Sam Taylor, Fred C. Newmeyer
Una didascalia ci introduce così al film: «Ricordate quei giorni di gioventù in cui andare al college era più bello che andare al Congresso… e avreste preferito essere tackle destro a football che Presidente?». Il “freshman” al college è il novellino, lo studente del primo anno, l’agnello sacrificale: ed è Lamb il cognome dell’alter ego di Lloyd in questo film. Preparandosi per la Tate University, Harold nella sua stanza legge un manuale sugli slogan che si urlano al college e inizia ad esercitarsi: le sue urla diventano didascalie animate, suoni onomatopeici. Suo padre, un radioamatore, dal salotto al piano di sotto sente quei suoni e sul momento crede si tratti di elettricità statica proveniente dalla sua radio, poi si convince di aver contattato la Cina. Harold è un fan della star cinematografica di un film intitolato «The College Hero» (un film dallo stesso titolo verrà realizzato effettivamente due anni dopo, nel 1927). Harold imita la mossa del protagonista con la quale questi si presenta di volta in volta alle persone: lo fa dapprima con suo padre, poi al college, con tutti quelli che incontra. Alla fine del film, osserverà con soddisfazione che tutti ripeteranno quel passo.
Se il ritmo incalzante del film conserva le sequenze più esilaranti per la seconda parte del film (l’allenamento del team di football a spese del povero Harold e poi la festa da ballo con l’abito che va scucendosi), la scena più romantica e deliziosa è il primo incontro fra Harold e Peggy (Jobyna Ralston) sul treno diretto verso la cittadina in cui si trova il college. I due siedono per caso allo stesso tavolo della carrozza ristorante e lei è intenta a fare le parole crociate. Harold si sporge verso di lei per vedere quale definizione sta cercando ed è «la persona che ami». Cominciano quindi a sciorinare ad alta voce tutta una serie di «sweetheart», «darling», «dearest», «precious». Una signora anziana che siede a un tavolo attiguo si volta verso di loro e li guarda con commozione e complicità e alla fine li abbraccia dicendo loro: «Non è meraviglioso essere innamorati?». E’ una gag di tipo verbale che si appoggia alle didascalie per ricavare il senso, ma è decisamente indovinata.
La comicità puramente fisica viene invece esibita con un numero che è un aperto omaggio al vaudeville: un numero nel numero, in realtà, con tanto di pubblico, che avviene sul palcoscenico della sala grande del college. La scena è introdotta dal panico in cui si trova il giovane timido, panico che viene espresso visivamente con uno sguardo in soggettiva “sfocata” di Harold sulla sala e sul pubblico. Tentando di mettere in piedi il numero, Harold si ritrova invece a subirlo, tra cuccioli di gatto che gli s’infilano sotto i vestiti e prese elettriche che gli procurano una scossa attraverso il suo bastone. Alla fine il giovane pronuncia una battuta, sempre rubata dal suo film preferito: «I’m just a regular fellow and I want you to step up and call me Speedy» (Sono solo un ragazzo qualunque, fate un passo avanti e chiamatemi Speedy). Battuta in cui risiede lo spirito stesso del personaggio (di tutti i personaggi) di Lloyd, sospeso tra il desiderio di conformismo («I’m just a regular fellow») e l’arrivismo e il riconoscimento da parte degli altri, il potersi considerare speciale (il soprannome, Speedy, che sarà poi ripreso nel film omonimo di pochi anni dopo).
Dopo aver dilapidato un patrimonio in gelati offerti ai colleghi dell’università, Harold si ritrova nella sua stanza e, pulendo uno specchio lurido, appare alle sue spalle il volto di Peggy, come un desiderio incarnato. Per farla rimanere lì, mentre lei gli ricuce un bottone sulla camicia, Harold ne strappa via un altro, e poi un altro. Sono gag da commedia romantica, già più sophisticated che slapstick, ma che subito vengono accantonate in favore di una comicità più fisica e acrobatica, in pieno stile Lloyd. Nella scena in cui Harold mostra la propria tempra subendo di tutto, pur di essere accettato nella squadra di football (al punto da essere usato al posto del manichino per i placcaggi dei giocatori), a un certo punto la mdp inquadra solo la sua ombra sul suolo che traballa, frastornata dai colpi. Segue una gag prima visiva, poi pensata in funzione del sonoro: Harold, in terra, pensa di essersi spezzato una gamba, invece è quella del manichino; poco dopo un uomo spezza un asse di legno proprio mentre Harold si china, e così lui pensa di essersi spezzato la colonna vertebrale.
