Sumerki zhenskoi dushi (Twilight of a Woman’s Soul, 1913)

Evgenij Bauer

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SINOSSI: Vera, figlia della contessa Dubovskaia, presidentessa della Società Filantropica, è annoiata dalla vita mondana, fatta di feste e balli. E’ invece felice di accompagnare la madre a visitare i poveri. Lì si trova a curare la mano di Maxim Petrov. Questi, colpito dalla sua bellezza, una notte si arrampica fino alla finestra di lei, entra e le lascia una lettera nella camera, poi si avvicina al letto dove Vera sta dormendo ma, temendo di svegliarla, se ne va. Nella lettera ha scritto, mentendo, che la sua mano è peggiorata. Il giorno dopo Vera si reca a casa di Maxim, ma stavolta è da sola e lui la stupra. Non appena l’uomo si addormenta, lei lo uccide. A Vera viene presentato il principe Sergei Dol’skii. Un mese dopo, il principe le dichiara il suo amore, ma Vera, ancora traumatizzata, vede in lui il volto di Maxim e indietreggia inorridita. Ma in seguito alle insistenze del principe, lei accetta di sposarlo. Soltanto il giorno dopo il loro matrimonio, Vera riesce a rivelargli il suo segreto. Lui rimane sconvolto e la respinge. Vera se ne va. E’ passato un anno e Dol’skii ancora pensa a lei, che se n’è andata all’estero ed è diventata una famosa attrice con il nome d’arte di Ellen Kay. L’uomo parte, deciso a ritrovarla, ma, dopo due anni di ricerche infruttuose, torna in Russia. Una sera si reca all’Opera con un amico per vedere “La Traviata” e riconosce la sua amata sul palcoscenico. La raggiunge nel camerino, ma ormai lei non lo ama più. Tornato a casa, il principe si spara al cuore.

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Nel 1913, se il cinema in alcuni paesi ha già raggiunto la “maggiore età”, in Russia ha solo cinque anni, ha saltato a pie’ pari la prima fase degli inseguimenti e delle attrazioni ed è nato già sul modello recente del film d’art con cui la Pathé Frères sta mettendo in atto già da qualche anno la sua strategia di “nobilitazione” del cinema, tramite adattamenti dal teatro o dalla letteratura, al fine di attirare e conquistare il pubblico colto e borghese. La Pathé ha aperto sedi in tutta Europa e in America, e anche in Russia, dapprima per vendere le proprie apparecchiature, poi utilizzandole come filiali della casa madre.

Ed è alla Pathé Frères di Mosca che nel 1912 Evgenij Francevič Bauer (1865-1917), scenografo di teatro e attore occasionale, inizia la sua carriera nel mondo del cinema. Sue sono le scenografie per la grande produzione del pioniere del cinema russo Aleksandr O. Drankov che, in rivalità con l’altro grande produttore, Aleksandr A. Chanžonkov, mette in cantiere la sua versione del film sui Romanov in occasione del trecentesimo anno della dinastia (Trëchsotletie carstvovanija doma Romanovych, 1913). L’anno seguente, Bauer esordisce con Sumerki zhenskoi dushi. Sin dai suoi primi film, il regista moscovita viene annoverato da diversi critici russi non solo fra i maggiori registi del Paese, insieme a Pëtr Čhardynin, Jakov Protazanov e pochi altri, ma elogiato come il migliore fra loro. Successivamente, gli storici sovietici condanneranno il suo cinema bollandolo come borghese e decadente.

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Durante la sua breve vita, Evgenij Bauer gira 82 film in meno di cinque anni, di cui ne restano oggi solo 26 ed è significativo che sia morto (di polmonite) nel giugno del 1917, proprio all’alba della Rivoluzione, segnando così, di lì a pochi anni, la fine del “cinema borghese”. Di questi 26 film, la metà furono presentati per la prima volta all’ottava edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. Un entusiasta Ugo Casiraghi scrisse alcuni articoli su Bauer definendolo «un Visconti degli anni Dieci»[1]:

Il “satanismo” di Bauer, le sue ossessioni personali, diventano per incanto le forme stesse della rappresentazione di un mondo che muore sotto i nostri occhi. In quasi tutti i tredici film (…) si sente una Russia che non sa più dove andare e si direbbe che esige la rivoluzione quale ultima speranza. Non è poco per un cineasta definito “decadente”, ed è stupefacente e tragico che i suoi eredi rivoluzionari abbiano rotto tutti i ponti con un simile “padre”.[2]

