Eleuterio Rodolfi
Noi opponiamo alla decomposizione della morte la ricomposizione attraverso l’immagine (Régis Debray) [1]
Pensare oggi al cinema delle origini equivale a domandarsi “Perché è importante ricordare?”, riflettendo sull’aspetto memoriale, oltre che temporale, del cinema. Vi sono film dimenticati, ritenuti persi per sempre, film orfani; e anche attori e attrici che non si ricordano più che, pertanto, non sono più oggetto di studio e ricerca. Questo saggio intende focalizzarsi proprio su due tra i personaggi dimenticati del cinema italiano delle origini: Eleuterio Rodolfi e Gigetta Morano, i primi a dar vita alla fine degli anni Dieci ad un nuovo genere italiano, ovvero la commedia.
Rodolfi fu uno dei protagonisti del panorama produttivo torinese degli anni Dieci. Dopo aver bazzicato in numerose compagnie teatrali, tra cui quella di Ermete Novelli, nel 1911 approda nel mondo del cinema stringendo un sodalizio artistico con la Ambrosio Film che durerà fino al 1916-17. Nel 1916 il regista de Gli ultimi giorni di Pompei (1913) inizia a lavorare per la casa di produzione Jupiter Film: qui realizza sette film, di cui è sopravvissuto solo Ah! Le donne!. Nel 1919 fonda la sua casa di produzione, caratterizzata da un linguaggio espressivo innovativo ed originale.

Accanto ai più rinomati (e ricordati) attori comici dei primi anni del cinema italiano, come Robinet (Marcel Fabre), Fricot (Ernesto Vaser) e Cretinetti (André Deed), Gigetta si afferma come prima attrice comica del cinema italiano. Anche lei come Rodolfi, frequenta dapprima la scena teatrale prima e quella cinematografica poi: nel 1908, per intercessione del regista Luigi Maggi [Robinet aviatore (1911), La bambola vivente (1924)], entra a far parte della Ambrosio Film, per la quale interpreterà oltre 100 film. Le verranno affidati altri ruoli importanti nei film di Mario Caserini, del succitato Maggi e soprattutto di Rodolfi, del quale sarà assidua compagna (esclusivamente) di scena.
Tra i film più interessanti che ritraggono la coppia Gigetta-Rodolfi, vi è indubbiamente l’audace La meridiana del convento del 1916. Vaser (Rodolfi) è un pittore che, tramite un sotterfugio, ottiene l’incarico di restaurare degli affreschi dell’Educandato di Santa Ingenua. Liliana, una delle giovani pensionanti, invita Gigetta e la zia per presentare loro il fratello Giorgio. Gigetta e quest’ultimo s’innamorano ma un imprevisto impedisce il loro matrimonio: Vaser scatta una foto osé a Gigetta mentre questa si arrampica su un albero. Da qui, si susseguiranno rocambolesche vicissitudini per recuperare la fotografia e la lastra compromettenti.
Tra negazione dello sguardo e sopravvivenza dell’immagine
Ciò che rende interessante e meritevole di essere ricordato un caso-studio come La meridiana del convento sono soprattutto le riflessioni sull’immagine cinematografica (e sul cinema in generale) concepita come mezzo di sopravvivenza. Nel film di Rodolfi la fotografia e la lastra sono pezzi unici ed irriproducibili[2]. Entrambe vengono distrutte e, dunque, negate allo sguardo dello spettatore, con il quale il film cerca di instaurare un rapporto di continuo coinvolgimento attraverso lo sguardo in macchina degli attori: Gigetta che si lecca le dita dopo aver mangiato una fetta di torta, con lo sguardo fisso verso di noi, o Gigetta che strappa la fotografia facendoci un occhiolino d’intesa.