Lo specchio torna durante il party: guardare da uno specchietto è l’unico modo attraverso cui l’umile Peggy, che lavora all’hotel, può partecipare alla festa che si tiene proprio lì nella pensione. Harold si è portato dietro un vecchio sarto che gli ha cucito un abito su misura alquanto “provvisorio”. La gag dell’abito che si scuce va avanti per tutta la sequenza della festa ed è la trovata più divertente in assoluto, declinata in numerose e varie trovate, sempre più surreali ed estreme. Ad un certo punto Harold si ritrova con le spalle rivolte a una tenda, oltre la quale il sarto, nascosto, gli sta ricucendo uno strappa a una delle maniche della giacca. Non potendo dunque usare la propria mano, Harold afferra quella del sarto fingendo che sia la propria: una gag simile era stata adoperata già da Chaplin in A Dog’s Life (Vita da cani, 1918). Lloyd la rende ancora più esagerata e divertente: per farsi ricucire i calzoni finge di sedersi a un tavolo, ma in realtà è sdraiato a pancia in giù in modo che il sarto possa compiere il suo lavoro. Ma dopo averlo punto più volte con l’ago, alla fine il sarto gli cade addosso e Harold inizia a scomparire sotto il tavolo. La situazione non può che precipitare nel più assurdo dei modi, con Harold che alla fine si ritrova in mutande in mezzo ai suoi invitati, ma almeno ha trovato l’amore della sua vita.
Oltre a quella della schiena rotta, sono molte le gag sonore/verbali rispetto a Safety Last (Preferisco l’ascensore, 1923), che pure lo precede di soli due anni: sembrerebbe un ulteriore esempio di quanto il cinema fosse già orientato verso una profonda trasformazione e stesse ripensando le proprie strategie in funzione del sonoro (ancora in fase di sperimentazione), malgrado le resistenze che molti opponevano alla novità, proprio nel settore del cinema comico (Chaplin in testa). Nella stessa direzione vanno le didascalie animate all’inizio, quanto Harold prova gli slogan del college. Finita la festa, dopo aver scoperto la verità, è cioè di essere sempre stato lo zimbello di tutta l’università, Harold scoppia a piangere, ma Peggy lo esorta a tirarsi su e ad essere sempre se stesso, e non ciò che gli altri vorrebbero che fosse. Ma quello di Harold Lloyd è un personaggio dominato dal conformismo e dall’ambizione e questo film ne è il paradigma.
L’ultima parte segna infatti la faticosa rivincita di Harold durante un match decisivo di football al quale finisce per partecipare, malgrado l’ostruzionismo dell’allenatore. Dopo una serie di classiche gag in cui Harold dà prova ancora una volta di essere un inetto (memorabile quella in cui, anticipato da un carrello a precedere, corre verso la meta stringendo al petto, anziché il pallone, il cappello che uno spettatore ha lanciato in campo), il film si chiude con il trionfo all’ultimo minuto della sua squadra, trionfo dovuto proprio a lui. E Harold diventa un eroe, benvoluto e amato da tutti. Addirittura il suo allenatore, che lo detestava, inizierà a imitare la sua mossa (quella che lo stesso Harold aveva ripreso dal suo film preferito). Dunque la morale alla fine è ben diversa dal “sii te stesso” suggerito da Peggy: se non puoi essere come gli altri, sii migliore, diventa il più popolare fra tutti in modo che alla fine tutti ti acclamino e ti amino. Essere al tempo stesso uguale agli altri, ma elevarsi al di sopra degli altri: ovvero l’ambiguità e l’ipocrisia che da sempre pervade il “sogno americano” e che sarà una costante di molte commedie americane, spesso basate su una diversità che non esita però ad auto-rinnegarsi in nome di una presunta “normalità”, che altro non è che il bisogno di essere accettati dalla società. Ed è questo il perfetto compimento del personaggio lloydiano.
Il film, che rimane comunque un capolavoro della comicità del suo protagonista, si conclude poi con la deliziosa scena di Harold che, negli spogliatoi, legge una lettera di Peggy e, senza accorgersene, attiva il rubinetto della doccia, ma è talmente al settimo cielo che neanche se ne accorge.
Due decenni dopo Harold Lloyd, diretto da Preston Sturges, tornò a rivestire i panni di Harry Lamb in una pellicola malinconica e poco apprezzata dal pubblico, The Sin of Harold Diddlebock (Meglio un mercoledì da leone, 1947), che si apre riproponendo la celebre scena della partita finale di The Freshman. Fu la sua ultima apparizione sul grande schermo.
Vittorio Renzi (17 gennaio 2017)
The Freshman (Viva lo sport!)
Usa, 1925
regia: Sam Taylor e Fred C. Newmeyer
sceneggiatura: Sam Taylor, Ted Wilde, John Grey e Tim Whelan
fotografia: Walter Lundin
montaggio: Allen McNeil
musica: Don Hulette (1974), Jeffrey Vance (2002)
scenografia: Liell K. Vedder
produzione: Harold Lloyd, per Harold Lloyd Corporation
cast: Harold Lloyd (Harold Lamb), Jobyna Ralston (Peggy), Brooks Benedict, James Anderson,Hazel Keener, Joseph Harrington, Pat Harmon
lunghezza: 7 rulli, 2.098 metri
durata: 76’
première: 20 settembre 1925