Benjamin Christensen
SINOSSI: Una guerra minaccia la Danimarca. Il tenente della Marina van Hauen, uomo onesto e integerrimo, affida alla moglie il proprio testamento, per ogni evenienza. La signora van Hauen, nel frattempo, corteggiata dal conte Spinelli, resiste alle sue ripetute avance. Il conte è in realtà un agente nemico che trascorre il tempo a trafficare con messaggi criptati, portati da piccioni viaggiatori che provengono da un vecchio mulino. Le sue vere intenzioni sono di sedurre la donna per carpire i segreti militari del marito, il cui padre, il contrammiraglio van Hauen, è uno dei più importanti ufficiali danesi. Una sera Spinelli, introdottosi nella casa dei van Hauen, ruba dei documenti, proprio mentre il tenente si convince che sua moglie abbia una relazione con il conte. Il giorno seguente, van Hauen viene arrestato per tradimento e rifiuta qualsiasi aiuto da parte di sua moglie. Nel frattempo, Spinelli rimane bloccato nella cantina del mulino, senza alcuna speranza di uscirne. Van Hauen finisce davanti alla corte marziale e viene condannato a morte. E mentre il figlio maggiore scappa di casa per andare a trovarlo in prigione, la moglie ha un’intuizione che la porta dritta al vecchio mulino che, nel frattempo, è diventato un campo di battaglia. Lì trova Spinelli nella botola, il quale ha scritto un biglietto in cui confessa di aver rubato lui gli ordini segreti. Van Hauen viene rimesso in libertà, ma la salute della moglie è compromessa. In compenso, l’uomo ottiene finalmente la prova che lei gli era rimasta fedele.
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Benjamin Christensen (Viborg, 1879 – Copenaghen, 1959), dopo aver lavorato in teatro e aver svolto anche altri mestieri (aveva anche tentato di diventare cantante d’opera, ma perse la voce a inizio carriera), entrò nel mondo del cinema nel 1906 come attore e sceneggiatore, collaborando fra gli altri con August Blom. Det hemmelighedsfulde X fu il suo esordio di successo alla regia, presso la Dansk Biograf Kompagni, una piccola casa di produzione alla periferia di Copenaghen, nata poco tempo prima grazie a capitali tedeschi come Carl Rosenbaum Film. La società cambiò poi nome e ragione sociale e Christensen sostituì Rosenbaum nel ruolo di direttore della società, a pochi mesi dall’uscita del suo primo film. Hævnens Nat (Blind Justice, 1916), il suo secondo film, replicò il successo del primo, ma fu anche il secondo e ultimo prodotto dalla compagnia che chiuse i battenti in seguito alla sopraggiunta crisi del cinema danese. Successivamente, Christensen ottenne i capitali svedesi per girare l’opera che lo fece entrare di diritto nella storia del cinema, ovvero Häxan (La stregoneria attraverso i secoli, 1922). La sua carriera proseguì poi con alterna fortuna dapprima in Germania e negli Stati Uniti, per concludersi infine in Danimarca, all’epoca del cinema sonoro.
Oltre che regista, Christensen è anche coautore della sceneggiatura e attore protagonista del suo primo film, anche se non sono certamente la storia o la recitazione gli aspetti più importanti di Det hemmelighedsfulde X, che è un interessante coacervo di generi diversi: spionaggio, melodramma, film d’avventura, di guerra, thriller. L’esordio registico di Christensen non soltanto si pone come anello di congiunzione tra i serial polizieschi francesi (ma anche danesi) e i primi film d’azione di Fritz Lang, ma soprattutto porta a maturazione l’uso espressivo della fotografia e i giochi luministici, che saranno poi la linfa vitale del cinema tedesco di Weimar. Suggestive riprese in esterni, anche in mare, figure in controluce e illuminazione contrastata, che sono i punti di forza e di novità del cinema danese dell’inizio degli anni Dieci (con Urbad Gad e Holger-Madsen in testa), trovano in Christensen il loro migliore alfiere. Per il resto, anche lui, come i suoi connazionali di quegli anni, concepisce la scena per molti versi ancora come un palcoscenico di teatro, e al montaggio inteso come ritmo e suspense (o anche solo come utilizzo del campo/controcampo), preferisce lunghe inquadrature. In una scena, ad esempio, la signora Van Hauen sta avendo un dialogo concitato con Spinelli, che la sta insidiando, quando all’improvviso la donna si irrigidisce e inizia a gesticolare. Il conte si nasconde dietro al caminetto. Dopo un attimo vediamo entrare il figlio di lei. Probabilmente Griffith avrebbe interpolato all’inquadratura dei due adulti, e anche più di una volta, quella del bambino che si avvicina alla porta rischiando di sorprenderli in quel loro dialogo clandestino. Poco dopo torna a casa anche il marito, in macchina, e stavolta il suo arrivo ci viene mostrato con il montaggio alternato, ma senza che questo produca suspense, dal momento che il conte è ormai al sicuro dietro il suo nascondiglio. Forse è basandosi su esempi come questo che Sopocy depreca la «scarsa attitudine per la forma drammatica»[1] in Christensen, celebrando invece gli aspetti figurativi e visivi del suo cinema.
