Der brennende Acker (Il campo del diavolo, 1922)

Friedrich W. Murnau

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SINOSSI: Il vecchio contadino Rog sta morendo, assistito dal figlio Peter. L’altro figlio, Johannes, che vive in città, viaggia in slitta insieme al barone Ludwig von Lellewel ma raggiunge la casa di famiglia quando il genitore è già morto. Ludwig approfitta del viaggio per incontrarsi con la figlia del conte von Rudenburg, Gerda, che corteggia da diverso tempo. Da parte sua, il conte è ossessionato da uno scavo che sta effettuando su un terreno di sua proprietà, soprannominato “campo del diavolo”, per via di un incendio avvenuto in passato in cui aveva perso la vita un suo antenato. Da allora in questo luogo non crescono né alberi né erba, vi sorge soltanto una cappella votiva. Dopo la morte di Rog, Johannes lascia la fattoria e incontra Gerda, che gli suggerisce di farsi assumere da suo padre come segretario. Ma Helga, la seconda moglie del conte, guarda con preoccupazione all’intesa fra Johannes e Gerda. Quando il conte scopre che sotto il campo c’è un giacimento di petrolio, Johannes casualmente origlia la notizia. Subito dopo il conte, malato e oramai prossimo alla morte, lo convoca per dettargli il testamento: alla figlia andrà tutto il suo patrimonio, eccezion fatta per il campo del diavolo, che lascia a Helga. Così, dopo la morte del conte, Johannes, anziché Gerda, sposa Helga. Poi torna in città per cercare finanziamenti che gli permettano di sfruttare il giacimento. Ma Helga, ignorando la questione del petrolio, decide di vendere il campo a Peter per pochi marchi. Tornato dalla città, Johannes rimane sconvolto dalla notizia. Helga capisce così che Johannes l’ha sposata solo per interesse e, disperata, torna da Peter per farsi annullare il contratto, dopodiché si suicida gettandosi in un torrente.  Hanno inizio le trivellazioni, ma Johannes è in preda ai sensi di colpa. Dopo che Johannes l’ha respinta una seconda volta, Gerda dà fuoco al giacimento. Johannes torna alla fattoria chiedendo perdono al fratello e a Maria, giovane domestica da sempre innamorata di lui. La famiglia lo riaccoglie.

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Girato subito dopo Nosferatu, Der brennende Acker è sopravvissuto a lungo in un’unica copia incompleta (gli ultimi tre rulli), fino al ritrovamento, nel 1978, dell’intero metraggio di pellicola, sia pure in condizioni non ottimali, presso la Cineteca di Milano, sotto il titolo Il campo del diavolo. Cronologicamente si tratta dunque dell’undicesimo film diretto da Murnau, ma è di fatto solo il quinto fra i film sopravvissuti ad oggi. E non è il più memorabile, anche se Lotte Eisner ci riporta diverse recensioni entusiastiche dell’epoca che rendono conto di quello che fu uno dei primi grandi successi di Murnau, sia in patria, sia in altri paesi europei[1].

Si tratta di un melodramma rurale, sottogenere già sondato da Murnau in Marizza, genannt die Schmugglermadonna (Marizza, detta la signora dei contrabbandieri, 1920), di cui ci resta solo un rullo, e che ripercorrerà poi nel film ad oggi perduto Die Austreibung (1923), fino a Sunrise (Aurora, 1927) e City Girl (Nostro pane quotidiano, 1930). Der brennende Acker, il cui sottotitolo recita «Il dramma di una persona ambiziosa», ha come tema centrale quello scontro fra la vita di campagna e la vita di città (anche se quest’ultima non è mai rappresentata) «che si offre come un motivo strutturale del melodramma degli anni Venti, sviluppato da Murnau nell’orizzonte del tema dell'”innocenza perduta”»[2]. Se in Sunrise il suddetto conflitto sarà esplicitato, in una maniera senza dubbio più stimolante, attraverso il triangolo di un uomo e due donne, qui si esprime invece nel rapporto fra i due fratelli, contrasto che era già presente in Marizza, i cui opposti caratteri si manifestano anche nelle fisionomie assai diverse, e che richiamano, curiosamente, quelle degli amici d’infanzia Alfredo e Olmo in Novecento (1976), di Bernardo Bertolucci.

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L’intera vicenda si svolge in soli tre ambienti: la fattoria dei Rod, ereditata dal solo Peter dopo il voltafaccia di Johannes, il lussuoso palazzo del conte von Rudenburg e il campo del diavolo ricoperto dalla neve. Il polo della città viene quindi sostituito da quello della vita agiata di palazzo, dove Johannes finisce per andare a lavorare, trasformando il conflitto iniziale campagna/città in quello aristocrazia/vita contadina. Ma, di fatto, nella sceneggiatura a sei mani di Willy Haas (celebre letterato tedesco, qui alla sua prima sceneggiatura), Thea von Harbou e Arthur Rosen, le ragioni sociali di questo scontro non vengono mai approfondite. Dopo la stretta collaborazione con Carl Mayer in molti dei film precedenti – e che riprenderà con Herr Tartüff (Tartufo, 1925) – Murnau si avvale per la prima volta della scrittrice bavarese la quale, proprio in quello stesso 1922 convolava a nozze con Fritz Lang. Nei due anni successivi, Murnau e la von Harbou realizzeranno insieme altri tre film: Phantom (Fantasma, 1922), Die Austreibung (1923, perduto) e Die Finanzen des Großherzogs (Le finanze del granduca, 1924).

