Luigi Romano Borgnetto e Vincenzo Denizot
SINOSSI: Di sera, in una strada isolata, una giovane fugge inseguita alcuni uomini. Rifugiatasi in un cinema, assiste alle avventure di Maciste narrate nel film “Cabiria”. Poco tempo dopo una lettera viene recapitata presso gli studi dell’Itala Film, dove lavora Bartolomeo Pagano, l’attore che interpreta Maciste in Cabiria. Nella lettera, la ragazza richiede il suo aiuto e gli dà appuntamento per raccontargli la sua storia. Maciste si reca così al luogo indicato e qui la giovane gli racconta delle vessazioni che sta subendo da un suo zio malvagio, il duca Alexis, che cerca con ogni mezzo di impadronirsi della sua cospicua eredità. Naturalmente l’uomo decide di aiutarla.
Maciste è, con buona probabilità, il primo caso di spin-off nella storia del cinema e questo ci dice della fortuna e della simpatia che il personaggio interpretato da Bartolomeo Pagano riscosse presso il pubblico sin dalla sua prima apparizione in Cabiria (1914), di Giovanni Pastrone. Maciste comparve come protagonista unico in una folta saga composta da una ventina titoli, che percorre cronologicamente l’intera storia del cinema muto italiano e lo vede in azione in ogni sorta di ruoli e ambientazioni[1]. Nel secondo film della saga, Maciste alpino (1916), diretto da Luigi Romano Borgnetto e Luigi Maggi, l’eroe forzuto, viene “mobilitato” come soldato sulle montagne, nell’occasione dell’ingresso italiano nella Prima guerra mondiale. Maciste divenne così, fra le altre cose, anche il beniamino dell’Italia “forte” e nazionalista che si identifica nel nascente Fascismo (anche se, a quanto sembra, Pagano si rifiutò di prendere la tessera del partito). Inoltre, diede l’impronta a tutta una serie di altri personaggi simili, dalle fortune alterne, interpretati da altri attori:
Da Maciste discendono Luciano Albertini (Sansonia), Domenico Gambino (Saetta), Alfredo Boccolini (Galaor), Mario Guaita (Ausonia), Carlo Aldini (Aiax), tutti personaggi di acrobati che trasferiscono nel cinema le loro capacità, riuscendo per alcuni anni a competere coi film americani.[2]
La prima sequenza vede una ragazza, inseguita da due uomini, che si rifugia in un cinema dove viene proiettato Cabiria. Una didascalia avverte: «Quella sera ancora, dopo infinite repliche, il film Cabiria aveva riempito la sala». La macchina da presa, posta in fondo al teatro, in un angolo, riprende diagonalmente il pubblico di spalle, in platea e sugli spalti, e il grande schermo su cui viene proiettato il film. Questo fatto serve a comprendere quanto Cabiria, uscito l’anno prima, fosse già per il pubblico coevo un fenomeno culturale imprescindibile, non solo per il suo enorme successo, ma anche perché grazie ad esso – e al suo precursore, Quo vadis (1913) di Guazzoni – si iniziò a guardare al cinematografo come a una nuova forma artistica, e non più soltanto uno spettacolo da fiera. Si tratta anche di un’autocelebrazione della Itala Film di Pastrone (che aveva rilevato la ditta torinese nel 1908), tanto è vero che, in una scena di poco successiva, vediamo gli esterni degli studi.
La scena mostrata nel cinematografo che colpisce la ragazza, è quella di Maciste che piega le sbarre della prigione in cui è rinchiuso, scena che scatena le fantasie della giovane che si convince di aver trovato finalmente l’uomo che può proteggerla. La fanciulla riesce a contattare l’attore e gli dà appuntamento sul Ponte Vecchio; Pagano si presenta in calzoni e giacca gessati, secondo la moda signorile del tempo. Mentre lei gli narra la sua storia, i flashback che mostrano le sue vicende e le didascalie si alternano al primo piano dei due seduti al tavolo di un’osteria.
Il primo film su Maciste ha dunque un’ambientazione contemporanea e per di più un’impronta metacinematografica, in quanto la ragazza si rivolge non già all’attore Bartolomeo Pagano, ma al suo personaggio, Maciste, che ritiene reale. La trama del film abbraccia di fatto questo “equivoco”, e, assecondando le fantasie degli spettatori più ingenui del tempo, gioca proprio sull’identificazione attore/personaggio. Di conseguenza, man mano che il film procede, il personaggio Pagano diventa a tutti gli effetti il personaggio Maciste, in grado di compiere imprese al limite dell’incredibile (ma pur sempre, almeno in questo film, in un contesto realistico). E le stesse didascalie, sia pure in tono bonario e ironico, si riferiscono al protagonista come a Maciste («Maciste può perdere la camicia, ma la vita mai!»). Rimane comunque indicativo che sia proprio il primo capitolo della saga, e non uno dei successivi, a sottolineare da subito questo aspetto dell’identificazione di un divo con il suo personaggio da parte del pubblico. Si tratta dunque di un’operazione consapevole e interessante, qualcosa di più di una semplice “exploitation” sul personaggio – come sarà invece per molti dei film successivi a lui dedicati – nonostante il film sia poi ricondotto interamente nei binari di una spettacolarità di sapore e spessore fumettistici.