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In questo suo primo film, Bauer si fa già notare per alcune peculiarità, alcune delle quali già sintomatiche, o lo diventeranno presto, dello stile del cinema presovietico: l’estrema cura per il décor, elegante e al tempo stesso carico di oggetti e simbolismi; la recitazione naturale e le «pause cechoviane»[3]; e poi ancora il chiaroscuro e i controluce (ripresi principalmente dal cinema danese), le carrellate, i primi piani, un uso degli spazi che favorisce la profondità di campo, le particolari angolazioni di ripresa. Infine, il découpage, seppure strutturato su lunghe inquadrature, come era d’uso nel cinema russo di quegli anni, osa improvvise ellissi o flashback. Insomma, non vi è quasi più traccia di ciò che si è soliti appellare “cinema primitivo”, che si usa racchiudere nel periodo tra il 1895 e il 1915. E’ evidente che Evgenij Bauer, al pari del Griffith dei suoi one-reel migliori per la Biograph, di Capellani in Francia o di registi come Holger-Madsen, Urban Gad e Christensen in Danimarca, si trova già sulla direttrice del cinema prossimo a venire e che sta pian piano costruendo il suo linguaggio definitivo.

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Il primo segno evidente di un distacco dal cinema delle origini è l’abbandono dei fondali disegnati e dipinti, compresi gli oggetti e le tappezzerie degli interni. Le scenografie di Bauer sono improntate non solo al realismo, ma anche al simbolismo e soprattutto all’estetismo e al gusto del bello dell’Art Nouveau. Gli interni che circondano, racchiudono e a volte imprigionano le protagoniste dei suoi film sono sempre gremiti di tende, veli, specchi, vasi di fiori, oggetti per la cura personale, etc. e non di rado ne esprimono gli stati d’animo. In una delle scene finali, mentre Vera, seduta nel suo camerino del teatro, sogna ancora il suo amore perduto davanti a una foto ritratto (ci torneremo più avanti), il suddetto camerino ci appare non solo guarnito di fiori, come si conviene a un’attrice di successo, ma la stessa tappezzeria e le federe dei cuscini sono percorse da un’infinità di motivi floreali che non fanno che riverberare quell’istante quasi di rêverie e struggimento amoroso che la donna vuole ancora concedersi o che non sa evitarsi.

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Nella sua prima apparizione, Vera è seduta sul letto, circondata da tende bianche velate. Quando un cameriere viene a chiamarla, la figura di lui si staglia nera in primo piano contro tutto quel biancore. Vera si alza e avanza lentamente verso la mdp, uscendo dalla zona di luce che rimane alle sue spalle e diventando in quel momento una silhouette lei stessa; sulla destra, le tende scure della finestra contribuiscono all’effetto di chiaroscuro di questa immagine elegante, malinconica e suggestiva. Quando scosta le pesanti tende scure, di nuovo il suo viso viene illuminato dalla luce che viene da fuori. Simili usi del chiaroscuro e dei controluce ricorreranno in molte scene d’interni, lungo tutto il film, come ad esempio in quella in cui Vera, alla vigilia del matrimonio con il principe, tenta più volte di scrivergli una lettera e infine, dopo che la sua governante non è riuscita a consegnarla, decide di bruciarla. O, verso la fine del film, sul palcoscenico del teatro, quando la donna, oramai attrice affermata, compare da dietro il sipario, una macchia di luce su cui si stagliano, in primo piano, le silhouette degli spettatori plaudenti.

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Ma ciò che sorprende, a livello stilistico, è quell’unica, breve carrellata poco dopo l’inizio del film: durante un ricevimento, Vera, annoiata, è seduta in primo piano, dopo essersi concessa per un ballo e aver rifiutato gli inviti successivi. Sullo sfondo, dietro ai vasi di piante, s’intravedono gli invitati che si muovono per la sala. Vera si alza, si volta dando le spalle alla mdp e cammina per un breve tratto verso le piante, tragitto lungo il quale viene seguita con una breve e lenta carrellata. Infine si risiede, di nuovo avvolta nella sua noia o malinconia. Si tratta di un movimento di macchina che in seguito Bauer userà più a lungo e più spesso, ma che è comunque una rarità nel cinema europeo del 1913, soprattutto usato in questo modo, e cioè in profondità (brevi carrellate, per lo più orizzontali, si ritrovano già nei film di Capellani di diversi anni prima, nonché in quelli di alcuni registi danesi): in quel momento si respira un’inattesa aria di cinema moderno ed è come se all’improvviso la distanza fra noi e la donna fosse drasticamente abbreviata e potessimo seguirla, magari provare a consolarla. Bauer ci regala un breve ma intenso momento di intimità con la protagonista.