C’è però da dire che in alcuni casi il cineasta di Viborg si avvale con una certa maestria del montaggio, come nella lunga sequenza in cui, verso la metà del film, Spinelli rimane intrappolato dentro la botola per via di un colpo di vento che ha spalancato la porta del mulino: la porta non solo ha richiuso la botola, ma vi si è fermata sopra impedendone la riapertura. Qui il regista mostra tutta la convulsa disperazione del conte che inutilmente tempesta di pugni la la via d’uscita bloccata e, parallelamente, inquadra la botola e la porta dal di fuori, riuscendo perfettamente, tramite questi oggetti inanimati, a concretizzare un angosciante senso di tragica e beffarda fatalità. A un certo punto, inquadrando in modo ravvicinato la botola che sussulta per i colpi inferti da Spinelli, la mdp si sposta rasoterra lungo la botola e prende poi a salire verticalmente lungo la porta fino a inquadrare il cardine superiore e lì si ferma, contemplando i violenti sussulti della porta, parzialmente sollevata dai colpi del conte. In questa sequenza proto-hitchcockiana il regista danese dà dunque prova di aver assimilato, alla bisogna, la lezione della suspense di Griffith. Una scena successiva renderà conto dei disperati tentativi del conte di uscire dalla sua prigione, e dei topi che scorrazzano sulla botola o sulle spalle dell’uomo agonizzante.
Ma è soprattutto con l’utilizzo dell’illuminazione, come accennavo prima, che Christensen si sforza di sostanziare una storia abbastanza trita e poco originale, come nota Brownlow, che mette però anche l’accento sul montaggio, forse memore della sequenza appena citata:
Tecnicamente, si tratta di un’opera sorprendente. Christensen era ossessionato dalla luce; gli effetti visivi che lui e il suo operatore, Emil Dinesen, ricavarono dalle ombre e dal chiaroscuro erano molto più avanzati di quanto nessuno avesse fatto fino ad allora. Non era solo l’illuminazione ad essere straordinaria; Christensen comprese intuitivamente l’intera grammatica del film. Il suo montaggio era notevolmente sofisticato ed egli sapeva come sviluppare una scena, anziché limitarsi a registrarla.[2]
Sorprende ancora oggi una delle scene iniziali, in cui uno dei due cospiratori in combutta con Spinelli scende le scale della botola del mulino con una sigaretta in bocca mentre l’altro fa luce con una lanterna che ondeggia lievemente. Quando il primo uomo scompare dalla nostra vista, dalla botola vediamo uscire solo il fumo della sua sigaretta, illuminato dalla luce. Poco dopo, Spinelli è fotografato seduto nel suo studio semibuio, le cui uniche fonti di luce sono la lampada da tavolo e una vetrata quadripartita con mosaici a vetro nello stile di Alfons Mucha. Lo stesso Spinnelli, quando rimane intrappolato dentro la botola, viene parzialmente illuminato dalla luce che proviene da fuori.
