Abel Gance
SINOSSI: Una bella donna, Marthe, è annoiata dal marito, Gilles Berliac, pediatra rinomato, costantemente occupato con i suoi pazienti. Così scrive una lettera al suo giovane cognato e scrittore di talento, Claude, proponendogli di fuggire insieme. Ma Claude rifiuta. Marthe allora minaccia di suicidarsi davanti a lui con una pistola; Claude tenta di disarmarla e parte un colpo che lo ferisce gravemente. Il giovane, prima di morire, riesce scrivere una breve lettera in cui dichiara di volersi uccidere, in modo da scagionare Marthe. Passano tre anni e Marthe ha avuto un bambino, Pierre. Ma all’improvviso giunge la notizia che un individuo senza scrupoli, Jean Dormis, ha trovato in un libro del defunto Claude una lettera compromettente scritta da Marthe e così la ricatta. La lettera cade nelle mani del dottor Berliac, il quale, senza sapere chi sia l’amante della moglie, inizia a sospettare che il bambino non sia suo. Nella sua gelosia rabbiosa, porta via il bambino in una casa di periferia di Parigi e lo tiene nascosto a sua madre: lei non potrà più vederlo fin quando non confesserà il nome del suo amante. Ma un giorno il piccolo Pierre si ammala. Nonostante le suppliche della moglie, Emile non le rivela nulla sullo stato di salute del figlio. Ma alla fine, commosso dal grande dolore di Marthe, Gilles la perdona e la conduce dal figlio, oramai perfettamente guarito.
Mater dolorosa è uno dei primi lungometraggi di Gance, e quello con cui riscontrò il primo grande successo. E’ anche uno dei primi e più importanti esempi di melodramma d’autore francese, ovvero di quel particolare crocevia fra quello che era uno dei generi più popolari e convenzionali, al cinema come a teatro, e le più avanzate idee tecnico-stilistiche che di lì a poco avrebbero trovato pieno interesse e formulazioni teoriche (come quella della fotogenia) presso registi autori come Louis Delluc, Jean Epstein e Germaine Dulac. Questo accadeva perché «le figure dell’eccesso che contraddistinguono il genere possono essere facilmente tradotte in sperimentazioni di montaggio e di composizione» e, di conseguenza, «proprio la convenzionalità del tema funziona come utile pretesto per il progetto modernista di “ricerca”, volta a realizzare le potenzialità del cinema come nuovo linguaggio visivo»[1].
Se la figura di Abel Gance fu un po’ quella del padre per questa nuova generazione di cineasti, il suo Mater dolorosa fu tra i capostipiti di quello che in seguito sarebbe stato definito impressionismo francese. Tuttavia è opportuno precisare che, a differenza di L’Herbier, la forma del melodramma non è approcciata da Gance in maniera fredda o comunque distaccata, tutt’altro: quel genere, derivato dal teatro borghese, è per lui un’occasione per un’indagine psicologica dei personaggi e per veicolare messaggi universali, come si evince dalla sua ambizione negli anni successivi di voler dare l’avvio a un cinema francese epico e popolare, all’interno del quale il melodramma continua ad occupare un posto d’onore.
Gance era solito rimontare o sonorizzare i suoi film a seconda del particolare momento o anche a seconda del Paese in cui venivano esportati. Di Mater Dolorosa quindi – come di J’accuse (Per la patria, 1919) e Napoléon (Napoleone, 1927) – preparò più versioni. In questo caso poi egli girò anche un remake sonoro con lo stesso titolo, nel 1933, nel quale cambiano non solo gli attori ma anche i nomi dei personaggi e viene anche attutito lo scandalo della relazione adulterina di Marthe, in quanto lo scrittore non è più il fratello del marito, bensì un amico. Rispetto ai kolossal degli anni successivi, qui Gance lavora su un soggetto, scritto da lui stesso, che prevede pochi personaggi e pochi avvenimenti, concentrando la propria attenzione sulla composizione del quadro e sulla fotografia. Per quanto riguarda l’aspetto tematico, è interessante notare come il triangolo amoroso che oppone due uomini a una donna – abusatissimo nel genere melodrammatico, quasi paradigmatico – sia declinato in un rapporto molto particolare fra i due rivali: essi sono opposti nel fisico e nel carattere (brutale e/o pragmatico l’uno, fragile e/o artista l’altro), ma nessuno dei due è il “cattivo” da eliminare per riunire la coppia felice. Anzi, in questo caso, la morte di Claude, che avviene molto presto, permane sotto forma di assenza e di colpa nell’orizzonte emotivo di Marthe e aleggia come una minaccia per Giles che, pur non conoscendo l’identità dell’amante della donna, giunge a sospettare della propria paternità. Simili traiettorie relazionali si ritroveranno, seppur con delle varianti, tanto in J’accuse e in La Roue (La rosa sulle rotaie, 1924), quanto nel primo film sonoro di Gance, La Fin du monde (La fine del mondo, 1931).
