Ernst Lubitsch
SINOSSI: Jeanne Vaubernier, un’umile sarta, decide di lasciare il suo fidanzato, Armand De Foix, per iniziare una relazione con il conte Jean DuBarry, che può introdurla nell’ambiente di corte. La sua bellezza non passa inosservata agli occhi di Re Luigi XV, che decide di farne la sua amante e, per questo, organizza il suo matrimonio con DuBarry. In breve tempo, Jeanne si trasforma in una cortigiana e, grazie all’appoggio del re, il suo potere appare illimitato, benché nessuno a corte dimentichi le sue origini. Armand, però, non l’ha dimenticata e tenta con ogni mezzo di riconquistarla. Allo scoppio della Rivoluzione, lui finirà in prigione e lei sulla ghigliottina.
Vizi, lussurie, grandeur e sommarie semplificazioni per un grande affresco pseudo-storico, derivante senz’altro dai due celebri capostipiti italiani, Quo Vadis? (1913), di Enrico Guazzoni) e Cabiria (1914), di Giovanni Pastrone, e da quelli equivalenti di Griffith oltreoceano, e che ebbe il merito, fra l’altro, di far notare Lubitsch e la sua star Pola Negri dai grandi studios hollywoodiani. Reduce dal successo di altri due kolossal con Pola Negri, Die Augen der Mumie Ma (Eyes of the Mummy-ma) e Carmen, entrambi del 1918, Lubitsch si ritrovò, suo malgrado, a divenire il regista di punta di questo genere, concepito dai produttori dell’UFA allo scopo di riportare la cultura tedesca nel mondo, attraverso il cinema. Ma certo lui avrebbe preferito continuare a girare commedie, cosa che continuerà a fare, prima a intervalli, tra un kolossal e l’altro, e poi in seguito in modo esclusivo.
Madame DuBarry fu il primo film tedesco ad approdare negli Stati Uniti, nel 1920, dopo il lungo embargo imposto alla Germania. Dopo questo e i kolossal degli anni immediatamente successivi (Anna Boylen – Anna Bolena e Sumurun, entrambi del 1920, di nuovo con Pola Negri, e Das Weib des Pharao – Theonis, la donna dei faraoni, 1922), grazie ai quali qualcuno lo ribattezzò “il Griffith d’Europa”, la trasferta americana fu pressoché immediata e lì Lubitsch realizzerà i suoi grandi capolavori, contribuendo a creare la grande commedia brillante americana classica, insieme a Capra, Hawks e, più tardi, Preston Sturges e Billy Wilder.
Da un punto di vista puramente storico, non aveva tutti i torti Kracauer a parlarne con sufficienza, affermando che il film
svuota la Rivoluzione del suo significato. Invece di far risalire tutti gli avvenimenti rivoluzionari alle loro cause economiche e ideali, fa di tutto per presentarli come lo sfogo di conflitti psicologici”, concludendo che “Madame DuBarry non fa perno sulle passioni insite nella Rivoluzione, ma riduce invece la Rivoluzione a una conseguenza di passioni individuali. Se così non fosse, la tragica morte dei due amanti non offuscherebbe l’insurrezione vittoriosa del popolo.[1]
Eppure, venendo a patti con questa indubbia logica da feuilleton commerciale, Madame DuBarry, nonostante tutti i suoi limiti, è tuttora uno spettacolo godibile, a tratti anche molto divertente, soprattutto per l’estro con cui la bravissima (checché se ne dica) Pola Negri si destreggia, furba e capricciosa, fra i suoi spasimanti di ogni ceto ed età, per la regia già piuttosto dinamica e per l’uso bizzarro che il regista fa dei mascherini, ponendo in evidenza dei dettagli o “giocando” coi suoi personaggi. Memorabile poi il finale tragico e macabro. Trovo perciò più centrato e articolato il giudizio di Casiraghi, che afferma:
Lui [Lubitsch] privatizza tutto, anche la Rivoluzione francese. Con la Storia non si confronta, ci gioca. Sa muovere le masse, ma solo coreograficamente, non animandole di passioni; le uniche passioni che contano sono quelle personali. L’intimità dei protagonisti, sbirciata dal buco della serratura, è più importante dei rivolgimenti epocali. (…) C’erano, di sfuggita, la presa della Bastiglia e l’assalto alle Tuileries, ma facevano parte della scenografia come gli arredi delle stanze reali e le parrucche di Pola Negri.[2]
Vittorio Renzi (14 dicembre 2014)
Madame DuBarry
[a.k.a. Passion]
Germania, 1919
regia: Ernst Lubitsch
soggetto: romanzo Memoirs d’un médecin di Alexandre Dumas
sceneggiatura: Hanns Kräly, Fred Orbing
fotografia: Theodor Sparkuhl [e Kurt Waschneck]
montaggio: Elfi Böttrich
scenografia: Karl Machus, Kurt Richter
costumi: Ali Hubert
produzione: Paul Davidson, per Projektions Aktiengesellschaft Union-Film (PAGU)
cast: Pola Negri (Jeanne Vaubernier /Mme DuBarry), Emil Jannings (re Luigi XV), Harry Liedtke (Armand De Foix), Eduard von Winterstein (conte Jean DuBarry), Reinhold Schünzel (ministro Choiseul), Else Berna (contessa Gramont), Fred Immler (Richelieu), Gustav Czimeg (Aiguillon), Karl Platen (Guillaume DuBarry), Magnus Stifter (Don Diego), Bernhard Goetzke (rivoluzionario), Paul Biensfeldt
lunghezza: 11 rulli, 2.493 metri
durata: 113’
première: Berlino, 18 settembre 1919
[1] Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001, p. 97.
[2] Ugo Casiraghi, Allons enfants, in “Panorama”, n. 14-17, 1989, poi in U. Casiraghi (a cura di L. Pellizzari), Storie dell’altro cinema, Torino, Lindau, 2012, pp. 201-202.