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Il passaggio dal mondo aristocratico a quello della compagine più povera del popolo non potrebbe esser più netto e non solo da un punto di vista esteriore. Laddove gli aristocratici vivono in splendidi palazzi e mostrano comportamenti nobili e finanche filantropi, nel caso di Vera e sua madre, il manicheismo di Bauer, sia pure per ragioni di pura aderenza alle convenzioni del melodramma che non prevedono mezzi termini, fa sì che i poveri siano ritratti alla stregua di animali: vivono in edifici abbandonati, giocano d’azzardo, sono furbi, profittatori e maliziosi (nulla a che vedere col popolo fieramente rappresentato di lì a dieci anni dai registi sovietici!). Animali infidi e feroci, nel caso dell’apprendista Maxim Petrov, al quale Vera cura una mano e che poi si approfitterà di lei. Con le sue smorfie e la sua disgustosa trivialità, Maxim è un villain senza sfumature, che funge da motore degli eventi che segneranno non tanto, per una volta, il destino di una donna, quanto dell’uomo che la ama.

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Poco prima dell’apparizione di Maxim, nella stanza semibuia dei giocatori, c’è un’inquadratura molto originale: la finestra di quello che ora scopriamo essere un seminterrato, attraverso la quale si vedono le gambe di diversi passanti che solcano orizzontalmente lo spazio superiore del quadro, un po’ come accadrà in un’analoga inquadratura di Bianca (1984), di Nanni Moretti, quando Michele si mette a dissertare sui diversi tipi di scarpe. La visita ai poveri ha segnato profondamente l’altruista e un po’ ingenua Vera, che quella notte, mentre sta dormendo, rivede i loro volti in sogno. La scena del sogno è virata in blu e il letto di Vera è circondato dalle figure in sovrimpressione di quella povera gente che la supplica e la tormenta, che chiede, a mani protese, e fra loro anche Maxim. La giovane si sveglia di soprassalto e uno specchio sul fondo rimanda l’immagine di Vera di spalle, i lunghi capelli neri sciolti.

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Quando Vera, dopo aver trovato la lettera di Maxim, si reca di nuovo in quel vecchio edificio, lui la sta aspettando e la spia guardando dalla finestra. Segue un’inquadratura dall’alto, angolata: in teoria si tratterebbe una “soggettiva” di Maxim, ma, a meno che non si tratti di un errore di montaggio, di fatto non lo è, perché abbiamo visto subito prima l’uomo ritirarsi dalla finestra per preparare la messinscena in cui si fa trovare bisognoso di cure da Vera. Dunque è come se noi spettatori fossimo rimasti lì, alla finestra, a spiare la ragazza al suo posto. Non appena Vera si china su di lui per soccorrerlo, Maxim la agguanta. La violenza avviene per ellissi (è contrassegnata da una laconica didascalia che recita semplicemente “fato”), a differenza di quanto si vede in certi coevi film danesi, come ad esempio nelle scene più torride ed esplicite di Afgrunden (L’abisso, 1910), di Urban Gad. Subito dopo, Vera si rialza e si ricompone. Come nella storia di Giuditta e Oloferne, non appena lui si addormenta, lei lo uccide con quella che sembra essere una cazzuola, trovata lì sul posto. Anche l’omicidio avviene per ellissi: dal braccio alzato e armato di Vera, inginocchiata alle spalle del suo aggressore che si è addormentato, uno stacco di montaggio ci mostra la ragazza che, barcollando, sfinita, scende le scale all’esterno dell’edificio. A sottolineare la centralità dello sguardo nel cinema di Bauer, interviene, verso la fine del film, la scena in teatro, durante l’ultimo atto della Traviata, quando Dol’skii, avendo creduto di riconoscere nella primattrice la donna che ama, afferra il binocolo dell’amico per averne conferma: l’inquadratura successiva mostra, stavolta in una vera e propria soggettiva, l’immagine ravvicinata di Vera e del suo partner sul palcoscenico, tramite un mascherino a forma di binocolo.

