Lupu Pick
SINOSSI: Una modesta taverna, la notte di San Silvestro, dalle undici di sera a poco dopo mezzanotte. Nel retrobottega, tre persone, il marito, sua madre, sua moglie. Fra i tre i rapporti sono pessimi, per via della gelosia della vecchia madre nei riguardi della giovane moglie. Di fronte, al di là della strada, un grande ristorante/night club, dove una folla elegante celebra l’arrivo del nuovo anno. Dopo che la gelosia della madre è venuta alla luce, con tanto di aggressione fisica nei confronti della giovane nuora, la moglie esige che il figlio allontani la madre. Vedendo l’esitazione dell’uomo, la donna afferra il figlio neonato e se ne va via di casa. Il marito le corre dietro e la riconduce a casa con sé. Tuttavia, dopo aver inutilmente implorato la madre di andarsene, l’uomo non sa far altro che abbandonare il capo sulle sue ginocchia, mentre lei lo accarezza come un bambino. Le due donne ricominciano a lottare fra loro per il possesso dell’uomo. Allo scoccare della mezzanotte, questi si chiude a chiave nella camera da letto e si spara. Le due donne si disperano. Alcuni clienti della taverna entrano nell’abitazione continuando a festeggiare, ignari dell’accaduto e, dopo aver aperto la porta della camera, s’imbattono nel cadavere dell’uomo, proprio mentre l’orologio della pendola segna la mezzanotte del nuovo anno. Mentre per le strade i festeggiamenti piano piano scemano, giunge un carro funebre e il cadavere dell’uomo viene portato via.
In Sylvester il tempo viene a costituire il tema centrale e l’ambientazione della vicenda nelle ultime ore dell’anno diventa in tal modo pregnante e simbolica: qualcosa sta per far parte del passato, qualcosa di nuovo sta per arrivare. Non solo: il tempo si articola anche nei termini della diversa età delle due protagoniste femminili, tematizzando così la lotta tra il vecchio (il passato) e il nuovo (il presente). Un conflitto inizialmente latente, espresso in un lasso di tempo intermedio, crepuscolare: le ore che precedono la mezzanotte del nuovo anno. Da una parte, la donna ormai anziana, legata al passato e al suo ruolo di madre, che non ha mai tagliato il cordone ombelicale fra lei e il figlio. Dall’altra, la moglie, pienamente calata nel momento presente, pronta ad abbracciare il futuro, il cui intuito avverte sin da subito la minaccia costituita dalla presenza della suocera a tutto ciò che il presente-futuro rappresenta per lei e il marito: la loro giovinezza, la loro attività (la taverna adiacente all’appartamento), il figlio neonato nella carrozzina. La madre di lui incombe su questa felicità coniugale sin dall’inizio, quando la sua sagoma scura e immobile si proietta dietro il vetro congelato di una finestra: un’immagine figurativamente molto forte che rimanda chiaramente al Nosferatu (1921) di Murnau. Nelle scene successive, soprattutto a partire dal terzo atto, la vecchia, sempre più gelosa della nuora, sembra spiarne i movimenti, con un atteggiamento sibillino e predatorio, in attesa del momento giusto per colpire. Il culmine di questa tensione avviene quando la suocera si avvicina al volto della giovane, che per la stanchezza si è addormentata sul divano, e quest’ultima all’improvviso apre gli occhi e si rende improvvisamente conto, con sgomento, di tutto l’odio che la madre di suo marito nutre nei suoi confronti.
La didascalia iniziale, che cita un passo dall’episodio biblico della Torre di Babele («Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro») sembra rafforzare questo contrasto e incomunicabilità fra le due donne. E, in maniera assai più debole, la netta divisione fra i ricchi e i poveri che popolano i rispettivi locali e affollano le strade della città in festa per la vigilia di capodanno: più volte nel corso del film tornano, una di seguito all’altra, per contrasto, le scene che ritraggono la clientela popolare e chiassosa della taverna semibuia e fumosa (cui si aggiungono le figure dei poveri venditori ambulanti sui marciapiedi) e quelle ambientate invece nella sala ben illuminata, elegante e ricca del ristorante/night club. E’ un accenno, forse qui un po’ gratuito, a quei tentativi d’indagine sociale sui quali si basa in buona parte l’istanza naturalistica dei Kammerspielfilm, assai più sviluppati in film come Die freudlose Gasse (La via senza gioia, 1925), di G.W. Pabst. Tuttavia bisogna tenere presente che Sylvester, in quanto titelloserfilm (film senza didascalie), rinuncia del tutto agli intertitoli nel corso di tutto il film, e non può dunque che alludere soltanto, tramite l’accostamento delle immagini, a temi complessi come quelli delle profonde differenze sociali nella Germania di Weimar.