Non si contano poi i controluce: celebre quello – effettuato in più momenti – di una o più figure riprese da lontano mentre risalgono il crinale della collina che porta al vecchio mulino, o l’uso di figure umane in interni, stagliate contro una porta o una finestra aperta (come nella scena del figlio del tenente che prega per la sua salvezza), con la luce che proviene dall’esterno:
Riprendendo soluzioni tematiche e figurative utilizzate dal francese Léonce Perret in L’enfant de Paris e Le roman d’un mousse (Gaumont, 1913), Christensen ottiene straordinari risultati dal ricorso a inquadrature in silhouette e da immagini in penombra, portando la sua aggressiva sperimentazione a livelli ancora più audaci nel thriller Hævnens nat (1915).[3]
Si tratta dunque di stilemi ricorrenti, non di rado gratuiti in merito all’economia dell’azione, ma che comunque arricchiscono il climax. In alcuni casi, Christensen fa uso di piani ravvicinati che non sono ancora quasi mai primi piani a tutto tondo, ma, diciamo, l’equivalente di un avanzare dell’attore di teatro verso il proscenio, affinché il pubblico veda con maggiore chiarezza i sentimenti dipinti sul suo volto, com’era ancora prassi all’epoca. Eppure un vero e proprio primo piano lo abbiamo quando la moglie del tenente, sorpresa dal marito che ha trovato una lettera inviatale da Spinelli, e abbandonata anche dal conte che ha ormai raggiunto i suoi scopi, rimane immobile, stordita, ondeggiando e guardando verso l’obiettivo. E’ un primo piano che arriva in un momento cruciale ed è di sicuro effetto drammatico, oltre a costituire quasi un unicum nella produzione danese coeva.
La fuga di casa del figlio maggiore che decide di andare a trovare il padre in prigione è un piccolo film nel film. Il ragazzo ruba chiavi, scavalca cancelli, attraversa strade e, respinto dalle guardie della prigione, riesce a penetrarvi dopo una rocambolesca arrampicata tra i piloni del pontile che conduce nei pressi del cancello della prigione, per poi intrufolarsi da una finestra e arrivare fino alla cella del padre. Ma la scena forse più famosa del film è quella successiva, in cui la signora Van Hauen sta dormendo nel suo letto e improvvisamente, nel sonno, intuisce qualcosa di importante che ha a che fare con l’elefante di carta che tempo prima la governante aveva ritagliato per i bambini da un foglio, senza sapere che si trattava della lettera del conte che la Van Hauen aveva nascosto sotto lo specchietto della toeletta. Ecco quindi che l’escamotage per rendere comprensibile questa associazione di idee viene risolto dal regista con il disegno della sagoma dell’elefante, nel momento del suo farsi, in sovrimpressione sulla donna che dorme. Con un’altra trovata grafica simile, Christensen fa comparire una per una, sui fili del telegrafo, le lettere del telegramma diretto al comando generale che dovrebbe scagionare il protagonista. Ma poi, per prolungare la suspense, fa saltare in aria i pali del telegrafo e così sarà il solito soldato a cavallo a spron battuto a portare la lieta novella al contrammiraglio, salvando in extremis il condannato che si trova già dinnanzi al plotone d’esecuzione.
Vittorio Renzi (29 novembre 2017)
Det Hemmelighedsfulde X (L’X misterioso)
[Sealed Orders / The Mysterious X]
Danimarca, 1914
regia, scenografia, montaggio e produzione: Benjamin Christensen
sceneggiatura: Laurids Skands e Benjamin Christensen
fotografia: Emil Dinesen
produzione: Dansk Biografkompagni
cast: Benjamin Christensen (ten. Van Hauen), Karen Caspersen (Karen Van Hauen), Hermann Spiro (Grev Spinelli), Fritz Lamprecht (contramm. Van Hauen), Otto Reinwald (figlio maggiore dei Van Hauen), Bjørn Spiro (figlio minore, Johnny),Amanda Lund (Jane, la bambinaia), Charles Løwaas, Holgar Rasmussen, Svend Rindom, Robert Schmidt
lunghezza: 7 rulli, 1.977 m
durata: 85’
première: 23 marzo 1914
[1] Martin Sopocy, Benjamin Christensen: “Det hemmelighedsfulde X” e “Häxan”, in P. Cherchi Usai (a cura di), Schiave bianche allo specchio. Le origini del cinema in Scandinavia (1896-1918), Pordenone, Studio Tesi, 1986, p. 83.
[2] Kevin Brownlow, The Parade’s Gone by…, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1968, p. 511.
[3] Paolo Cherchi Usai, Cinema muto nei paesi nordici, in G.P. Brunetta, Storia del cinema mondiale III. L’Europa. Le cinematografie nazionali, Torino, Einaudi, 2000, vol. 1, p. 158.