Der Gang in die Nacht (Journey into the Night, 1920)

Friedrich W. Murnau

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Il dottor Eigil Boerne è fidanzato con Helene, la quale, per non intralciare la sua carriera, si mostra sempre più distaccata. Per festeggiare il compleanno del suo fidanzato, Hélène lo porta in un cabaret dove Eigil conosce la giovane danzatrice Lily e se ne innamora. Dopo aver abbandonato Helene, Eigil sposa Lily e i due vanno a vivere in un piccolo paesino di pescatori su un’isola, dove lui inizia a lavorare come medico condotto. Lì fanno conoscenza con un pittore diventato cieco. Eigil, lo opera e gli restituisce la vista. Per seguire meglio la convalescenza del pittore, il medico decide di ospitarlo in casa sua. Quando Eigil, venuto a sapere che Helene si è ammalata per colpa del suo abbandono, si reca in città per farle visita, ma quando torna a casa scopre che Lily e il pittore sono diventati amanti. Anni dopo Eigil è diventato un famoso oculista e Lily le fa visita per chiedergli di curare nuovamente il pittore, che è tornato cieco. Eigil, roso dal rancore, accetta di curare il pittore a patto che Lily si uccida. In seguito, pentitosi del suo, Eigil corre a casa di Lily, ma la donna si è già suicidata. Da parte sua, il pittore rinuncia ad essere guarito nuovamente. Il giorno successivo il medico si suicida nel suo studio.

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Friedrich Wilhelm Murnau era un giovane e promettente attore di teatro, quando, allo scoppio della guerra, fu arruolato nel primo Reggimento della Guardia di Potsdam, per via della sua altezza. Fu tra i pochi sopravvissuti della battaglia di Verdun. Se fosse morto in quell’occasione, il mondo non avrebbe potuto conoscere alcuni dei più grandi capolavori della storia del cinema muto. Al solo pensiero vengono i brividi. E tuttavia, a differenza di altri grandi autori del cinema muto tedesco, come Fritz Lang, di cui sono andati perduti solo un paio di film a inizio carriera, o Pabst, di cui si sono conservate tutte le opere, la già breve carriera di Friedrich Wilhelm Murnau è anche la più penalizzata: dei ventuno film da lui diretti, solo dodici sono ad oggi reperibili, mentre ben otto sono andati persi o distrutti (includendovi anche Satanas, di cui resta solo un frammento di meno di un minuto), e fra questi, in particolare, i primi sei film da lui girati[1]. Infine, di Marizza, genannt die Schmugglermadonna (Marizza, detta la signora dei contrabbandieri, 1920), primo film di Murnau ad essere stato distribuito in Italia, rimane un solo rullo. Considerando l’importanza che la figura di Murnau riveste all’interno del panorama del cinema non solo tedesco, ma mondiale, si tratta di una perdita gravissima, dal momento che rende impossibile valutare l’origine e lo sviluppo della sua visione cinematografica in rapporto alle opere successive. Il film qui preso in esame, dunque, pur essendo il settimo firmato da Murnau, è il primo in ordine cronologico ad esserci pervenuto, grazie al suo ritrovamento a Berlino da parte di Henri Langlois della Cinématheque Française.

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Subito dopo la fine della prima guerra mondiale, dopo quasi un decennio di grande fioritura e successo nel mercato mondiale, il cinema danese stava conoscendo un periodo di flessione che si sarebbe poi rivelato definitivo. Parallelamente, si andava affermando sul mercato europeo il cinema tedesco, grazie soprattutto alla Decla-Bioscop di Erich Pommer, poi acquisita dall’UFA. Di conseguenza, alcuni dei registi, attori e tecnici della cinematografia danese si riversarono a Berlino. Fra questi, oltre a Urban Gad e a sua moglie Asta Nielsen, vi fu anche Olaf Fønss, celebre soprattutto per il suo ruolo da protagonista in Homunculus (1919), di Otto Rippert. Ed è danese anche il soggetto di Der Gang in die Nacht: si tratta di una sceneggiatura di Harriet Bloch, Der Sieger (t.l. Il conquistatore), rimaneggiata poi da Carl Mayer, che per Murnau aveva scritto già Der Bucklige und die Tänzerin (t.l. Il gobbo e la ballerina, 1919).

