Atlantis (Atlantide, 1913)

August Blom

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SINOSSI: Il dottor Friedrich Kammacher soffre per la condizione mentale della moglie, che infatti verrà ricoverata in una clinica. Inoltre, è deluso dal fatto che le sue ricerche scientifiche nel campo della biologia vengano puntualmente respinte. Così si reca a Berlino, dove incontra una ballerina, la mondana e civettuola Ingigerd, che però ha fin troppi corteggiatori. Tuttavia Friedrich decide di seguirla quando la donna s’imbarca sul transatlantico Roland diretto a New York. Sulla nave fa la conoscenza di Arthur Stoss, un artista di varietà privo di braccia, e di una ragazza russa con la quale ha un breve flirt. Di notte, mentre dorme nella sua cabina, Friedrich sogna di naufragare nella mitica città di Atlantide. Durante il suo sogno, la nave inizia realmente ad affondare. Friedrich e Ingigerd sono fra i superstiti. A New York, i due diventano intimi, ma la donna continua a far subire a Friedrich il suo irrinunciabile stuolo di spasimanti. Friedrich, stanco di quella vita, si stabilisce in una baita in alta montagna, di proprietà di un suo amico. Qui viene a sapere che sua moglie è morta e lui stesso si ammala, ma viene raggiunto da una scultrice conosciuta poco tempo prima a New York, Eva Burns, il cui amore lo guarirà: i due tornano insieme in Danimarca.

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Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, il transatlantico RMS Titanic affonda dopo essere entrato in collisione con un iceberg. L’evento, in piena era positivistica e di imprenditoria industriale, ha una risonanza enorme che arriva fino al mondo del cinema, proprio nel periodo in cui il cinema sta muovendo, quasi in tutti i paesi e contemporaneamente, i primi passi verso il lungometraggio. Ma per tenere in sala masse di spettatori sempre più esigenti, oltre alla qualità tecnica ci volevano anche soggetti di facile presa. E’ quindi logico che un evento del genere abbia scatenato una corsa alla produzione di film sull’affondamento del Titanic. La prima a tagliare il traguardo fu la compagnia americana Eclair Film Company, che in fretta e in furia mise in cantiere un cortometraggio di una bobina dal titolo Saved from the Titanic (1912), arruolando nel cast nientedimeno che una fra le sopravvissute al disastro, Dorothy Gibson, che interpretò se stessa. Il film uscì il 14 maggio, ovvero a un mese dalla tragedia. Subito dopo arrivò la compagnia tedesca Continental Kunstfilm: In Nacht und Eis (In Night and Ice, 1912), in tre bobine, per una durata di circa mezzora, fu diretto dal regista di origini rumene Mime Misu e uscì in agosto. E poi altri ancora. La danese Nordisk Film di Ole Olsen, col suo regista di punta, August Blom, arrivò solo in un secondo momento, ma con un film di ben altre ambizioni e caratura: con i suoi otto rulli, per circa due ore di proiezione (il film danese più lungo fino a quel momento, e uno dei più lunghi nel mondo), Atlantis costruisce tutto intorno all’evento un melodramma sentimentale, all’interno del quale la parte riguardante l’affondamento del transatlantico dura sì e no una ventina di minuti, in modo quindi molto simile a quanto faranno i film sul Titanic dell’epoca del sonoro.

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Il 1913, del resto, segna l’avvento dei primi kolossal della storia dei cinema, nonché l’affermazione definitiva del lungometraggio a livello mondiale. Se negli Stati Uniti, ancora per poco, i film contano ancora in prevalenza una, massimo due bobine, in Europa iniziano a diffondersi i primi veri e propri lungometraggi di cinque, otto, nove rulli, in particolare i kolossal storici italiani di Guazzoni e Pastrone e le trasposizioni dei classici della letteratura francese di Capellani. E certo non poteva perdere la corsa la Nordisk Film di Olsen, la maggiore compagnia cinematografica europea dopo la Pathé, nonché la prima al mondo ad “allungare il passo” nell’ambito del metraggio già a partire dal 1910, con i primi film a due e poi a tre bobine. Atlantis ebbe un grande successo e fu salutato ovunque come un film “artistico”, principalmente perché si trattava dell’adattamento del romanzo di uno dei massimi scrittori dell’epoca, Gerhart Hauptmann, premio Nobel per la letteratura nel 1912, lo stesso anno in cui pubblicò Atlantis ispirandosi alla tragedia del Titanic. A dire il vero, rivedendolo oggi, di artistico nel film di Blom non c’è moltissimo, il cinema danese di quegli anni regalava ben altre perle, soprattutto in tema di innovazione del linguaggio filmico:

I film di Blom, in generale, non sono innovativi. E’ indubbio che egli contribuì a creare lo stile nordico, caratterizzato da un uso particolare della luce e da altri effetti fotografici (…). Tuttavia, una volta acquisite certe tecniche di ripresa, egli fece poche concessioni alla sperimentazione. La sua è l’opera di un esperto artigiano, superiore alla produzione media della Nordisk, ma da cui è assente la scintilla del genio.[1]

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Tuttavia, ciò che ancora oggi può essere interessante, è la struttura narrativa a tappe, mediante cui viene presentata una sorta di Odissea del personaggio protagonista, all’interno della quale l’affondamento della nave è solo uno degli episodi. Si parte dalla malattia mentale della moglie, che offre dei momenti di grande naturalismo, realmente drammatici: indimenticabile la scena in cui lei, in evidente stato confusionale, si avvicina al marito, addormentato sul sofà, con un paio di forbici in mano. A Berlino, invece, bisogna subire quello che è, con ogni probabilità, uno dei peggiori numeri di balletto di sempre, sia per la coreografia, pressoché inesistente, sia per l’evidente incapacità dell’attrice Ida Orloff di danzare. Pseudonimo di Ida Siegler von Eberswald, austriaca, nota esclusivamente per un paio di film, la donna ebbe, a quanto pare, una relazione segreta col romanziere Hauptmann.

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Ma la sequenza di Berlino, come quella di New York nella seconda parte, offre anche dei bellissimi momenti di cinema documentario: scene girate dal vero, in esterni, che mostrano con panoramiche, carrellate o camera car, l’aspetto di queste metropoli nei primi Anni Dieci. La sensibilità tipicamente danese per il cinema en plain air, poi, tocca il suo apice nelle splendide scene di mare, con inquadrature in movimento di altre navi viste dal ponte della Roland e il personaggio protagonista ripreso di spalle mentre osserva il mare, o a mo’ di silhouette, in controluce, mentre indica l’orizzonte al capitano. C’è poi un breve, ma interessante excursus di Friedrich negli alloggiamenti di terza classe, assieme alla povera gente accatastata in una sala in cui si beve, si mangia e si fuma. Quando Friedrich, solo nella sua cabina, legge una lettera, scritta probabilmente dalla madre, la sua angoscia e il senso di colpa per aver abbandonato lei e i suoi figli in Danimarca sono comunicati visivamente mediante una sorta di split screen (ottenuto tramite la doppia esposizione) per mezzo del quale, nella porzione destra del quadro, lasciata nel buio, appaiono immagini quotidiane di Friedrich assieme ai suoi familiari. La scena dell’incontro appassionato con una passeggera della nave, una russa, che ha un malore – o lo finge – può sembrare un po’ fine a se stessa, nell’economia del racconto, ma testimonia in effetti il bisogno disperato di quest’uomo, ancora giovane, di amare e di essere amato (non importa da chi, verrebbe da dire), dopo che la lunga malattia della moglie lo ha gettato nello sconforto più totale, al punto da inseguire una ballerina civettuola e in fondo sconosciuta a bordo di un transatlantico per gli Stati Uniti.

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Le scene del sogno di Atlantide e del naufragio risentono in gran parte del peso degli anni. Nel primo caso, si rivela errata la scelta di ambientare la mitica città sommersa fra le vie di una tranquilla e ridente città danese e nella campagna circostante. Rimane interessante l’inquadratura iniziale in semi-soggettiva dell’attracco della barca di Friedrich al pontile della città, sul quale viene issato da alcuni uomini che lì lo attendono. L’intera sequenza viene indicata esplicitamente come sogno e visione tramite lo stratagemma della sovrimpressione della figura di Friedrich dormiente su ciascuna delle immagini che si susseguono. Le sovrimpressioni vengono usate massicciamente anche nella parte finale, quando Friedrich, malato, rivede in un angoscioso dormiveglia tutte le persone importanti della sua vita, oltre ai  fantasmi di alcuni passeggeri e del capitano della nave affondata.

