in acqua. La neonata viene restituita al ricco genitore che offre a Molly di occuparsene, restando a vivere nella sua grande casa. Insieme a tutti gli altri bambini.

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Film disponibile in streaming
sul canale YouTube di Ermitage: LINK

Sparrows è un titolo che si fa notare, nella carriera folta ma un po’ uniforme di Mary Pickford. Rappresenta un tentativo piuttosto coraggioso di fare qualcosa di diverso, quantomeno sul piano dell’ambientazione, così particolare da renderlo una specie di gotico americano, in cui una perfida famiglia che oggi definiremmo “disfunzionale” gestisce un traffico di orfanelli nel cuore di una palude piena sabbie mobili e alligatori. A detta di Everson, «un meraviglioso thriller ricco di atmosfera, quanto di più vicino a un horror la Pickford abbia mai realizzato»[1]. Ovviamente, trattandosi di “un film di Mary Pickford”, il tono prevalente è quello di una favola (seppure nera) dal sapore ottocentesco/dickensiano, sospeso tra il comico e il lacrimoso, i cui gli orrori, gli spaventi e il sadismo vengono prontamente riassorbiti nel più consolatorio, zuccheroso (e improbabile) degli happy end. L’ultima bobina infatti riporta il film su binari più accettabili per il grande pubblico, disinnescandone in buona parte gli aspetti più spaventosi e dotandolo di un roseo finale al di là di ogni più volenterosa sospensione dell’incredulità. Se il motivo forse era anche quello di allungare il film, l’idea dell’adozione collettiva dei bambini richiama il finale analogo di Peter Pan (1924), il film di Herbert Brenon di grandissimo successo, ispirato alla pièce e ai romanzi di James Matthew Barrie.

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Facciamo ora una considerazione generale riguardo al graduale aumento del metraggio e dunque della durata media delle produzioni fra gli anni Dieci e gli anni Venti. Se nella prima metà degli anni Dieci Mary Pickford – lei come altre star del periodo – poteva comparire ancora in oltre trenta film all’anno, già a partire dal dopoguerra il numero delle sue partecipazioni ai film va attestandosi sulla decina, ma si tratta oramai di veri e propri lungometraggi, superiori cioè – anche se di poco – all’ora di durata. Già negli ultimi anni del decennio, però, e poi in modo stabile negli anni Venti, il numero di pellicole cala drasticamente, mentre la loro durata va ad attestarsi fra gli 80 e i 100 minuti, non lontano quindi da quelle dei film odierni. Ora, se da un lato quelle prime produzioni, letteralmente “fatte in serie”, soffrivano spesso di una certa ripetitività, per via della velocità della realizzazione, della mancanza di sviluppo della trama e dell’approfondimento dei personaggi, è anche vero che, nei casi migliori, si era raggiunta una grande maestria nel ritmo e nell’inventiva (di scrittura, non sempre di regia).

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Secondo Everson, questa gloriosa capacità di sintesi si andò in gran parte perdendo nei film degli anni Venti, al punto che «molti di questi invocano un ricorso spietato alle forbici del montaggio»[2]. Questo severo giudizio non risparmia nemmeno Sparrows, che lo storico del cinema ritiene, nonostante ciò, la miglior produzione della Pickford di quel periodo. Non si può dargli torto, e non solo per quell’ultima bobina di cui si diceva. Anche durante tutta la prima parte il ritmo spesso latita e certe situazioni si ripetono senza molto aggiungere alla caratterizzazione dei personaggi. Per cui val bene la pena di concentrarsi invece su quegli elementi che ne fanno, se non un film eccezionale, quantomeno un film d’eccezione nella carriera della “fidanzatina d’America”. E, in ogni caso, un buon film.