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Il film comincia con una situazione assai simile a quella che ritroveremo, narrata in un flashback, nel successivo Schloß Vogelöd (The Haunted Castle, 1921): una donna è in crisi perché il suo uomo, preso dal suo lavoro, la trascura e così la sua passione sta venendo meno. Tuttavia, in questo caso, non sarà la donna, Helene, a tuffarsi in un’altra relazione ma, paradossalmente, proprio l’uomo, il dottor Eigil. I due, come veniamo a sapere dalle pagine del diario scritte dalla stessa Helene, sono cresciuti insieme sin da bambini, ma, dopo il loro fidanzamento, è iniziato il declino del loro rapporto. Eigil è così preso dalle sue attività di scienziato e medico (è un oculista) che il divario fra loro si va facendo sempre più incolmabile. E tuttavia una ballerina, Lily, all’apparenza sciocca e vanesia (si interessa a Eigil perché è l’unico fra il pubblico che sembra non interessarsi a lei) riesce alla fine a conquistarlo, tanto che l’uomo rompe il fidanzamento con Helene per sposare Lily.

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Il quarto personaggio, che entra in campo per ultimo, è il pittore cieco senza nome interpretato da Conrad Veidt. Murnau e Veidt, provenienti entrambi dalla “scuderia” del geniale autore e regista teatrale Max Reinhardt, avevano già lavorato insieme in precedenza in ben quattro occasioni: Satanas (t.l. Satana, 1919), Der Januskopf (t.l. La testa di Giano, 1920), a fianco di un Bela Lugosi al suo esordio, Sehnsucht (t.l. Nostalgia, 1920) e infine in Abend – Nacht – Morgen (t.l. Sera… notte… mattino, 1920), film, quest’ultimo, immediatamente precedente Der Gang in die Nacht. Sembrava dunque un sodalizio definitivo, quello fra Murnau e Veidt. Invece, curiosamente, la loro quinta collaborazione fu anche l’ultima.

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Il pittore ci appare in un’immagine suggestiva: in piedi, immobile, su una barca a remi che, dal fondo, si dirige in diagonale verso il bordo inferiore del quadro. La solennità di questo arrivo in prospettiva è amplificata dall’uso di un mascherino “ad arco” che copre una porzione dello spazio superiore dell’inquadratura. E’ da notare che, fino al momento della sua comparsa, la vita di Eigil e Lily ci viene descritta come un felice idillio, rafforzato dalla scelta dell’ambiente in cui i due si sono trasferiti: un’isola, che il mare separa da tutto il resto. Ed è proprio dal mare che arriva il pittore, la variabile che metterà in crisi l’equazione di un matrimonio fino a quel momento apparentemente perfetto. E’ pertanto particolarmente interessante la scena in cui Lily, che ha appena salutato il marito in partenza per una delle sue visite, vede passare per la stradina antistante la sua casa, il pittore. Essendo cieco, l’uomo logicamente non la guarda, mentre Lily sembra invece assai incuriosita da quest’uomo alto e vestito di scuro che procede con un braccio leggermente proteso in avanti. E non è certo un caso che Lily si interessi proprio al secondo uomo che non la degna di uno sguardo (anche se qui la “scusante” dovrebbe essere la sua cecità!). Subito dopo, sempre fissando lo sguardo nella direzione in cui lo sconosciuto si sta allontanando, la donna si dirige lentamente verso casa. Inizialmente Murnau si avvale di una breve panoramica a mo’ di reinquadratura, per seguirne lo spostamento. Ma poi all’ultimo momento si ferma e lascia che la donna esca fuori campo, in primo piano, in modo che si possa vedere distintamente il suo sguardo ancora proiettato in direzione del pittore.

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Da quel momento in poi, Murnau – come farà poi nei film successivi – inizia a inframezzare le sequenze relative alle vicende dei personaggi con delle inquadrature a sé stanti, cioè non giustificate da uno sguardo diegetico, di vari elementi del paesaggio: il cielo sovrastante gli arbusti; un paesaggio collinare sopra al quale le nuvole scorrono veloci trascinate dai venti; il mare, con le onde che si trascinano schiumose verso la riva. Sono immagini che testimoniano la forte inclinazione che Murnau aveva nei confronti della pittura (un’arte che avrebbe voluto praticare ben prima del cinema) e la sua ispirazione da dipinti di artisti quali Böcklin, Schinkel, Friedrich o il norvegese Johann Christian Dahl. Un’inclinazione che condivideva senz’altro col suo sceneggiatore: anche nei film che Mayer scrisse per Lupu Pick, infatti, ritroviamo questi inserti o transizioni[2]. In particolare, in Sylvester (New Year’s Eve, 1924), ricorrono, fra le altre, le inquadrature di un mare agitato, ancora più slegate dal contesto, dal momento che il film in questione è per il resto interamente ambientato in una città. In entrambi i casi, man mano che il dramma si intensifica, queste inquadrature si moltiplicano sempre di più, in funzione di un evidente controcanto o commento alle vicende umane:

Nella natura, nei paesaggi rarefatti e nelle tempeste di Der Gang in die Nacht prendono insomma già forma i presagi, le forze occulte e le risonanze misteriose che, come in una tragedia classica, sembrano avere la meglio sulla volontà dei personaggi e sulle loro azioni.[3]

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Se da un lato è normale per un autore di ispirazione romantica come Murnau ricorrere a questo raffronto fra uomo e natura – aspetto preponderante nel suo cinema, mutuato in buona parte dal naturalismo svedese e che ritroveremo anche in alcuni dei capolavori successivi – bisogna però notare come generalmente nel cinema dell’epoca questo raffronto avvenga presentando simultaneamente la figura umana e il suo ambiente. Ad esempio, nei due film che solo pochi anni prima fecero percepire Victor Sjöström dai suoi contemporanei come il primo grande autore della settima arte, e cioè Terje Vigen (C’era un uomo, 1917) e Berg-Ejvind och hans hustru (I proscritti, 1918), sono rarissime le inquadrature che rendono la natura protagonista esclusiva (il mare nel primo caso, la montagna nel secondo), in assenza della figura umana, con tutto il loro carico allegorico e ambiguo, prima ancora che simbolico; in tutte le altre, essere umano e ambiente sono compresenti nella medesima inquadratura. Nel film di Murnau, quando ciò alla fine accade, è spesso in funzione drammatica: ad esempio nella scena in cui il vento irrompe furioso nella camera da letto di Lily e lei, terrorizzata, si alza per chiudere le finestre; successivamente, la donna si arrende al vento e inizia a danzare mentre le tende delle finestre e si muovono insieme a lei. Una scena magnifica che descrive il groviglio di sentimenti che Lily prova nei confronti del pittore cieco: dapprima la paura dei propri istinti e poi un estatico abbandono a quella che è un’attrazione per lei irresistibile.

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Sarebbe interessante sapere se anche nei film precedenti Murnau abbia fatto uso di tali inserti, così come ne farà uso in seguito. Una pratica squisitamente peculiare e moderna (basti pensare alle equivalenti inquadrature di transizione di Ozu Yasujiro nei suoi film più maturi) che va però a cozzare in questo film con un aspetto decisamente più datato che è la direzione degli attori, la cui recitazione appare molto caricata e fin troppo ricca di scene madri. Non si contano qui i momenti in cui i personaggi piangono, si struggono, si gettano in ginocchio o rivolgono occhi e mani al cielo. Senza contare che proprio quegli inserti di cui si parlava, oltre al frequente ricorrere di primi e addirittura primissimi piani – soluzione peraltro adottata assai raramente nel Murnau delle opere successive che, come notava Rohmer, preferisce il valore plastico della mezza figura[4] – costituiscono già degli strumenti formidabili per indagare ogni sfumatura dei processi psicologici dei personaggi.

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Sfumature a cui il regista sembra rinunciare nel momento in cui va ad assecondare l’istrionismo da “catatonico” di Veidt – che sembra a tratti riproporre il suo Cesare di Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1919), di Robert Wiene – o le minacciose posture e le smorfie dell’Homunculus Fønss, come sostiene Lotte Eisner nella sua monografia su Murnau[5]. Va però ricordato che in quegli anni la Germania era divenuta famosa per il suo “stile espressionista” (da cui Murnau si tenne il più delle volte ai margini), che prevedeva anche questo stile di recitazione fortemente marcata e antinaturalistica. Fa eccezione l’attrice che interpreta Helene (Erna Morena), assai più composta: il suo è del resto un personaggio già pienamente ascrivibile al cinema più maturo di Murnau e a lei sono dedicate le immagini più eleganti e malinconiche del film. Ma anche nella morte di Lily, che sacrifica se stessa per amore, nonché per rimediare al male involontariamente causato, possiamo scorgere un’anticipazione del tema del sacrificio e della figura femminile di Ellen in Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro, 1922).

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Ne consegue che il film si presenta come un interessante ibrido, in bilico fra passato (il cinema danese e svedese), presente (il cinema espressionista tedesco) e futuro (il cinema-Murnau), e fra diverse pratiche cinematografiche, alcune delle quali ancora in uno stato di germinazione. Tuttavia non mancano già qui i tocchi da maestro: ad esempio, il gioco d’ombre che prende vita sulla parete in fondo alla stanza in cui il pittore è ricoverato per la sua convalescenza, in seguito all’operazione agli occhi. Eigil è accanto a lui mentre l’uomo si solleva sul letto e, con gesti lenti ma enfatici, reagisce incredulo al ritorno della sua vista. Sulla parete le loro ombre ingigantite “mimano” i loro movimenti dando vita, pur all’interno di una sequenza che dovrebbe essere gioiosa, a un inquietante balletto di doppi delle loro figure (ancora un’anticipazione del ruolo fondamentale che avranno le ombre in Nosferatu). O il particolare ricorrente dell’orologio su un muro, letteralmente “ritagliato” dal suo contesto e posto in evidenza, in modo simile a come avveniva in Körkarlen (Il carretto fantasma, 1921), di Sjöström: le ore che scorrono suonano anch’esse come una minaccia crescente, proprio come le ombre sul muro, le onde che si abbattono a riva, le nuvole che viaggiano sempre più veloci nel cielo e il vento che entra a scompigliare le tende e a terrorizzare Lily.