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Bauer approfitta nuovamente dei trucchi offerti dal montaggio, durante l’incontro amoroso fra Vera e il principe, per sostituire alla figura del nobile quella di Maxim, che provoca l’improvviso terrore della giovane che subito si ritrae. Un modo semplice ma efficace per sottolineare il profondo trauma subito dalla donna. Poco dopo invece fa uso di un rapido e improvviso flashback che ci mostra nuovamente gli attimi successivi alla violenza subita da Vera, nel momento in cui la donna racconta il tragico episodio al novello marito. La fiducia che Bauer (che, come ho già detto, proviene dal teatro) ripone nei suoi attori si evince anche dal fatto che le didascalie sono ridotte al minimo. Nella scena appena citata, subito dopo il matrimonio, Vera e Dol’skii si ritrovano in un salotto nella tenuta di lui, e finalmente lei lo costringe ad ascoltarla. Dopo il flashback, Dol’skii appare sconvolto. Per diversi minuti, i due  si scambiano delle battute, lei inizialmente è ferma, seduta in primo piano, si tormenta, poi gli si avvicina, cercando comprensione e contatto, ma l’uomo rimane stolidamente a distanza, lei si tormenta ancora. Dol’skii cammina nervosamente avanti e indietro o a destra e sinistra, come su un palcoscenico. Non sappiamo cosa i due si stiano dicendo, ma possiamo indovinarlo leggendo le mutevoli espressioni sui loro volti. Poi Vera si alza. E’ improvvisamente fredda. I suoi movimenti, da concitati che erano, diventano calmi e calcolati. Rimettendosi lentamente il cappello in testa, dice: «Ho pietà di voi, principe». Si scambiano ancora qualche frase non riportata dalle didascalie, poi lei indossa la sua pelliccia e suona il campanello per chiamare la cameriera. Infine rivolge all’uomo un sorriso amaro e deluso, ma soprattutto di disprezzo per la sua poca comprensione, ed esce da quella casa che non è mai stata  sua. Vediamo ora quel meraviglioso palazzo dall’esterno, in campo lungo: bardato di colonnine, portici e scale e circondato da alberi, tanto bello quanto vuoto e senza cuore. Dol’skii, in parte già pentito, guarda dalla finestra la sua sposa allontanarsi, senza trovare il coraggio di fermarla.

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Alla fine di questa storia, è interessante notare un particolare: è vero che la protagonista, sopravvissuta dapprima a una violenza e poi a una delusione forse ancora più devastante, è riuscita comunque a rifarsi una vita, al contrario di Dol’skii che giunge a togliersi la vita. Ora Vera è per tutti l’attrice straniera Ellen Kay. E quando l’ex-marito, dopo averla riconosciuta dagli spalti del teatro, la raggiunge nel camerino, la donna lo respinge con freddezza dicendogli: «E’ troppo tardi, principe. Un tempo ti ho amato, ora il mio amore è svanito». Ma subito prima dell’arrivo di Dol’skii, nella solitudine di quel luogo privato, Vera/Ellen sta baciando e contemplando malinconicamente una foto ritratto, presumibilmente donatale da Dol’skii, che tiene appesa al collo. Dunque la donna non può più amare l’uomo, ma continua ad amarne l’effigie, per quello che ha significato per lei. Ama l’amore che avrebbe voluto vivere insieme a lui ma che non ha mai potuto. Ne ama, forse, l’impossibilità. Annientato dalla risposta definitiva di Vera, il principe lascia il camerino. Quando apre la porta una luce invade il suo volto, ma non è una luce salvifica. E’ come se andasse incontro, con lucida consapevolezza, al suo destino di morte, come se decidesse in quell’istante di suicidarsi. Questa dicotomia fra vita vissuta e vita sognata, che si accompagna alla tematica tipicamente romantico/decadente di vita (amore) e morte, tornerà sistematicamente, spesso con altrettanta eleganza e originalità, nelle opere di Evgenij Bauer.

Vittorio Renzi  (11 gennaio 2018)

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Sumerki zhenskoi dushi | Сумерки женской души (Twilight of a Woman’s Soul)

[t.l.: Crepuscolo dell’anima di una donna]

Russia, 1913

regia e scenografia: Evgenij Bauer

fotografia: Nikolai Kozlovsky

musica: Laura Rossi [2002]

produzione: Aleksandr Khanzhonkov, per Pathé Frères.

cast: Nina Chernova (Vera Dubovskaja), A. Ugrjumov (principe Dolskij),
V. Demert (Maksim Petrov), Vitali Brianski

durata: 48′

data di uscita: 26 novembre 1913

Evgenij Bauer

Evgenij Bauer


[1] Ugo Casiraghi, Melodrammi al tempo dello zar, in Storie dell’altro cinema, Torino, Lindau, 2012, p. 96.
[2] Ivi, p. 98.
[3] “[…] “pause” cechoviane (definite inizialmente come “scuola della recitazione frenata” e poi semplicemente come “stile russo”), concepite originariamente  come il corrispettivo cinematografico del metodo usato da Stanislavskij sulla scena teatrale. Questa tecnica di recitazione si evolve presto in quella particolare atmosfera malinconica che pervade soprattutto  film  girati da Evgenij Bauer per gli studi Chanžonkov.” (Yuri Tsivian, Cinema russo prerivoluzionario, 1908-19, in G.P. Brunetta, Storia del cinema mondiale III. L’Europa. Le cinematografie nazionali, Torino, Einaudi, 2000, tomo primo, p. 191.)

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