Staccatosi completamente dal filone storico/mitologico che pure ha dato origine al personaggio, Maciste si inserisce piuttosto nel genere del cinema seriale avventuroso degli anni Dieci alla Feuillade. Contrariamente a quanto avveniva in Cabiria, infatti, qui Maciste non usa solo la sua forza, ma escogita anche diversi stratagemmi per portare a compimento la sua missione di salvataggio: come quando entra in una bettola travestito da vecchio, o quando, nella quinta parte, per penetrare nel palazzo del Duca Alexis, si concia da domestico nero, dipingendosi di nero (come il Maciste nubiano del film che gli aveva dato le origini). In queste occasioni, dunque il personaggio Maciste mette a frutto i trucchi del mestiere dell’”attore” Bartolomeo Pagano (nonché le strategie tipiche dei detective da feuilletton). Particolarmente rocambolesca la fuga dalla cascina di Valdeserta dove è stato rinchiuso, legato e bendato: dapprima, con le mani legate, afferra il bordo di un tavolino fra i denti e, con la sola forza della mandibola, lo solleva per riporlo sopra a un tavolo più grande; poi trova il modo di salire sul tavolo più grande e poi sul tavolino più piccolo e riesce così a sfondare le assi del soffitto, sopra al quale vi è la stanza in cui è rinchiusa la fanciulla. Scioglie le corde di lei con i denti e poi si fa liberare a sua volta. Infine, i due si calano dalla finestra della cascina con un lenzuolo e fuggono via.
Numerose le scene all’aperto, molte delle quali rivelano la grande qualità dell’illuminazione, che, assieme alla composizione delle inquadrature, all’uso del montaggio e agli “effetti speciali” (curati ancora una volta da Segundo de Chomón) testimoniano l’alto livello che la casa di produzione di Pastrone poteva oramai vantare.
Del metraggio originale del film, 1968 metri, ce ne rimangono oggi 1317. Il film è stato restaurato nel 2016 dal laboratorio L’Immagine Ritrovata di Bologna.
Vittorio Renzi (12 febbraio 2017)
Maciste
Italia, 1915
regia: Luigi Romano Borgnetto e Vincenzo Denizot
soggetto: Agnes Fletcher Bain
sceneggiatura: Giovanni Pastrone
fotografia: Augusto Battagliotti, Giovanni Tomatis
effetti speciali: Segundo de Chomón
produzione: Giovanni Pastrone, per Itala Film
cast: Bartolomeo Pagano (se stesso/Maciste), Clementina Gay (Josefina),
Didaco Chellini (duca Alexis), Amelia Chellini (madre di Josefina), Leone Papa (Ercole), Ada Marangoni, Felice Minotti,
lunghezza: 1317 metri; orig.: 1968
durata: 67′
[1] A seguire, la lista completa dei film che fanno seguito al capostipite: Maciste alpino (Giovanni Pastrone, 1916); Maciste atleta e Maciste medium (V. Denizot, 1918); Maciste poliziotto (Roberto Roberti, 1918); Maciste innamorato (Luigi Romano Borgnetto, 1919); La trilogia di Maciste (Carlo Campogalliani, 1920); Maciste salvato dalle acque e Maciste in vacanza (L.R. Borgnetto, 1921); Maciste und die Javanerin (Maciste umanitario, Uwe Jens Krafft, 1922); Maciste und die Tochter des Silberkönig (Maciste e la figlia del re dell’argento, L. R. Borgnetto, 1922); Maciste und der Sträfling Nr. 51 (Maciste giustiziere, L. R. Borgnetto, 1923); Maciste und die chinesische Truhe (Maciste e il cofano cinese, Carl Boese, 1923); Maciste e il nipote d’America (Eleuterio Rodolfi, 1924); Maciste Imperatore (e Saetta suo scudiero) (Guido Brignone, 1924); Maciste all’inferno e Il gigante delle Dolomiti (G. Brignone, 1926; Maciste contro lo sceicco (Mario Camerini, 1926); Maciste nella gabbia dei leoni (G. Brignone, 1926).
[2] Gian Piero Brunetta, Il cinema muto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 110.