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Altri segni stilistici peculiari rilevabili in Der Gang in die Nacht sono il frequente uso di iris in apertura e chiusura di diverse scene e certe particolari scelte di montaggio, come ad esempio nella scena in cui Eigil, Lily e il pittore stanno pranzando insieme, tutti e tre seduti a un tavolo. A un certo punto ci vengono mostrati uno per volta in primo piano, ma non per tramite di semplici stacchi di montaggio, bensì di lente dissolvenze incrociate (altro stilema molto usato nel cinema svedese), mediante le quali  ogni figura “scivola” in un’altra, come a suggellare, in maniera definitiva, il destino inesorabile che le lega insieme. E ancora, più, sul piano del montaggio, per quanto riguarda certi raccordi di sguardi fra i personaggi che si trovano in luoghi diversi, come nella sequenza in cui Ellen, abbracciando suo marito, guarda fuoricampo verso destra, mentre, nella sua casa, il pittore cieco rivolge il suo “sguardo” verso sinistra: «raccordi “impossibili” che si incaricano di figurare le visioni interiori, i desideri o gli oscuri presentimenti degli stessi personaggi»[6]: ancora un assaggio di quello che avverrà in maniera ricorrente in Nosferatu.

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Murnau, in conclusione, si rivela già in questo film padrone assoluto della messinscena, intesa come organizzazione di tutti i materiali del profilmico: nulla è casuale, nulla è spontaneo, tutto contribuisce a ricreare l’universo mentale del regista, il quale, da qui in poi, non farà che affinare la sua poetica e il suo stile.

Vittorio Renzi  (8 marzo 2017)

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Der Gang in die Nacht (Journey into the Night)

[AKA The Dark Road / Walking into the Night / t.l.: Il cammino nella notte]

Germania, 1920

regia: Friedrich Wilhelm Murnau

soggetto: sceneggiatura Der Sieger (Il conquistatore) di Harriet Bloch

sceneggiatura: Carl Mayer

fotografia: Max Lutze

scenografia: Heinrich Richter

produzione: Sascha Goron, per Goron Films

cast: Olaf Fønss (Eigil Börne), Erna Morena (Helene), Conrad Veidt (il pittore),
Gudrun Bruun (Lily), Clementine Plessner

durata:  81′

première: 13 dicembre 1920

distribuzione: 21 gennaio 1921

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[1] Eccone l’elenco completo: Der Knabe in Blau (t.l. Il ragazzo in blu, 1919), Der Bucklige und die Tänzerin (t.l. Il gobbo e la ballerina, 1920), Der Januskopf (t.l. La testa di Giano, 1920), Sehnsucht (t.l. Nostalgia, 1920), Abend – Nacht – Morgen (t.l. Sera… Notte… Mattino, 1920), Die Austreibung (t.l. L’espulsione, 1923) e l’ultimo, un titolo americano, The Four Devils (t.l. I quattro diavoli, 1928)
[2] Uso qui i due termini nel significato che gli attribuisce Dario Tomasi nella sua monografia su Ozu: «Gli inserti di Ozu irrompono nel corso di una scena interrompendone per un attimo, più o meno lungo, lo sviluppo temporale. Le transizioni invece sostituiscono le dissolvenze (…)»; e ancora: «Tarda primavera usa in funzione dominante inserti legati a immagini della natura: alberi, colline, onde del mare, segno di una visione più distaccata delle cose che il regista va via via maturando, dove i drammi umani e il mutare dei sentimenti appaiono come parte del fluire dell’universo».
(Dario Tomasi, Yasujiro Ozu, Milano, Il Castoro, 1996, p. 15 e 101)
[3] Andrea Minuz, Friedrich Wilhelm Murnau. L’arte di evocare fantasmi, Fondazione Ente dello Spettacolo, 2010, p. 56.
[4] Eric Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel “Faust” di Murnau, Venezia, Marsilio, 1984, p. 28.
[5] Lotte H. Eisner, Murnau. Vita e opere di un genio del cinema tedesco, Padova, ALET, 2010, pp. 95-96.
[6] A. Minuz, op. cit., p. 57.

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