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La lunga sequenza dell’affondamento contiene scene di movimento di corpi e di isteria di massa piuttosto credibili, con gruppi umani che si accalcano sulle scalette del ponte e persone che si tuffano dalla nave in cerca di scampo. Gli effetti speciali non sono certo memorabili, visti oggi, ed è fin troppo semplice rilevare la forte discrepanza tra le scene dal vero con le comparse e quelle del modellino della nave riempita d’acqua. Tuttavia, nel momento in cui la scialuppa di salvataggio di Friedrich si allontana dalla nave Roland già in procinto di affondare, costruita in dimensioni quasi reali, con le persone ancora sopra che si agitano e si tuffano, non è difficile immaginare che le reazioni del pubblico in sala del 1913 debbano essere state simili a quelle degli spettatori del 1997 nelle scene analoghe del Titanic di Cameron. In questa scena, fra l’altro, la macchina da presa è stata fissata alla scialuppa e così l’immagine ondeggia in verticale, seguendo gli ampi movimenti dei rematori (fra cui lo stesso Friedrich) e delle onde del mare. Un’ultima, bellissima immagine, ci mostra Friedrich e Ildegerd finalmente in salvo su un’altra nave, abbracciati, mentre guardano l’orizzonte marino, riempito da un volo di gabbiani che segue la scia della nave.

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L’ultimo terzo del film si ambienta per metà a New York e per metà nella baita in montagna. La parte più interessante di New York è, anche qui, quella documentaria: l’avvistamento dalla nave della Statua della Libertà (che ritroveremo poi in innumerevoli film, a simboleggiare il sogno americano degli emigranti), il porto affollato e poi le vie trafficate, le carrozze, le automobili e i tram, all’interno di uno dei quali la macchina da presa segue il tragitto di Frederick e della sua nuova conoscenza, la scultrice Miss Burns. Lo spettacolo di varietà di Arthur Stoss si pone specularmente al balletto di Indegerd nella prima parte e chiaramente si rivela oggi molto politically incorrect, e il fatto che la triste esibizione di un uomo menomato si ambienti  in un lussuoso teatro anziché in un circo di “mostri”, ne fa semplicemente la versione borghese del classico fenomeno da baraccone.

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La parte finale, oltre che per le sovrimpressioni cui accennavo prima, è da segnalare per gli splendidi paesaggi montani, che fanno da sfondo all’arrivo della slitta col dottore e Miss Burns e, soprattutto, verso la fine, la passeggiata di Friedrich e la sua nuova fiamma, con un lago montano sullo sfondo e poi su un ghiacciaio, scene in cui si rivela una volta di più la capacità dei registi scandinavi, anche fra quelli meno dotati, di rapportarsi agli scenari naturali e di valorizzarli.
Fra gli interpreti di secondo piano troviamo anche l’ungherese Mihály Kertész, il futuro regista di Casablanca (1942), meglio conosciuto col nome americanizzato di Michael Curtiz.

Vittorio Renzi  (13 aprile 2017)

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Atlantis (Atlantide)

Danimarca, 1913

regia: August Blom

soggetto: romanzo omonimo di Gerhart Hauptmann (1912-13)

sceneggiatura: Karl-Ludwig Schröder, Axel Garde

fotografia: Louis Larsen, Johan Ankerstjerne

musica: Robert Israel (1998)

produzione: Ole Olsen, per Nordisk Film Kompagni

lunghezza: 8 rulli, 2280 metri

durata:  121’ / 116′

cast: Olaf Fønss (Friedrich Kammacher), Ida Orloff (Ingigerd Hahlstroem), Ebba Thomsen (Eva Burns), Carl Lauritzen (dott. Schmidt), Frederik Jacobsen (dott. Georg Rasmussen), Charles Unthan (Arthur Stoss, l’uomo senza braccia), Torben Meyer (Willy Snyders), Mihály Kertész [Michael Curtiz] (Hans Fuellenberg)

première: 20 dicembre 1913

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[1] Ron Mottram, August Blom, in P. Cherchi Usai (a cura di), Schiave bianche allo specchio. Le origini del cinema in Scandinavia (1896-1918), Pordenone, Studio Tesi, 1986, p. 149.

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