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Ad ogni modo, prescindendo dall’esiguità e dalla retorica dell’intreccio, anche in questo caso Murnau trova il modo di esprimere la propria fascinazione per l’unico vero scontro che gli interessa davvero, quello fra l’animo umano e gli spazi naturali, ripresentando in parte quella stessa dicotomia tra interni ed esterni di Schloß Vogelöd (The Haunted Castle, 1921): all’interno, la fattoria dei Rod è pervasa di calore, reso da una tinta calda, l’ocra; fuori, i campi innevati, gelidi, sono inondati da una luce bianca e bluastra. A quel film rimandano anche gli interni algidi e labirintici del palazzo del conte. Ma a un secondo livello si tratta ancora una volta, più che di uno scontro, di una perenne simbiosi, una comunione, un rapporto misterioso e inevitabile che si esprime figurativamente in quelle forme attinte al romanticismo che già abbiamo visto nei film precedenti. Lo vediamo ad esempio in una delle scene iniziali in cui Gerda, dopo aver letto l’ennesima lettera supplicante di Ludwig e averla strappata, spalanca una finestra lasciando entrare il vento gelido della notte, dichiarando così esplicitamente la sua natura  selvaggia e sensuale, nonché oscura. Senonché Gerda non è ritratta come un personaggio del tutto negativo: è sprezzante e snob, certo, ma capace anche di passione e coraggio, come nel suo gesto di rivalsa finale che si rivelerà poi fruttuoso, almeno per quanto riguarda Johannes e la sua decisione di tornare alla casa paterna.

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In questa occasione è evidente l’ispirazione che Murnau trae da Way Down East (Agonia sui ghiacci, 1920), uno dei maggiori successi di Griffith, uscito solo due anni prima, la cui parte finale si impone proprio per questa perfetta fusione tra accadimenti, sentimenti e il sublime della natura, di cui già lo svedese Sjöström aveva dato una prova di grande impatto nei suoi film del decennio precedente.
Pur essendo il film privo di ogni elemento fantastico, rispetto al di poco precedente Nosferatu, è facile stabilire un parallelo tra il minaccioso castello di Orlok e quella del “campo del diavolo”. Quel campo innevato, infatti, a cui la superstizione dei contadini attribuisce l’opera del Maligno, si traduce, nell’animo smaliziato dei personaggi principali, come un catalizzatore di ambizioni, di desideri e di paure, finendo per vampirizzarne gli animi e, sia pure indirettamente, per direzionarne le esistenze verso la catastrofe (vi è anche un accenno ai lupi che ululano fuori, nella notte, che rimanda ai ben più spaventosi lupi mannari dei Carpazi). Ragion per cui appare quanto mai posticcio quel lieto fine accomodante in cui a Johannes viene perdonato tutto. La sequenza in cui ci viene raccontato il tragico destino dell’antenato del conte, che si era calato nel pozzo per esserne risucchiato in un baluginio di fiamme, funziona come film nel film e serve a spiegare l’origine  della superstizione popolare su quel nefasto luogo.

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Le riprese alternano campi lunghi (esterni), piani medi con figure per lo più isolate le une dalle altre (nel castello del conte predominano grandi spazi semivuoti e verticalità) e piani medi con più figure nel quadro (la fattoria Rod dai soffitti bassi e ricolma di persone e utensili), ripresentando puntualmente gli aspetti psicologici e i legami dei personaggi in termini di distanza e spazialità e ribadendo così che l’unica salvezza rimasta è quella che si trova nella famiglia, possibilmente numerosa, che condivide spazi piccoli ma pieni di calda umanità. Murnau lavora poi come di consueto in maniera pittorica sui volti e sulle posture dei singoli personaggi e sugli spazi che essi occupano nei momenti cruciali della loro esistenza.

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La macchina da presa in movimento si ritrova in alcune scene: quella della slitta su cui viaggiano Johannes e Ludwig all’inizio del film e quella della cavalcata di Johannes e Gerda, entrambe risolte con carrellate a precedere in camera-car, sul modello griffithiano, penalizzate però dall’inframezzarsi dei vari intertitoli. Bisognerà attendere ancora un paio d’anni affinché Murnau e i suoi operatori (che qui sono Fritz Arno Wagner e Karl Freund in coppia) trovino il coraggio di sperimentare in maniera ben più radicale le possibilità motorie della macchina da presa e, al contempo, la riduzione e quasi la scomparsa delle didascalie.
Fra gli attori, Alfred Abel (celebre per il ruolo del magnate di Metropolis) tornerà in vesti di protagonista nel successivo Phantom e poi ancora in Die Finanzen des Großherzogs.

Vittorio Renzi  (26 novembre 2017)

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Der brennende Acker (Il campo del diavolo)

[The Burning Soil]

Germania, 1922

regia: Friedrich Wilhelm Murnau

sceneggiatura: Willy Haas, Thea von Harbou e Arthur Rosen

fotografia: Fritz Arno Wagner e Karl Freund

musica: Alexander Schirmann

scenografia: Rochus Gliese

produzione: Erich Pommer e Sacha Goron, per Goron-Deulig-Exclusiv-Film

cast: Vladimir Gajdarov (Johannes Rog), Eugen Klöpfer (Peter Rog), Eduard von Winterstein (conte von Rudenburg), Lya De Putti (Gerda), Alfred Abel  (Ludwig von Lellewel), Stella Arbenina (Helga), Grete Diercks (Maria), Werner Krauss (Rog)

lunghezza: 6 rulli, 2.651 metri

durata:  100’

première: Berlino, 9 marzo 1922

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[1] Lotte H. Eisner, Murnau. Vita e opere di un genio del cinema tedesco, Padova, ALET, 2010, pp. 130-131.
[2] Andrea Minuz, Friedrich Wilhelm Murnau. L’arte di evocare fantasmi, Fondazione Ente dello Spettacolo, 2010, p. 69.

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