Il movimento del tempo s’intreccia e si confonde dunque con il sommovimento interno delle coscienze e delle emozioni dei tre personaggi, dando luogo a una tensione insopportabile fra due realtà antitetiche e impossibilitate a coesistere. Questa tensione porterà infine alla deflagrazione finale: da una parte, quella esteriore dei fuochi d’artificio e dei festeggiamenti; dall’altra, la dissoluzione di una famiglia, con il suicidio dell’uomo, trovatosi nel mezzo e incapace di fare una scelta fra le due donne (e i due tempi) della sua vita. E questo stesso movimento o incombere del tempo si riverbera e si accresce nelle reiterate inquadrature degli orologi, dell’agitarsi schiumoso delle onde del mare e nel movimento errabondo della macchina da presa che fruga le vie della città mediante lunghi piani sequenza, sperimentati qui per la prima volta in una funzione completamente diversa da quella finora mostrataci dal cinema americano: per la prima volta, infatti, la mdp sembra muoversi autonomamente e indipendentemente dall’azione dei personaggi.
Per certi versi, il film appare diviso in due: le riprese in esterni (realizzate da Guido Seeber) delle strade della città abbondano di movimenti di macchina, come il lungo piano sequenza iniziale, di diversi minuti (e quello ancora più lungo delle scene finali), che mischia lente panoramiche e carrellate, senza giustificarle mediante un punto di vista o sguardo soggettivo. Sono movimenti autonomi, esplorativi che sembrano rispecchiare o imitare il movimento brulicante della città, quasi fossero le riprese di un documentario. Una di queste carrellate si sofferma per diversi secondi sulla porta girevole del lussuoso ristorante/night club antistante alla taverna: lì accanto, un portiere in livrea continua a girare la porta per i clienti che entrano, un’evidente anticipazione dell’idea alla base di Der Letzte Mann (L’ultima risata, 1924), che Mayer scriverà pochi mesi dopo.
L’altro operatore, Karl Hasselmann, si occupa invece delle riprese in interni, che riguardano principalmente l’abitazione della coppia protagonista. Qui la cinepresa è spesso fissa, la distanza dei personaggi è prevalentemente quella del campo medio, anche non mancano i primi piani nei momenti chiave. Il lavoro si concentra sulla recitazione. Sia in esterni che in interni, l’illuminazione gioca un ruolo fondamentale, rendendo non solo suggestivo ma anche funzionale il famoso chiaroscuro che i cineasti tedeschi avevano desunto dal cinema danese degli anni Dieci, e che il regista Lupu Pick definisce: «L’eterno scambio di luce e ombra nelle relazioni spirituali fra gli individui»[1].
Nella lunga sequenza d’apertura, subito dopo una prima inquadratura del mare (su cui poi mi soffermerò), vediamo una serie di passanti che camminano per una strada buia, di sera, e le loro silhouette si stagliano nel chiarore dei vetri congelati delle finestre e delle porte dei locali. Un primo movimento all’indietro della mdp si sposta poi dal marciapiede al centro della strada, dove appaiono le insegne elettriche dei locali. Nella sala da pranzo dell’appartamento, le fonti di luce sono costituiti dalla lampada che pende sul tavolo e dal chiarore proveniente oltre i vetri ghiacciati delle finestre, ma la quantità di illuminazione erogata, così come la ripartizione delle zone di luce e ombra, sono variabili e dettate unicamente dagli stati d’animo dei personaggi; e poi i vetri opachi o traslucidi di pioggia, in cui si proiettano le silhouette dei passanti o dei clienti dei locali. Il montaggio tiene conto anche delle fonti sonore, collegando fra loro gli ambienti: ecco dunque che alcuni stacchi ci mostrano i personaggi principali che guardano fuori campo, in direzione del chiasso proveniente dalla taverna, oltre il retrobottega, da cui provengono l’allegro suono del pianoforte e il vocio ininterrotto dei clienti che bevono e fumano.