Rispetto alle regie ben più dinamiche o al montaggio a volte convulso dei capolavori successivi, qui a predominare è la particolare cura pittorica e atmosferica con cui il cineasta parigino immerge i suoi personaggi in morbidi chiaroscuri, li lascia emergere o inghiottire dal buio o li riduce a silhouette disegnate contro su una vetrata sullo sfondo, come avviene nella bellissima sequenza in casa dello scrittore Claude, durante il dialogo sofferto fra lui e Marthe, poco prima che il dramma si muti in tragedia. Oppure vela i tratti degli attori con tende semitrasparenti, come nella scena in cui Marthe e il marito, Gilles, appaiono per la prima volta sorridenti e felici insieme, uniti dall’amore per il piccolo Pierre. Altre scene si concentrano su ambienti vuoti o oggetti deputati a esprimere lo stato d’animo di un personaggio, come nel caso del velo nero lasciato cadere a terra da Marthe, dopo che il marito le ha sottratto il figlio. Dunque si tratta di “un nuovo uso della natura morta, un efficace uso degli oggetti scenici”, come si espresse Colette in una recensione piuttosto entusiastica del film:
Convenite con me, che ci godo tanto, che l’azione si evolve in mezzo a luci di una ricchezza rara, a dei bianchi dorati, dei neri grassi e profondi; conservo anche nella mia memoria certi primi piani scuri, dove la testa parlante e supplicante della signora Emmy Lynn galleggia come un fiore reciso.[2]
Poche le scene che suonano un po’ gratuite e leziose, come quella del piccolo Pierre a cavallo del Pony, dentro casa, dopo che avevamo già visto in precedenza un primo piano del bambino e dell’animale, di profilo, davanti a una fontana. Di fatto, uno dei pregi di Mater dolorosa, rispetto ad altri film di Gance, è proprio la poca dispersione e anzi l’estrema concentrazione, non tanto sulla vicenda in sé quanto sui sentimenti dei personaggi, e in particolare quello di Marthe, ritratta in innumerevoli primi e primissimi piani.
In almeno due scene esemplari, Gance utilizza il montaggio in funzione “impressionistica” e direi musicale. Nel primo caso nella scena in cui Gilles, sprofondato in una poltrona, affranto, ripensa ai bei momenti felici vissuti con la moglie in quegli ultimi anni, momenti che sono riproposti a mo’ di refrain in immagini che, sol senno di poi, comprendiamo essere già immagini-memoria sin dal loro primo apparire (la citata sequenza dei due, sorridenti dietro a una tenda). Alla figura di Gilles e alle immagini-memoria si alternano anche le inquadrature che ritraggono Marthe, sola, in preda a un profondo turbamento per l’assenza del figlio, di modo che entrambi, marito e moglie, separati dallo spazio e dai loro contrapposti sentimenti, ci appaiono in qualche modo ancora uniti da ricordi condivisi che li dilaniano.
L’altra sequenza simile, giocata però solo su Marthe, è quando la donna si reca all’ospedale per cercare Pierre. La vediamo avanzare e poi fermarsi, lasciando vagare gli occhi tra i lettini occupati da altri bambini, che a volte scambia per suo figlio. Gance alterna questa inquadratura in campo medio con dei primi piani stretti da un mascherino, in cui il viso di Marthe, proiettato su uno sfondo improvvisamente neutro, è isolato ancor più dall’ambiente circostante. In tal modo la sequenza viene fortemente soggettivizzata facendo del primo piano quello strumento che Epstein indicava come espressione dell’«anima del cinema», o anche «dramma in presa diretta»[3]. La raffinatezza del découpage di Gance sta proprio nello scegliere il momento giusto per un primo piano, in modo che esso non tanto esprima il culmine emotivo di un personaggio, bensì generi quello stesso culmine emotivo nello spettatore.
La penultima sequenza, in cui Gilles conduce con sé la moglie in macchina, dicendole che la sta portando dal figlio – lei non sa ancora se sia vivo o morto – è girata col camera-car e sembra anticipare i momenti più dinamici dei film successivi. Nell’alternarsi del campo-controcampo che mostra Marthe che guarda fuori e il paesaggio che scorre di lato, la sequenza raggiunge il suo apice quando appaiono le croci di un cimitero e Marthe, inorridita al pensiero che il figlio si trovi sotto una di quelle lapidi, istintivamente tende un braccio in avanti con la mano aperta, come per cancellare quella terribile visione. Ma la macchina prosegue la sua corsa: non era il cimitero la meta.
Vittorio Renzi (3 dicembre 2017)
Mater dolorosa
[Desiderata / The Torture of Silence]
Francia, 1917
regia e sceneggiatura: Abel Gance
fotografia: Léonce-Henri Burel
produzione: Louis Nalpas, per Le Film d’Art
cast: Emmy Lynn (Manon Berliac), Firmin Gémier (Emile Berliac),
Armand Tallier (François Rolland), Anthony Gildès (Jean),
Paul Vermoyal (Jean Dormis), Gaston Modot
lunghezza: 5 rulli, 1.510 metri
durata: 70′
première: 7 marzo 1917
[1] Richard Abel, Il cinema francese verso un mutamente paradigmatico, 1915-29, in G.. Brunetta, Storia del cinema mondiale III. L’Europa. Le cinematografie nazionali, Torino, Einaudi, 2000, vol. 1, pp. 303 e 304.
[2] Colette, “Le Film”, 4 giugno 1917, in Paola Palma, La vagabonda dello schermo. Colette e il cinema, Padova, Esedra Editrice, 2015.
[3] Jean Epstein, Bonjour cinéma, Paris, Editions de la Sirène, 1921, in L’essenza del cinema, Biblioteca di Bianco & Nero, 2002, pp. 30 e 32.