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Il significato del titolo – una metafora biblica che accosta i passeri agli orfanelli, entrambi fragili e indifesi – viene esplicitato in una scena in cui, per consolare i bambini che le chiedono come mai Dio non è ancora venuto a salvarli, Molly racconta loro che al momento è molto impegnato a salvare ogni passero che cade. Il riferimento è a un passo che si trova quasi identico nei Vangeli di Matteo e di Luca, dove Gesù sostanzialmente dice che ai suoi discepoli e ad altri ascoltatori di non temere, perché Dio si ricorda di ognuno di loro, così come si ricorda di ogni passero e di ogni capello che hanno in testa. La metafora è evocata anche visivamente: quando Splutters viene portato via dall’uomo che lo ha comprato, Molly e gli altri orfanelli, nascosti in cima al fienile, lo salutano con la mano. Non vediamo i loro volti né i corpi, ma solo le mani che spuntano fuori dalle aperture tra le assi, ondeggiando nell’aria come le ali di piccoli uccelli in una gabbia.

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Tutta la prima parte del film insiste sull’aspetto dickensiano dei poveri orfanelli, sia in termini drammatici (la bambola che, in una delle scene iniziali, Grimes getta nel fango con disprezzo) che comici (la scena in cui i monelli fanno a gara a chi è più “vuoto”, cioè a chi ha più fame); sul sadismo dell'”orco” Grimes, interpretato dell’ottimo caratterista bavarese Gustav von Seyffertitz; nonché sulla religiosità di Mary, una ragazza semplice ma con una forte fede, che, per consolarli, racconta loro della povertà di Gesù, nato in una fredda mangiatoia. Le citazioni evangeliche raggiungono l’apice nel sogno/visione di Molly. Lì per lì sembra realizzato mediante una doppia esposizione, dal momento che solo la parte destra dello schermo, occupata da una parete del fienile, subisce una modifica: compare una grande apertura oltre la quale, immerso in un incantevole paesaggio bucolico, vi è Gesù, seduto nell’erba, assieme a un gregge di pecore. Quando egli si alza e varca la soglia del fienile e si avvicina a Molly per prendere la bimba dalle sue braccia, allora ci rendiamo conto che si trattava di una dissolvenza. Il risveglio di Molly e la sua disperazione nell’accorgersi che la piccola Amy è morta costituisce il momento emotivamente più intenso di questa prima parte del film, e ci ricorda anche, una volta di più, che le capacità espressive della Pickford, quando è necessario, vanno ben oltre le sue smorfie o i bronci da eterna monella. Qui l’attrice non fa quasi nulla, si limita a fissare verso basso (il suo grembo, dove tiene la bambina), portandosi lentamente le dita alla bocca e poi piange sommessamente. Fin qui è un momento bellissimo, un po’ sciupato poi da una chiusura convenzionale: improvvisamente Molly comprende (la bambina ora è in salvo, con Lui!), alza gli occhi al cielo e, con gratitudine, annuisce e sorride, ancora commossa…

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Va qui menzionato l’eccellente operatore Charles Roshier, un vero e proprio pioniere, che fra l’altro curò la fotografia di tutti i film della Pickford e che diede un grande contributo anche nella sequenza che costituisce il piatto forte del film: la fuga di Molly con tutti gli orfanelli al seguito. Qui finalmente viene sfruttata appieno la palude, tra alligatori e sabbie mobili, il lento avanzare con l’acqua alle ginocchia e le vertiginose traversate su tronchi sospesi sopra a una moltitudine di alligatori affamati. E, a rendere più frenetica la fuga dei bambini, l’inseguimento in montaggio alternato da parte dei rapitori e di Grimes, da un lato, e il sopraggiungere della polizia, dall’altro, con tanto di sparatorie e di inseguimento in barca conclusivo. Questa sequenza, che si protrae per una ventina di minuti circa, vale tutto il film, anche perché è realizzata con grande cura in tutti gli aspetti. Nelle scene con gli alligatori, ad esempio, diverse sono le inquadrature in cui i feroci rettili condividono lo stesso set degli attori e, in certi casi anche dei bambini. Il trucco, se c’è, non si vede. E stando a quanto racconta la Pickford, non c’era:

Gli alligatori erano vivi e molto attivi. I più vecchi sono abbastanza inerti (…), ma quelli giovani (…) sono molto aggressivi. Io portavo sulle spalle questa bambina che pesava e continuava a muoversi da un lato all’altro. Era molto pericoloso. Ero preoccupata soprattutto per la bambina, anche se devo ammettere che non mi entusiasmava l’idea dei denti degli alligatori… Ho detto al regista: “Dobbiamo provare con una bambola sulla schiena. La imbottiremo per renderla più pesante”. Ripetei il percorso tre volte in una direzione e tre volte nell’altra. Poi Douglas Fairbanks venne a saperlo e si precipitò sul set. Era furioso. William Beaudine, il regista (…) gli disse che era necessario. “Niente affatto, rispose Douglas, si può usare una doppia esposizione”. Ma a quel punto io ero già alla mia sesta traversata… [3]

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In questa stessa intervista, la Pickford racconta che il film non era andato benissimo e che la colpa era dei numerosi momenti drammatici e cupi e delle scene troppo spaventose per il pubblico. In pratica deplorava le parti migliori del film. E chissà poi se fu quello il vero motivo dello scarso successo della pellicola. Nel 1926, data di lavorazione e di uscita di Sparrows, Mary Pickford ha trentaquattro anni, e riesce ancora a risultare abbastanza credibile nei panni della ragazzina riccioluta, aiutata da quel viso pulito e dai tratti delicati, nonché dalla bassa statura (154 centimetri). Ma “abbastanza” forse non bastava… Quella grande freschezza e spontaneità, che l’avevano accompagnata in oltre quindici anni di carriera cinematografica, iniziavano a mostrare la corda e lei era la prima a saperlo. Tanto è vero che tentò di dirottare il resto della sua carriera su ruoli di donna adulta e sofisticata. Ma fu abbastanza intelligente da capire subito che, in quell’ambito, la concorrenza era troppa e così, non potendo più tornare indietro, lasciò il mondo del cinema agli inizi dell’era del sonoro dopo una manciata di film, lei che fino a quel momento ne aveva girati centinaia.

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Quello del newyorkese William Beaudine non è certo un nome di spicco, raramente viene citato nelle storie del cinema. Iniziò a lavorare alla Biograph, dove fu tra l’altro assistente alla regia di Griffith, prima di firmare la sua prima regia nel 1915 e, da lì in avanti, lavorò un po’ in tutte le case di produzione dell’epoca che si apprestavano a diventare le Major di Hollywood. Come Allan Dwan e altri della loro generazione, ebbe una carriera lunghissima, firmando la regia di oltre 350 film, tra corti e lungometraggi, senza contare le regie televisive nei primi decenni di vita del nuovo medium.

Vittorio Renzi

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Sparrows (Passerotti)

Usa, 1926

regia: William Beaudine

soggetto: Winifred Dunn

sceneggiatura: C. Gardner Sullivan (adattamento),
George Marion Jr. (didascalie)

fotografia: Charles Rosher, Hal Mohr, Karl Struss

montaggio:Harold McLernon

scenografia: Harry Oliver

produzione: Mary Pickford, per The Pickford Corporation

distribuzione: United Artists

cast: Mary Pickford (Molly), Roy Stewart (Dennis Wayne), Mary Louise Miller (Doris Wayne), Gustav von Seyffertitz (Mr. Grimes),
Charlotte Mineau (Mrs. Grimes), “Spec” O’Donnell (Ambrose Grimes), Lloyd Whitlock (Bailey), Billy Butts, Monty O’Grady,
Jackie Levine, Billy Jones, Muriel MacCormac,
Florence Rogan, Mary Frances McLean

lunghezza: 6-7 rulli (in origine 9), 7.763 piedi / 2.366 metri

durata: 90’

première: New York 19 (?) settembre 1926


[1] William K. Everson, American Silent Film, New York, Da Capo Press, 1978, p. 201.
[2] Ivi, p. 124.
[3] Kevin Brownlow, The Parade’s Gone by…, Berkeley/Los Angeles, University of California Press, 1968, p. 134-135.

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