Alcune inquadrature giungono invece come una momentanea battuta d’arresto, come la rappresentazione di un mondo altro e costituiscono in apparenza un presa di distanza dalle vicende umane. Esse introducono quello che Mayer chiamava Umwelt, l’ambiente: un ambiente deprivato dell’elemento umano, ovvero di ciò che normalmente gli conferisce un senso e ripresentato nella sua piena autonomia, che prescinde da uno sguardo umano (esattamente come i suddetti movimenti di macchina per la strada). L’ambiente smette di essere un semplice sottofondo alle vicende umane e ne diventa il controcanto, ne sottolinea i limiti, la relatività: così la “natura morta” del mare, senza rive né confini, un movimento continuo e indifferente, autonomo, ma che genera una sensazione ora di ansia, ora di solitudine o di inutilità. Ed è in tal modo che «l’Umwelt partecipa “sinfonicamente” all’azione»[2].
Nella versione completa del film vi erano altre di queste immagini di Umwelt: una foresta, un cimitero (descritto anche fra gli ambienti in una didascalia introduttiva), e alcune riprese del cielo. Evidentemente, come succedeva spesso, qualche distributore deve aver deciso che si trattava di inquadrature sacrificabili perché non necessarie all’azione principale e così le ha fatte tagliare.
Man mano che il film procede, appare sempre più chiaro come il suddetto contrasto tra scene in esterni e quelle in interni sia voluto. E così, mentre ci si avvicina alla mezzanotte e la festa della vigilia di capodanno esplode nei locali e per le strade, questa frenesia di persone, automobili e porte di locali che si aprono e si richiudono contrasta sempre di più con la disperazione e la tragedia che attanagliano la vicenda privata della famiglia. Il movimento allegro e insensato dell’esterno (incluso quello dei clienti della taverna) stride sempre più con quello forsennato che avviene all’interno, nei momenti di lotta fra le due donne, nei gesti di disperazione dell’uomo, nell’andirivieni invasato della vecchia madre che afferra la carrozzina e la fa girare per la stanza per poi lasciarla andare contro una parete (quasi due anni dopo, Ejzenštejn ne farà un uso ancora più drammatico nella celebre scena della scalinata di Odessa in Bronenosets Potyomkin [La corazzata Potemkin], 1925).
Il contrasto fra questi due movimenti, esterno e interno, diventa insostenibile quando un gruppo dei clienti della taverna si stacca dalla massa, con i suoi lazzi, le sue stelle filanti e le sue maschere che deformano le fisionomie (un guanto che rende gigantesca una mano, un grosso naso finto, etc.) per irrompere nello spazio privato della famiglia, a tragedia oramai consumata, anche se non ancora mostrata (abbiamo intuito che l’uomo si è sparato, oltre la porta della camera da letto, dall’improvviso immobilizzarsi delle due donne che si guardano l’un l’altra inorridite). Questi clienti, ubriachi, iniziano a suonare le trombette e a lanciare stelle filanti addosso alle due donne esauste, come imbambolate e prive ormai di volontà.
Mayer e Pick ricorrono al simbolismo degli oggetti al fine di suggerire i significati sottesi alle vicende umane e psichiche. Kracauer sottolinea l’importanza della sveglia sia in Hintertreppe (La scala di servizio, 1921), di Leopold Jessner e Paul Leni, sia in Scherben (Shattered, 1921), di Lupu Pick, nonché i vetri infranti, sempre in Scherben[3]; in Der Letzte Mann, la livrea luccicante e la già citata porta girevole: «Conquistando allo schermo il regno degli oggetti egli [Mayer] ne ha arricchito per sempre il vocabolario visivo, conquista che, insieme all’esperimento di abolire le didascalie, aprì la strada a una narrativa schiettamente cinematografica»[4].
In Sylvester, le frequenti riprese del quadrante di un orologio o di una pendola, a furia di sottolineare l’ora dei festeggiamenti, finiscono per sganciarsi dal piano dell’azione, proprio come i binari senza treno di Scherben, per significare l’inesorabilità, la vacuità, il senso di disfacimento e di morte portati dallo scorrere del tempo. Ma ci sono anche i primi piani di un cavallo, il capo chino e rassegnato agli eventi, alieno all’atmosfera festante che lo circonda. Un simbolismo a tratti esasperato che a volte ricorda l’espressionismo, così come il fatto che i personaggi non abbiano un nome, o la recitazione molto fisica di Eugen Klöpfer, il cui corpo alto e massiccio cammina ondeggiando a mo’ di automa o si piega in pose non proprio naturalistiche.