Ma nonostante la morte dell’immagine fotografica, l’immagine compromettente di Gigetta sopravvive grazie a/nell’immagine cinematografica: un film, allora, in cui la vita e la morte dell’immagine coesistono. «In principio, è l’assenza», scrive lo studioso di cinema Marc Vernet. “Absentem”: propriamente, “che è lontano”, escluso dall’orizzonte percettivo immediato della vista. L’invisibile, insomma, il quale si traduce in immagini che non sono rappresentazione della realtà bensì negazione della stessa ma che, paradossalmente, determina un desiderio maggiorato di visione. Si pensi allora ad un cinema come quello di Antonioni e, in particolare, a L’avventura, in cui le “inquadrature vuote” e il controcampo paesaggistico sono strettamente connessi alla sparizione di Anna (Lea Massari): è proprio l’assenza della donna a spingere Sandro e Claudia a scrutare sempre più intensamente il paesaggio circostante al fine di ritrovarla.
La negazione dello sguardo e la morte dell’immagine da una parte e la sopravvivenza dell’immagine dall’altra, così preponderanti ne La meridiana del convento, sembrano essere metafora del cinema stesso di Eleuterio Rodolfi, che pure ha continuato a vivere fino ai nostri giorni nonostante la dimenticanza e la decadenza: dei 170 titoli stimati in cui egli appariva come attore o di cui veniva riconosciuta la paternità registica, ne sono stati individuati solo 25, di cui tre in forma frammentaria (Il francobollo raro, Cenerentola e Ah! Le donne!)[3].
La meridiana del convento è stato oggetto del restauro del 1997 portato avanti dal Museo Nazionale del Cinema di Torino e supervisionato da Bruno Favro: una copia negativa ed una positiva sono state stampate su una pellicola safety a partire dal negativo nitrato in bianco e nero. L’imprescindibilità del lavoro cinetecario – in lingua maori, cineteca si dice Ngā Kaitiaki o ngā Taonga Whitiāhua e significa “guardiani dei tesori della luce” – e di restauro si rintraccia nella possibilità di riportare alla luce registi ed attrici dimenticati come Gigetta, Rodolfi, ma anche altri nomi come Luca Comerio, Guglielmo Baldassini o collezioni preziose come quella dell’abate svizzero di Josef Joye (indispensabile il lavoro di Davide Turconi).

In esergo ci si chiedeva “Perché è importante ricordare?”. Affidiamoci alle parole di Savinio:
MEMORIA. Noi italiani diciamo «conoscere a memoria» oppure «conoscere a mente». I francesi dicono «Connaître par coeur», gl’inglesi: «To have by heart». Che dedurre? Che l’italiano è più ‘mentale’ del francese e dell’inglese? Piace in ogni modo la forma francese, che la cosa che noi conosciamo a memoria, ossia senza bisogno di strumenti o documenti intermedi, la conosciamo per «mezzo del cuore», ossia l’amiamo; quasi il ricordare sia amare – come infatti è. Anche più preciso in questo senso l’inglese, perché to have by heart letteralmente significa: «Avere nel cuore», cioè a dire che la cosa ricordata noi la custodiamo nell’organo stesso degli affetti.[4]
Martina Mele

La meridiana del convento
[The Sundial of the Convent]
Italia, 1916
regia: Eleuterio Rodolfi
fotografia: Giovanni Vitrotti
produzione: Società Anonima Ambrosio, Torino
cast: Gigetta Morano (signorina Gigetta Morano), Eleuterio Rodolfi (Vaser, il pittore), Liliana (Maria Tonini), Adele Zoppis (suora superiora), Umberto Scalpellini (il giardiniere)
lunghezza: 641 metri (in origine: 794 m)
durata: 32′ a 18 f/s

[1] Régis Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in occidente, Il Castoro, Milano 1999, p. 28.
[2] Ricordiamo che solo a partire dagli anni Venti fu possibile controtipare (da una copia positiva si ricavava un negativo) senza perdere la qualità dell’immagine; prima di allora si partiva dal negativo camera (il negativo che scorreva in macchina al momento delle riprese), operazione che comportava una rapida usura della pellicola e l’impossibilità di recuperare immagini perdute.
[3] Per un maggior approfondimento si rimanda qui: http://www.cinetecadibologna.it/files/festival/CinemaRitrovato/2009/pdf/rodolfi.pdf
[4] Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia, Adelphi, 1977, p. 257.