Ancora più che in Scherben, dunque, Mayer e Lupu Pick mirano a liberare tutte le potenzialità del linguaggio cinematografico, in modo che possa, con le sue sole forze, arrivare a costruire il senso del film. E non è quindi un caso che aspetti formali e stilistici come l’illuminazione o, soprattutto, i movimenti di macchina, divengano sempre più centrali nello svolgere questo compito. Indicazioni per le carrellate e le panoramiche sono presenti già nella sceneggiatura di Mayer, il quale dichiarò:
La centralità dell’orologio della città nel film New Year’s Eve, per il quale la mezzanotte rappresenta la raison d’être di tutti i festeggiamenti, necessitava dell’invenzione della cinepresa mobile: l’orologio doveva essere enfatizzato – doveva essere il film, il punto centrale attorno al quale girava tutta l’azione.Per questo era necesario che la cinepresa fosse mobile, capace di muoversi a comando, fluidamente, senza fatica.[5]
Mayer aveva perciò un’idea già molto chiara di cosa voleva ottenere e Lupu Pick ne colse chiaramente la portata e lo scopo, come si evince constatazioni come questa:
I nuovi movimenti di macchina sono ricchi di significato e inseparabili dalla sceneggiatura. Essendo il film, essenzialmente, immagine in movimento, i suggerimenti dell’autore sono tali che l’azione appare immersa nell’Umwelt come un’isola in mezzo al mare.[6]
Al tempo stesso, tuttavia, Pick non seppe mettere in pratica tali indicazioni in modo deciso e dirompente, sicché quelle idee rimasero ancora in uno stato indeciso di sperimentazione, cosa che nel film si avverte chiaramente. Secondo Rudolf Kurtz, il motivo per cui il film appare in parte irrisolto è dovuto all’incapacità del regista di sganciarsi dalle forme del canonico dramma psicologico, in modo da abbracciare appieno un tipo di narrazione davvero sperimentale: «Un poeta espressionista e un regista psicologico, per quanto raffinato, non riusciranno a mettersi d’accordo senza un compromesso»[7].
Di conseguenza, se Sylvester è senza dubbio un tassello importante, una sorta di prova generale di quello che stava per accadere nel cinema tedesco e mondiale, sarà soltanto con il sodalizio fra Mayer, Murnau e l’operatore Karl Freund che si compirà la volta decisiva, di lì a pochi mesi, con l’ideazione della entfesselte kamera (cinepresa scatenata) messa a punto sul set di Der Letzte Mann, il cui uso pionieristico sarà tutto improntato all’esplorazione dell’interiorità dell’uomo, alla soggettività del suo sguardo. L’Umwelt non serve più: a interessare qui sarà il complesso e contorto paesaggio dell’animo umano.
Vittorio Renzi (11 febbraio 2018)
Sylvester. Tragödie einer Nacht (New Year’s Eve)
[A.K.A. Sylvesterabend]
Germania, 1924
regia: Lupu Pick
soggetto e sceneggiatura: Carl Mayer
fotografia: Karl Hasselmann, Guido Seeber
montaggio: Luise Heilborn-Körbitz
musica: Klaus Pringsheim
scenografia: Robert A. Dietrich, su idee Klaus Richter
produzione: Lupu Pick, per Rex Film
cast: Eugen Klöpfer (il marito, Edith Posca (la moglie), Frieda Richard
(la madre), Karl Harbacher, Julius E. Hermann, Rudolf Blümner
durata: 66’
première: 3 gennaio 1924
[1] Rudolf Kurtz, Expressionism and Film [Berlino, 1926], Herts, John Libbey Publishing, 2016 , p. 124 (traduzione mia).
[2] Lotte H. Eisner, L’écran démoniaque, Paris, Le Terrain vague, 1965 [precedentemente: André Bonne, 1952], p. 127 (traduzione mia).
[3] Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001, p. 153.
[4] Ivi, p. 154.
[5] Frances Guerin, A Culture of Light. Cinema and Technology in 1920s Germany, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2005, p.217.
[6] Lupu Pick, nella prefazione alla sceneggiatura Sylvester, in L.H. Eisner, op. cit., p. 192.
[7] R. Kurtz, op.cit., p. 124.